Riforma del lavoro partendo da nuovi Centri per l’Impiego
di Stefano Olivieri Pennesi [*]
Immaginare contenuti di un Jobs Act orientato anche a nuove politiche per il lavoro
Siamo nuovamente intenti a trattare la tematica dei Centri per l’Impiego pubblici operanti in Italia. L’approccio che si vuole adottare è di natura propositiva e quindi orientato anche a fornire spunti utili, al dibattito in atto, circa la progettualità e le ipotesi di interventi che si sostanzieranno nel programma operativo sulle politiche del lavoro e che confluiranno nel cosiddetto “ Jobs Act”.
Si ritiene, quindi, di estrema utilità esaminare, oggettivamente, l’attuale esistente sistema dei CpI partendo proprio dal primo e fondamentale Rapporto sul “Monitoraggio dei Servizi per l’Impiego” dello scorso dicembre 2013, voluto dal Ministero del Lavoro per conoscere, in dettaglio, l’organizzazione e le risorse umane applicate ai servizi pubblici per l’impiego, anello essenziale di un contesto teso a migliorare il funzionamento del nostro mercato del lavoro.
Tale rilevazione, non dimentichiamo, costituisce una base conoscitiva essenziale anche perché è frutto della ineludibile collaborazione con le autonomie locali ovvero Regioni e Province dalle quali attualmente sono sottoposti gli interventi e l’organizzazione dei 556 Centri esistenti in Italia.
Il punto di partenza imprescindibile che dovrebbe avere il cosiddetto Jobs Act, a parere dell’autore, non può non tenere conto in primis della esigenza di sottoporre all’egida di una Agenzia unica federale, avente promanazioni in ogni Regione, atta a coordinare ad indirizzare e sovraintendere le politiche dei CpI, ma al contempo a coordinare anche gli interventi in materia di formazione professionale e soprattutto ad attuare e governare l’erogazione di quelli che saranno i futuri ammortizzatori sociali ovvero gli strumenti passivi di assicurazioni e sostegno ai redditi, in buona sostanza coordinare le politiche sia attive che passive.
In tale prospettiva si potrebbe immaginare, l’azione attiva e conseguente governance, da parte della struttura pubblica centrale comprensiva delle sue diramazioni operative sul territorio, dove poter innestare, in modalità di avvalimento, una Agenzia Nazionale strumentale che potrebbe beneficiare di un primo livello infrastrutturale rappresentato dalle direzioni territoriali del lavoro, di una ulteriore diramazione supportata dagli attuali 556 CpI pubblici, attualmente operanti, ed infine, previa intesa da poter promuovere con la Conferenza Stato Regioni e la Conferenza Stato Città ed autonomie locali, con la compartecipazione ed intermediazione attiva della Conferenza delle Regioni e l’Anci (associazione comuni italiani) attuare un piano di implementazione attiva finalizzata a promuovere una capillarizzazione di uffici sfruttando la presenza pubblica delle autonomie locali, con un occhio alla spending review, evitando ulteriori costi logistici e di personale, in modo da riprodurre positivamente esperienze di estrazione anglosassone quali sono ad esempio “Job Matchpoint” che stanno facendo le loro prime apparizioni in alcune province virtuose del nostro Paese, supportate da reti di partner locali, sia pubblici che privati, tra i quali un ruolo determinante viene assunto dalle Agenzie private per l’impiego (citiamo al solo scopo chiarificativo gli esempi rappresentati dalla “Cittadeimestieri” promossa dalla provincia di Milano e da “Portafuturo” promossa dalla provincia di Roma).
Uno dei grandi problemi che ritengo sia prioritario affrontare, relativamente al rinnovamento / miglioramento / funzionamento dei CpI e quello legato da un lato alla loro numerosità e distribuzione sul territorio nazionale e dall’altro lato alla necessaria riforma dei servizi per l’impiego offerti per i quali si potrebbero innestare dei “sistemi di incentivazione”, che possono appunto premiare oltre che detti centri pubblici anche le coesistenti agenzie private per il lavoro, in termini di reali posti di lavoro procacciati e valutati con monitoraggi periodici costanti. In buona sostanza è ormai imprescindibile il problema di “agire” sui CpI che vedono fortemente pregiudicata la loro missione primaria, che è quella di intermediazione di lavoro, sempre più lontana dalla media dagli standard europei.
Per migliorare la regolazione del mercato del lavoro, e più in generale del sistema complessivo di welfare del nostro Paese, dovrebbe risultare lampante il bisogno di partire proprio da un apparato burocratico oggettivamente appesantito, nonché legato a funzionamenti amministrativi smisuratamente influenzati da iter obsoleti gestiti con risorse umane non sempre in grado di interpretare l’evoluzione del sistema lavoro nelle sue più moderne declinazioni. Quello che si intende rappresentare è la necessaria rivoluzione del funzionamento dell’apparato pubblico esistente deputato in primo luogo alla intermediazione/procacciamento delle opportunità occupazionali. E questo deve essere il primo passo da dover fare prima ancora di puntare ad una indispensabile azione incrementativa della rete dei CpI dotata di corrispondenti adeguate risorse umane aggiuntive tali da avvicinare, se non uguagliare, i servizi pubblici per l’impiego dei maggiori Paesi competitor dell’unione Europea, anche ricorrendo a funzioni espletate grazie ad una rinnovata e maggiore integrazione con i servizi privati.
Certamente, per affrontare meglio la tematica generale del funzionamento attuale dei CpI in una visione di evoluzione futura degli stessi, nel quadro complessivo di proposte collegate al Jobs Act, giova volgere lo sguardo a quanto accade ed è presente negli altri paesi europei, nel contesto complessivo del mercato del lavoro e relativi modelli di welfare state. Per tale ragione ci soffermeremo, per sommi capi, a quanto esaminato, approfonditamente, in una recente interessantissima pubblicazione edita da Maggioli e realizzata dalla ricercatrice italiana Prof.ssa Alessandra Sartori, che ci permette di osservare in maniera comparata gli aspetti legati ai servizi per l’impiego e alle politiche attive del lavoro in Paesi europei quali Gran Bretagna, Germania, Svezia. A tali nazioni, chi scrive, affianca l’osservazione del sistema francese supportandosi con gli studi svolti dalla dr.ssa Claudine Romani dirigente di ricerca del centro studi francese Cereq quale paese a noi più affine anche dal punto di vista socio culturale, nonché per le dinamiche occupazionali validamente confrontabili.
Passiamo ora, concretamente, ad esaminare elementi di particolare interesse emersi dagli studi condotti dalle sopra menzionate Alessandra Sartori e Claudine Romani circa: numeri, competenze e strutture dedicate alle politiche e ai servizi per l’impiego in alcuni Paesi Europei tra i quali Francia, Regno Unito, Germania Svezia.
Francia – in questo Paese lo Stato promuove e gestisce, a livello nazionale, le politiche per l’impiego per mezzo della struttura “Pole emploi”. Il sistema prevede, altresì, un decentramento a livello di regioni delle competenze in materia di formazione professionale. In tale contesto di grande interesse risulta la concorrenza ai servizi pubblici per l’impiego degli enti locali e associazioni territoriali francesi. I servizi per l’impiego vedono, inoltre, la partecipazione di organismi, sia pubblici che privati, che attuano per mezzo di apposite convenzioni interventi per l’inserimento, la formazione, l’accompagnamento di chi cerca lavoro. Tali sono organismi statali vari, come ad esempio camere di commercio e agenzie private per l’impiego e per il lavoro temporaneo. Dal 2008, anno di nascita del Pole emploi, si è individuato in tale organismo l’incardinamento di una serie di attività tra le quali il monitoraggio del mercato del lavoro, accoglienza e iscrizione delle persone in cerca d’impiego, offerta di servizi di accompagnamento, procedure di collocamento, pagamento di indennità di disoccupazione. Detto “Polo” esprime quali dimensioni un organico di circa 40.000 dipendenti distribuiti su circa 1700 sedi territoriali (fonte www.cereq.fr) frutto di una fusione di strutture emanazione sia della gestione pubblica che di quella privata. Tra le problematiche affrontate citiamo esemplificativamente: la necessità di un nuovo modello di governance che tenga conto di visioni da portare a fattore comune tra Stato, partners sociali, comunità territoriali, ristrutturazione geografica della rete di uffici; creazione in ogni Pole di equipe miste con varie professionalità che esprimano inoltre la figura di un “referente unico” da potersi affiancare a ciascun disoccupato.
Anche l’entità di lavoratore disoccupato in Francia viene sezionata in tre fattispecie caratteristiche che contemplano un differente impiego delle professionalità anzidette di referente unico. In tale quadro possiamo individuare una prima tipologia di referente/consigliere che opera su casistiche di relativa agevolezza e velocità nel (ri)posizionamento sul mercato del lavoro del lavoratore, con un carico di soggetti di 200/350 unità.
Un secondo livello di accompagnamento guidato-personalizzato è rappresentato da soggetti mediamente collocabili (per professionalità posseduta ovvero età anagrafica non più giovane) il consigliere avrà in questo caso un portafoglio utenti di 100/150 soggetti e la quasi totalità di applicazione lavorativa.
Una ultima casistica di referenti/consiglieri pubblici prevede l’affiancamento per i soggetti (lavoratori disoccupati) che hanno necessità di un “forte sostegno” per il loro rientro in impiego (disoccupati in età avanzata difficilmente riqualificabili) per questa tipologia il numero di soggetti da affidare ai referenti, in modalità esclusiva, si attesta alle 70 unità.
Per la figura di consigliere del Pole emploi la Francia ha attuato, fin dal 2008, per i suoi oltre 40.000 addetti un piano straordinario di formazione teso alla conoscenza della “cultura dell’altro” e complementi formativi per “apprendimenti sul posto di lavoro”. Si è inteso, inoltre, puntare alla “polivalenza con specializzazione” alla conoscenza e negoziazione dei contratti collettivi, nonché alla gestione tripartita della figura del consigliere del Pole emploi in consigliere di clientela, mediatore per il collocamento, gestione dei diritti giuridici ed economici. Per i servizi di collocamento, del Pole emploi francese, si prevede l’accrescimento dei loro numeri, entro il 2014, fino ad arrivare a circa 53.000 addetti, anche per fronteggiare meglio gli accresciuti numeri di disoccupati riducendo, al contempo, gli utenti in carico per unità.
Altro aspetto da evidenziare, nel sistema francese, è la presenza affiancata al Pole emploi delle cosiddette “Maisons dell’emploi” strutture presenti a livello locale che contribuiscono, quali attori principalmente privati, al sistema generale dell’intermediazione nel mercato del lavoro copresenza anche questa che non di rado produce distorsioni sugli interventi generalisti pubblici, ma anche dispersione e frammentazione delle politiche nazionali.
Regno Unito – servizi per l’impiego. La struttura ed organizzazione dei “Jobcentre Plus”, nel sistema Britannico, similarmente, a quello statunitense, si caratterizza da un approccio empirico rispetto all’implementazione delle politiche del lavoro che vengono introdotte in aree circoscritte del Paese la cui rigorosa valutazione verte sull’effettività degli esiti positivi degli interventi sull’occupazione.
Il Jobcentre Plus ha preso forma dalla fusione di due agenzie preesistenti, ovvero, la Benefit Agency, responsabile dell’erogazione delle prestazioni sociali e l’Employment Service, competente per i servizi al lavoro e specificamente al matching. L’organizzazione complessiva, fortemente centralizzata, è articolata in 37 distretti – Jobcentre Plus districts, ed è configurata come Agenzia esecutiva del Department for work and pensions, (Gov.UK).
Lo scopo del JobCentre è di collocare “quanto prima” disoccupati e soggetti inattivi nel mercato del lavoro, attraverso un servizio integrato duale, dove da una parte vengono forniti, amministrati ed erogati le diverse tipologie di sussidi, dall’altra parte vengono forniti orientamento, assistenza al lavoro ed altri programmi di politica attiva.
La figura cardine, per il funzionamento dell’Agenzia, è il “Personal Adviser” delegato ad individuare le differenti necessità dei clienti/utenti per offrire il tipo di servizio più appropriato. Tali figure di Advisers eseguono uno screening usando anche metodi psicologici nonché parzialmente discrezionali, con il fine di verificare l’effettiva occupabilità degli utenti, ripartita in alta, media e bassa. Il Personal Adviser con detto screening, modulato da una approfondita intervista, verifica la carriera lavorativa, svolta precedentemente dall’utente, le competenze e le capacità nonché le specifiche difficoltà oggettive d’inserimento lavorativo, proponendo soluzioni professionali e/o di formazione ovvero indirizzando verso uno dei programmi per disoccupati. In base a detto colloquio viene stipulata una “convenzione” che statuisce gli impegni del disoccupato, come anche le incombenze del Jobcentre che è impegnato ad adottare per facilitare la collocazione lavorativa.
Di grande interesse è anche l’aspetto inerente il contestuale miglioramento/perfezionamento della rete telefonica ed informatica che supporta i Jobcentre, grazie allo sviluppo coordinato dei “contact centres” lo strumento telefonico ed informatico risulta essere il canale privilegiato d’accesso al sistema che al contempo ha ulteriormente sviluppato i servizi online. Dalle abitazioni come dai terminali dislocati nei Jobcentre, ovvero presenti in altri luoghi adibiti al pubblico, è possibile inserire il proprio profilo professionale, aggiornarlo e controllare le offerte di lavoro disponibili (universal Jobmatch). Da questa piattaforma è inoltre possibile contattare online il proprio Adviser di riferimento per formulare domande/quesiti.
Ulteriore significativa recente innovazione, che ha prodotto concreti risparmi di tempo e risorse, è la possibilità, per i disoccupati, di richiedere online l’indennità di disoccupazione nonché di aggiornare la propria situazione personale ed economica, ai fini dell’ottenimento di tale indennità.
Il Jobcentre Plus eroga, altresì, servizi oltre che ai soggetti privi di lavoro, anche agli imprenditori che hanno bisogno di reclutare personale ovvero poter disporre semplicemente di informazioni sull’andamento del mercato del lavoro come anche pubblicizzare, in via diretta, le proprie disponibilità di posti lavorativi.
Nel Regno Unito, dove gli addetti alle strutture intermediative del lavoro sono circa 67000, diversamente da quanto avvenuto in Italia, non è mai esistito il sistema monopolistico pubblico del Collocamento (ad eccezione di limitati periodi nell’immediato dopoguerra). Questo ha fatto sì che le Agenzie private consolidassero il loro notevole rilievo nell’ambito del mercato del lavoro britannico, le stesse autorizzazioni pubbliche vengono rilasciate in maniera agevole, senza particolari formalità. Il coordinamento tra Agenzie private e servizio pubblico per l’impiego, non è stato mai particolarmente fattivo, questo anche per il fatto che storicamente i rispettivi bacini di influenza sono rimasti nel tempo sostanzialmente distinti.
Di notevole interesse, e quindi degno di segnalazione, è anche il sistema Britannico dei “Work Clubs” che traggono spunto dal modello americano antecedente gli anni 70 e che si sostanzia in strutture gestite da realtà territoriali quali: amministrazioni pubbliche locali, organizzazioni del terzo settore, camere di commercio, associazioni imprenditoriali, ecc. In tali ambiti possono accedere tutti i disoccupati, in qualsiasi fase del proprio percorso di inserimento, al fine di beneficiare di una serie di servizi offerti, che possono liberamente differenziarsi da Club a Club. Generalmente, comunque, tali servizi sono rappresentati da una “location accogliente” dove i disoccupati possono liberamente incontrarsi e condividere la conoscenza delle proprie esperienze, mettere a confronto ed interessarsi a nuove opportunità, allacciare reti relazionali, trovare nuovi stimoli motivazionali, beneficiare di assistenza professionale psicologica, legale, di marketing, ecc. Tali Work Clubs, quindi, possono opportunamente rappresentare un ambito di valido supporto ai JobCentre Plus al fine anche di non far incrementare la rischiosissima platea, dal punto di vista sociologico, dei cosiddetti giovani Neet, di coloro cioè che in quanto scoraggiati da difficoltà reali di assenza di prospettive lavorative smettono di cercare un lavoro o anche attivarsi per nuovi percorsi formativi o di studio, attuando, quindi, una sorta di “marginalizzazione sociale volontaria”.
Germania - In Germania la riforma istituzionale dei servizi per l’impiego è stata il preludio della più ampia riforma delle politiche del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali, risalente al 2004. Il maggiore elemento di discontinuità si è manifestato nella trasformazione da “ufficio federale per il lavoro” in “Agenzia federale per il lavoro” a sua volta diramata in Agenzie locali per il lavoro.
Tale modifica ha significato, concretamente, il passaggio da una struttura pesantemente burocratica e gerarchica, in una entità più agile ed operativa. Difatti le stesse Agenzie locali sono state concepite in Centri polifunzionali più rispondenti alle esigenze fortemente differenziate dell’utenza, e dove ogni ufficio aveva dei precisi obiettivi operativi collegati alla specifica situazione del mercato del lavoro locale. Le suddette Agenzie per il lavoro stipulano accordi con il Ministero del Lavoro federale tedesco, al quale spetta opportunamente la diretta supervisione per la corretta disciplina degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive, nonché, assistenza ai disoccupati.
L’agenzia federale, che opera come detto sotto la supervisione del Ministero del Lavoro, si articola in 176 Agenzie locali che a loro volta governano 610 succursali. L’agenzia federale impartisce ai livelli inferiori direttive tese a rendere omogenee le politiche del lavoro in tutto il Paese. Secondo il codice della sicurezza sociale dal 1998 l’Agenzia è competente in materia di erogazione dei servizi di orientamento, collocamento, formazione, politiche attive, sussidi di disoccupazione. Il sistema tedesco può disporre di circa 90.000 addetti ai servizi per l’impiego di cui circa 74000 appartenenti alle strutture pubbliche. Spostando un quantitativo crescente di personale amministrativo al front-line e al matching e assumendo ulteriore personale specializzato, si tende a diminuire il rapporto carico utenti per ogni operatore, al fine anche di garantire un servizio il più efficace e personalizzato possibile.
Similarmente al sistema britannico dei Jobcentre Plus, dal 2009 anche il sistema tedesco ha inserito la possibilità di dotare ogni Centro di un proprio budget finalizzato a servizi e programmi mirati al risultato in modo più individualizzato, incrementando quindi la sfera di discrezionalità. I centri adottano tecniche di “profiling” ovvero indagine conoscitiva dell’utente che si sono ulteriormente affinate dal 2009 distinguendo gli utenti del servizio per l’impiego in sei coorti (o gruppi omogenei). La prima indagine sul cliente/utente si esplica in una vera e propria intervista, della durata media di circa un’ora, alla quale seguono altri incontri cadenzati temporalmente e decisi in modo discrezionale dall’operatore. In Germania, contrariamente che in Inghilterra, gli addetti ai centri per l’impiego non hanno obiettivi specifici-targets ovvero numero di avviamenti da realizzare, ma bensì obiettivi di carattere generale. Questo rappresenta un aspetto positivo per supportare le effettive necessità del soggetto utente più che il rigido perseguimento di parametri di efficienza di risultati per l’ufficio di appartenenza.
Altro elemento d’interesse, riscontrabile nei servizi offerti dai centri per l’impiego tedeschi è la loro attività orientata alla clientela “datoriale” composta di circa 5000 operatori dedicati su tutto il territorio nazionale, rivolta principalmente alla esigenza di imprese medio-piccole ricadenti nella gestione delle risorse umane, loro addestramento permanente, riqualificazione e riconversione professionale.
Svezia – In questo Paese dal 2008 ha preso avvio la nuova struttura integrata per il mercato del lavoro, avente come prima caratteristica una maggiore indipendenza (rispetto al passato) nei confronti del Governo nazionale, nonché maggiore discrezionalità rispetto alla gestione e allocazione risorse. Concretamente è presente una Agenzia nazionale (centrale) collegata ad aree del mercato del lavoro locale. A livello di governance l’Agenzia è formata da un comitato direttivo con a capo un Direttore di nomina governativa. Localmente operano i CpI presenti in ogni città e attualmente sono circa 320 sui quali sono distribuiti circa 10200 addetti (fonte eurostat e Pes nazionali). La medesima Agenzia si compone di 11 divisioni con diverse attribuzioni con lo scopo primario di supportare l’attività di intermediazione e specificamente riabilitazione al lavoro, integrazione/inserimento lavorativo, analisi del mercato del lavoro, servizi legali, gestione finanziaria, strategia servizi all’impiego, rapporti con providers privati, ecc.
Il servizio pubblico per l’impiego svedese, segue tre linee guida fondamentali: realizzare un efficace incontro tra domanda e offerta di lavoro, tra lavoratori e imprese, agevolare e favorire training professionale aderente al mercato del lavoro, da parte dei cercatori di impiego, formazione adeguata per disoccupati di lunga durata e persone svantaggiate per una spendibilità nel mercato del lavoro. Recentemente, il servizio per l’impiego pubblico ha acquisito una nuova specifica mission per l’occupabilità di categorie di difficile collocazione, come gli immigrati e i lavoratori beneficiari di indennità di malattia in via di esaurimento.
La stessa riorganizzazione generale integrata dal sistema dei servizi per l’impiego ha previsto il maggior coinvolgimento degli attori privati da un lato, e dall’altro la fattiva cooperazione con le altre Agenzie e autorità pubbliche. Degna di particolare segnalazione è la collaborazione con gli istituti di detenzione per la ricollocazione di ex carcerati o reclusi autorizzati al lavoro esterno, collaborazione questa che si innesta con altre autorità pubbliche, come servizi sociali e Amministrazioni locali.
I centri per l’impiego svedesi sono il pilastro fondamentale dell’intero sistema dei servizi per l’impiego, in questi uffici si svolge il primo contatto col disoccupato. L’indennità di disoccupazione può essere erogata esclusivamente se lo stesso disoccupato risulta regolarmente iscritto al Centro. Ogni lavoratore è affidato alle cure del tutor, che solitamente permane per tutto il periodo di disoccupazione. Tale figura concorda con l’utente un piano di azione individuale della durata media di sei mesi, sulla base del quale vengono proposte successivamente al lavoratore occasioni formative o di lavoro. Il servizio per l’impiego rende pubblici periodicamente dati aggregati relativi alle diverse politiche del lavoro e servizi offerti, come anche report sull’attività svolta dai diversi centri locali sulle rispettive performance e gli eventuali scostamenti dai target prestabiliti.
In Svezia, diversamente da altri Paesi europei, è presente una rete di agenzie di collocamento alternative (non pubbliche ne private) promosse dalle parti sociali che si occupano di sostenere finanziariamente, in modalità assicurativa, i lavoratori ma anche di organizzare servizi di interposizione domanda/offerta di lavoro. Alla base di queste agenzie vi sono i contratti collettivi sottoforma di “accordi di transizione” che sono diventati un elemento caratteristico del mercato del lavoro svedese.
Ad oggi tale tipologia di accordi copre oltre la metà dei lavoratori svedesi appartenenti sia alle alte professionalità che alle maestranze operaie e impiegatizie inferiori, del settore privato, da ultimo un accordo similare è stato raggiunto per i dipendenti degli enti locali che assommano a circa 1 milione di lavoratori alla già vastissima platea.
Torniamo quindi ad argomentare, dopo aver esaminato il funzionamento e la struttura delle entità pubbliche dei servizi al lavoro e/o dei Centri per l’Impiego presenti in Francia, Germania, Gran Bretagna, Svezia, sul sistema o per meglio dire la sua prossima evoluzione e trasformazione dei nostri CpI.
Tali centri pubblici, in abbinata alle Agenzie private, ma anche alle realtà riconducibili alle Università, alle Autonomie locali, alle organizzazioni sindacali datoriali e/o dei lavoratori ecc. a parere di chi scrive dovrebbero rappresentare lo snodo fondamentale e pietra angolare del Jobs Act attualmente dibattuto. E proprio in tale contesto che dovrebbe innestarsi altresì il Piano Nazionale di Garanzia Giovani che porta con se, in dote, una quantità di risorse comunitarie, per circa 1,5 miliardi di euro. La strategia generale è stata, per tale piano, maturata all’interno della Struttura di Missione creata ad hoc presso il Ministero del Lavoro, in applicazione al dl n.76/2013, nella quale si sono confrontati gli attori primari oltre allo Stato (Mlps, Pcm, Mef, Miur, Mise) rappresentanti delle Regioni, Enti locali, Inps, Isfol, Italia Lavoro, Unioncamere.
Lo scopo primario della Garanzia Giovani dovrebbe quindi essere sintetizzato nella necessità di trovare una opportunità per ogni giovane, in un lasso di tempo “ragionevole” tale da essere realmente definita azione di politica attiva rivolta alla persona prendendosene cura. Per fare questo è necessario disporre di risorse umane idonee ad operare in percorsi di “accompagnamento” siano esse incardinate nell’Amministrazione pubblica, siano dipendenti da strutture private.
Il timore che la gran parte delle suddette risorse vengano impiegate per il potenziamento delle strutture pubbliche dei servizi al lavoro svolti dai CpI, ritengo debbano essere fugate, almeno in parte poiché è giusto intervenire agendo sulla leva dell’orientamento al risultato e non soltanto sulla mera offerta del servizio, perseguendo lo scopo prioritario di “condurre” effettivamente i cercatori d’impiego al “concreto lavoro”. In tale ottica una virtuosa concorrenza tra centri pubblici e agenzie private, nonché con le altre strutture operanti in ambito intermediativo del lavoro, può soltanto volgere al bene della collettività, rappresentando al contempo il sistema premiante, anche dal punto di vista economico, da far beneficiare agli attori/operatori primari del sistema delle politiche attive sul lavoro.
In questo contesto i programmi territoriali d’intervento sul procacciamento e sostegno, sul fronte delle politiche occupazionali, dovranno certamente allinearsi rispetto ai costi standard e ai tempi di attuazione del servizio offerto anche a livello regionale garantendo, possibilmente, margini di autonomia. Offrire opportunità di inserimento e reinserimento nel mondo del lavoro deve rappresentare la stella polare per l’emanando Jobs Act. Risulta d’importanza primaria la drastica riduzione della platea di “inattivi” nel nostro Paese come anche nell’intero perimetro europeo. Non di minor importanza però deve essere l’altro aspetto del nostro mercato del lavoro, quello inerente le cosiddette politiche passive, ovvero, gli strumenti pubblici che supportano il passaggio involontario del lavoratore dallo stato di attività allo stato di inattività occupazionale.
Ebbene, proprio la tradizionale visione “assistenzialistica” storicamente presente in Italia, ha reso particolarmente usurati gli strumenti definiti quali politiche passive. La soluzione ai problemi di crisi occupazionali vanno ben oltre al ricorso temporaneo alle varie tipologie di ammortizzatori sociali (cassa integrazione ordinaria, straordinaria, in deroga) infatti, purtroppo, soprattutto in epoche segnate da cicli economici recessivi, gli strumenti assistenziali di sostegno al reddito mitigano gli effetti distorsivi dell’assenza di lavoro ma, al contempo, a causa di eccessivi periodi di concessione (in assenza di ricerche di soluzioni alternative) provocano una sorta di atrofizzazione dell’intero sistema Paese, dove la fiscalità generale viene esposta a stress finanziari moltiplicativi di deficit. Ma la crisi occupazionale tocca una molteplicità di categorie sia quelle tutelate da ammortizzatori, sia quelle che non lo sono come i “lavoratori atipici” ma come anche i professionisti. È quindi indispensabile prevedere in un Jobs Act efficace una copertura pensata sottoforma di sussidio di disoccupazione, anche per chi oggi non ha protezioni di sorta, ricorrendo magari ad una rimodulazione Cig in deroga e alla riconfigurazione e razionalizzazione degli altri sussidi esistenti.
È proprio necessario quindi, nell’altro versante d’interesse del Jobs Act, mettere in campo un sistema realmente funzionante di intervento attivo su politiche del lavoro, dove una capillarizzazione dei Servizi all’impiego, accompagnata dalla rinnovata e ampliata presenza di risorse umane dedicate, possa costituire il giusto compendio al procacciamento di nuove opportunità occupazionali accessibili alla più ampia platea, dove anche la formazione e riqualificazione professionale possa costituire la nuova chance per coloro che perdono il lavoro, ovvero, una semplice chance per coloro che si affacciano per la prima volta, da giovani, nell’universo lavorativo. Per questa platea di forza produttiva potrebbero ben congegnarsi uno strumento, quale sussidio di disoccupazione di tipo universale, per altro presente nella grandissima parte dei coesistenti paesi europei, che possa essere ben governato e vigilato da una rinnovata struttura dei CpI pubblici, i quali dovrebbero avere come missione fondamentale quella di procacciare opportunità lavorative, magari utilizzando al meglio un sistema informativo nazionale integrato, posto sotto il controllo di una idonea “Agenzia nazionale”. Ridurre, pertanto, per quanto possibile e compatibilmente alle singole realtà nazionali, periodi di mancato impiego di forza lavoro disponibile, migliorando di conseguenza i risultati in termini di abbattimenti degli status di disoccupazione e quindi di erogazione complessiva delle indennità collegate.
Un altro aspetto essenziale, che si ritiene di evidenziare, è la possibilità di aumentare, in maniera esponenziale, i luoghi che definirei di supporto ai CpI dove poter offrire, almeno in modalità basica, un punto di “contatto e connessione” con il “sistema informativo nazionale” possibilmente assicurato con l’assistenza di personale dedicato in veste di “tutor” di servizio. Tale rete potrebbe quindi essere rappresentata, come già ipotizzato in altri saggi da chi scrive, dalla presenza sul territorio delle case comunali in tutte le circa 8100 municipalità, ma anche eventualmente, in convenzione, dei circa 14000 uffici di Poste Italiane, nonché in tutte le sedi universitarie del Paese.
Tale “atomizzazione” di veri e propri uffici e servizi, da far nascere sottoforma di “house o corner” dedicati al lavoro, potrebbe concretamente realizzarsi oltre che ottimizzando infrastrutture esistenti, come si è tentato di sintetizzare anzi, anche mettendo in essere iniziative sperimentali riconducibili al “Projet Financing”. Questo, anche alla luce di esperienze già vissute come quanto fatto con la realizzazione ed il recupero degli spazi nell’area dell’ex mattatoio del Comune di Roma, che ha visto impegnate proficuamente risorse private e pubbliche nella creazione di spazi espositivi, museali, sale convegni, servizi di ristoro, attività artigianali e professionali, nonché la sede multifunzionale “Portafuturo” quale location di riferimento tra i diversi Centri per l’Impiego della Provincia di Roma.
Altro esempio, degno di menzione, è quello realizzato dalla Provincia di Milano con la “Città dei mestieri” (speculare all’esperienza spagnola di Barcellona) ulteriore esempio pluripartenariale dove hanno portato a fattor comune, nel progetto, soggetti pubblici e privati, sia operativi che finanziatori, con lo scopo di creare sinergie e complementarietà all’interno di uno spazio dove l’utente asseconda i propri bisogni concependo itinerari di formazione, riqualificazione, aggiornamento, non in solitudine, ma bensì utilizzando un sistema integrato di relazioni, servizi, luoghi, opportunità, tecnologie. Tale sistema supporta parimenti non solo il singolo ma l’intera filiera che ruota nell’universo lavoro: imprenditori, aziende, professionisti, università, associazioni imprenditoriali, sindacati, enti e associazioni non profit, ecc.
La forza lavoro è sicuramente un “bene inestimabile” e aggiungerei un “valore non negoziabile”, l’inoccupazione o per meglio dire il non fare nulla, come per la categoria dei Neet, va aggredita come un male sociale, poter disporre realmente di un sistema integrato, a favore dei soggetti in stato di disoccupazione, deve far convogliare, massivamente, l’insieme di offerte lavorative, formative, di inserimento, di apprendistato, di stages, di sostegno all’avvio di attività imprenditoriali autonome. Tale strumento nazionale, dotato di massima visibilità, accessibilità e fruibilità, dovrà permettere una contendibilità di chi cerca lavoro, su tutto il territorio, e dovrà necessariamente conciliarsi ed avvalersi delle diverse iniziative assunte e/o programmate dalle Regioni e dagli altri attori dell’intero sistema. Questo nuovo quadro di interventi nazionali può sicuramente trarre spunti ed esempi dal funzionamento del sistema politiche per il lavoro, adottato in altri Paesi del perimetro comunitario, beneficiando quindi di esperienze già vissute e che hanno prodotto concreti risultati sul fronte occupazionale e di sussidi e sostegno al reddito, per la forza lavoro posseduta dalla nostra nazione.
[*] Professore a contratto c/o Università Tor Vergata, Roma – titolare della cattedra di “Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro”. Il Prof. Stefano Olivieri Pennesi è anche Dirigente del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
Ogni considerazione è frutto esclusivo del proprio libero pensiero e non impegna in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza ai sensi della Circolare del Ministero del Lavoro del 18-3-2004.
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