La conclusione del mandato di Presidente della Fondazione Prof. Massimo D’Antona per il nostro Fabrizio Di Lalla ha coinciso con l’arrivo nelle librerie del suo nuovo libro “Un mondo a parte”, Edizioni Tabula Fati, Euro 16 .
E mentre volentieri ne diamo informazione dalle pagine di questa nostra Rivista, non possiamo non sottolineare che questo suo ultimo lavorosi discosta nettamente dalla produzione precedente, concentrata sul colonialismo italiano. Riguarda, infatti, un argomento dimenticato se non addirittura rimosso dalla nostra memoria collettiva: come vivevano gli italiani negli anni quaranta e cinquanta in una realtà profondamente diversa da quella attuale.
Nella prima decade degli anni quaranta la nostra società, soprattutto quella provinciale, almeno nella parte numericamente più consistente, vale a dire il mondo contadino, aveva mantenuto sostanzialmente i valori tradizionali, mentre la sua evoluzione procedeva al ritmo lento, in modo quasi impercettibile, del passato. Allora il nostro Paese era ancora prevalentemente rurale, con la sua massima concentrazione nel nord est e meridione della penisola, dove gran parte degli addetti, braccianti, fittavoli e piccoli proprietari di fondi improduttivi, conduceva la vita miserevole di sempre, legata a usi e costumi secolari, mentre i risultati delle scoperte scientifiche e del progresso tecnologico erano pressoché sconosciuti. I loro effetti positivi, infatti, riguardavano quasi esclusivamente il ceto borghese e avevano qualche riflesso sulle masse proletarie.
I contadini, invece, trascinavano la loro esistenza faticosa simile a quella dei loro avi secondo tradizioni e consuetudini che risalivano a tempi immemorabili su cui incombeva una religiosità non priva di elementi di superstizione. Essa, tuttavia, svolgeva un’importante funzione salvifica perché l’idea di un mondo migliore nell’aldilà contribuiva ad alleviare e sopportare le condizioni spesso disumane patite in terra, cariche di miseria, fame e malattie.
Una realtà questa appena sfiorata da un’impercettibile progressione economica e priva della possibilità di avanzamento sociale; una situazione di cui era difficile liberarsi se non con una via di fuga rappresentata, per circa un secolo, dall’emigrazione verso terre sconosciute per affrontare la quale occorreva una buona dose di coraggio o un sentimento di estrema disperazione.
La vita, d’altra parte, non era facile neanche per le altre classi sociali, salvo la ristretta elite dominante, perché la nostra era ancora una nazione povera e arretrata almeno rispetto alle altre società del mondo occidentale. Inoltre, agli antichi mali si erano aggiunti gli effetti deleteri della guerra disastrosa, durata cinque anni di cui quasi due combattuti sul nostro suolo e terminata con una dolorosa sconfitta. Pertanto, nel ricordare quei tempi, é difficile provare nostalgia o rimpianto se non per la perduta gioventù e la gioia di vivere a essa legata.
Poi, dalla seconda metà degli anni cinquanta, tutto da noi è cambiato a seguito di una vera e propria rivoluzione che in un decennio ha trasformato alla radice il tradizionale modello allineandoci alle nazioni più progredite. Sto parlando di quello che fu chiamato boom economico, una definizione molto riduttiva perché lo sviluppo di cui beneficiò tutta la popolazione, seppure con diversa gradualità, andò ben oltre tale aspetto incidendo profondamente anche su relazioni e avanzamenti sociali, sull’attività culturale e sui rapporti sessuali spazzando via gran parte dei tabù fino allora imperanti.
L’estensione, la profondità e soprattutto la rapidità di questa trasformazione hanno rappresentato una vera e propria cesura tra prima e dopo. I valori e il modo di vivere d’allora sono diventati progressivamente incomprensibili ed estranei ai nati degli anni sessanta e alle generazioni che si sono succedute nel tempo. Così un velo d’oblio è calato su quel periodo, determinando una situazione non positiva per la società perché la perdita della memoria storica può rappresentare un elemento che alla lunga corrode le basi su cui essa si poggia.
Bene ha fatto Fabrizio Di Lalla a ricordarcelo in un libro da leggere tutto d’un fiato nei suoi cinquanta racconti brevi, in cui una realtà a volte drammatica è narrata con levità attraverso i ricordi di quando era bambino.
[*] Segretario della Fondazione Prof. Massimo D’Antona
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