Tra gli obiettivi del D.L. 12 luglio 2018 n. 87, c.d. Decreto Dignità, convertito con modificazioni in Legge 9 agosto 2018 n. 96, c’è quello di superare la precarietà attraverso una stretta sui contratti di lavoro a tempo determinato. La nuova normativa, in sintesi, modifica la disciplina sul lavoro a termine introdotta dal Jobs Act (D.Lgs n. 81/2015), con riferimento ai limiti di durata, ai limiti e ai presupposti per i rinnovi e le proroghe, alla forma del contratto, al termine di decadenza per l’impugnazione del contratto medesimo, all’aumento del contributo addizionale e al nuovo tetto percentuale dei lavoratori a termine “assumibili” dalle aziende. Ma, andiamo con ordine e vediamo cosa cambia nel dettaglio.
Dal 14 luglio 2018, data di entrata in vigore del D.L. n. 87/2018, ai contratti di lavoro subordinato si può apporre un termine di durata non superiore a dodici mesi. Per detti contratti di lavoro a termine nulla cambia, nel senso che sarà ancora possibile assumere liberamente e senza necessità di apporre una causale giustificativa. Lo stesso discorso vale per le proroghe entro i primi dodici mesi. In sede di conversione del Decreto, in punto, è stata definita una regola di automatismo secondo la quale, se un contratto a termine dura oltre i dodici mesi in assenza di causale si trasforma a tempo indeterminato a partire dalla data di superamento del termine di dodici mesi.
Il contratto a termine, ad ogni modo, potrà avere una durata massima complessiva fino a ventiquattro mesi, ma solo in presenza di almeno una delle seguenti condizioni: a) esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori; b) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria. Questo significa, quanto alla causale di cui alla lettera a), che l’esigenza dell’azienda deve essere oggettivamente verificabile nella sua dimensione temporale e straordinaria rispetto alla normale e rutinaria attività lavorativa aziendale; mentre la motivazione relativa alla sostituzione di lavoratori, ritengo faccia riferimento alla sostituzione di quei lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto (es.: maternità, malattia, infortunio etc.). Quanto alla causale di cui alla lettera b), le esigenze connesse all’incremento dell’attività lavorativa, oltre ad essere temporanee, devono essere imprevedibili e rilevanti al punto da non potervi fare fronte con la forza lavoro in organico.
Per stabilire se ci si trovi in presenza del suddetto obbligo, precisa la circolare del Ministero del Lavoro n. 17 del 31-10-2018, si deve tener conto della durata complessiva dei rapporti di lavoro a termine intercorsi tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, considerando sia la durata di quelli già conclusi, sia la durata di quello che si intende eventualmente prorogare. La circolare richiama l’esempio di un primo rapporto a termine della durata di 10 mesi che si intenda prorogare di ulteriori 6 mesi. In tal caso, anche se la proroga interviene quando il rapporto non ha ancora superato i 12 mesi, sarà comunque necessario indicare le esigenze sopra richiamate in quanto complessivamente il rapporto di lavoro avrà una durata superiore a tale limite, così come previsto dall’art. 19, comma 4, del D.Lgs. n. 81/2015. In sostanza, la c.d. “causale” è sempre necessaria quando si supera il periodo di 12 mesi, anche se il superamento avviene a seguito di proroga di un contratto originariamente inferiore a 12 mesi.
È bene ricordare, inoltre, che i ventiquattro mesi si calcolano sommando anche i periodi di missione nell’ambito di somministrazioni di lavoro a tempo determinato e che non vanno conteggiati i periodi di lavoro a termine tra il lavoratore e le altre aziende del medesimo gruppo imprenditoriale. Il calcolo, è parimenti bene evidenziarlo, deve far riferimento a lavoratori che svolgono mansioni di pari livello e categoria legale.
La regola della durata fino a ventiquattro mesi, tuttavia, potrebbe essere superata qualora la contrattazione collettiva preveda una durata massima diversa, atteso che il Decreto Dignità non ha modificato il D.Lgs n. 81/2015 nella parte in cui (art. 19, comma 2°) fa salve le diverse disposizioni dei contratti collettivi in tema di durata dei contratti a termine. Ciò significa che i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, potranno continuare a prevedere una durata diversa, anche superiore, rispetto al nuovo limite massimo dei 24 mesi. In punto, la circolare n. 17/2018 del Ministero del Lavoro ha precisato che le previsioni contenute nei contratti collettivi stipulati prima del 14 luglio 2018, che – facendo riferimento al previgente quadro normativo – abbiano previsto una durata massima dei contratti a termine pari o superiore a 36 mesi, mantengono la loro validità fino alla naturale scadenza dell’accordo collettivo. Il D.L. n. 87/2018 non ha, invece, attribuito alla contrattazione collettiva alcuna facoltà di intervenire sul nuovo regime delle condizioni.
Dopo i ventiquattro mesi, considerato che il Decreto in commento non ha abrogato il “contratto assistito” previsto dal 3° comma dell’art. 19 del D.Lgs n. 81/2015, si potrà ancora prorogare o rinnovare il contratto per ulteriori dodici mesi, ma solo con un accordo stipulato presso l’Ispettorato del Lavoro competente per territorio. Anche a tale contratto, precisa la circolare ministeriale n. 17/2018, si applica la nuova disciplina dei rinnovi, la quale impone l’obbligo di individuazione della causale, ai sensi degli articoli 21, comma 1, e 19, comma 1, del decreto legislativo n. 81/2015. Mantengono, precisa ancora la richiamata circolare, validità le indicazioni fornite con la circolare n. 13/2008 in ordine alla “verifica circa la completezza e la correttezza formale del contenuto del contratto”, nonché alla “genuinità del consenso del lavoratore alla sottoscrizione dello stesso, senza che tale intervento possa determinare effetti certificativi in ordine alla effettiva sussistenza dei presupposti giustificativi richiesti dalla legge.”.
Il Decreto Dignità, pertanto, rispetto alla disciplina previgente ha reintrodotto la causale solo per i contratti a termine di durata superiore a dodici mesi e per il primo rinnovo (a prescindere), con ciò modificando il Jobs Act che aveva eliminato completamente tale obbligo. Resta, invece, la possibilità di stipulare contratti a tempo determinato acausali fino a dodici mesi.
Nelle attività stagionali previste dal D.P.R. n. 1525/1963, poi, non viene mai richiesta la presenza di una causale.
Altra importante novità introdotta dal Decreto Dignità riguarda il numero delle proroghe. Nel Jobs Act le proroghe possibili dei contratti a termine arrivavano ad un massimo di cinque nell’arco di trentasei mesi. Con il D.L. n. 87/2018, invece, il limite massimo delle proroghe è stato abbassato ad un massimo di quattro nell’arco di ventiquattro mesi, a prescindere dal numero dei contratti. In caso di superamento di detto limite, il Decreto stabilisce che il contratto a termine si trasforma a tempo indeterminato a partire dalla data di decorrenza della quinta proroga e non dall’inizio del rapporto. Per la proroga del contratto a termine resta invariata l’acquisizione del consenso del lavoratore, che, per costante giurisprudenza, potrà essere manifestato in forma orale per “fatti concludenti” o in via preventiva contestualmente alla stipula del contratto iniziale.
Anche in caso di proroga è richiesta l’indicazione della causale per i rapporti a termine che superano i dodici mesi. In proposito, ricorda la circolare ministeriale, la proroga presuppone che restino invariate le ragioni che avevano giustificato inizialmente l’assunzione a termine, fatta eccezione per la necessità di prorogare la durata entro il termine di scadenza. Pertanto, non è possibile prorogare un contratto a tempo determinato modificandone la motivazione, in quanto ciò darebbe luogo ad un nuovo contratto a termine ricadente nella disciplina del rinnovo, anche se ciò avviene senza soluzione di continuità con il precedente rapporto.
Per quanto riguarda i rinnovi, parte datoriale deve sempre rispettare il periodo di “stop & go” (c.d. periodi di vacanza) per come regolati dalla contrattazione collettiva, ovvero, in mancanza di disciplina collettiva, per come previsti dal “Decreto Giovannini” (D.L. n. 76/2013), segnatamente:
Per i rinnovi, a differenza delle proroghe, già dal primo, anche se previsto entro i primi dodici mesi, andrà necessariamente, come detto, indicata la causale.
Al pari della stipula, infine, i contratti a termine per attività stagionali possono essere rinnovati o prorogati anche in assenza delle succitate causali.
In sede di conversione del Decreto, con la L. n. 96/2018, poi, è stata inserita una clausola di transizione, in base alla quale, fino al 31 ottobre 2018, ai rinnovi e alle proroghe si applicano le vecchie regole. I nuovi contratti, invece, devono rispettare da subito le nuove regole.
Il contratto a tempo determinato richiede la forma scritta ad substantiam e la specifica del termine, pena la riconduzione alla “forma comune di rapporto di lavoro” (art. 1, D.Lgs n. 81/2015) e cioè al contratto di lavoro a tempo indeterminato. Una copia del contratto deve essere consegnata al lavoratore entro cinque giorni dall’inizio del rapporto. La mancata consegna del contratto di lavoro comporta a carico del datore di lavoro una sanzione amministrativa da €. 250 ad €. 1.500 (art. 4-bis, comma 2, D.Lgs n. 181/2000). La forma scritta non è richiesta per quei rapporti di lavoro di durata non superiore a dodici giorni. L’atto scritto naturalmente deve anche contenere, nei casi previsti dalla norma, le causali sopra menzionate.
Il D.L. n. 87/2018 (art. 1, comma 1, lettera c) ha modificato il Jobs Act ampliando i termini per impugnare il contratto a termine da 120 a 180 giorni dalla cessazione del singolo contratto. L’impugnazione deve avvenire, con qualsiasi atto (anche di natura extragiudiziale), entro il detto termine di 180 giorni dalla comunicazione in forma scritta o dalla comunicazione (sempre in forma scritta) dei motivi, se non contestuali alla cessazione, a pena di decadenza. Questo sta a significare che un’eventuale impugnazione tardiva sarà pregiudizievole in fase di ricorso innanzi al Giudice del Lavoro. L’allargamento dei termini di impugnazione del contratto a termine, si applica esclusivamente ai nuovi contratti stipulati dall’entrata in vigore del Decreto (14 luglio 2018). Per i contratti stipulati prima si applicano i termini di impugnazione previgenti di 120 giorni, parimenti per i rinnovi e le proroghe dei contratti in essere fino al 31 ottobre del 2018, per come stabilito in sede di conversione del Decreto.
Nulla o quasi è cambiato per quanto riguarda le esclusioni dalle regole previste dal legislatore nella stipula di contratti a termine per determinate categorie di lavoratori o di attività lavorative, restando in essere le previsioni dell’art. 29 del D.Lgs n. 81/2015.
Ciò che cambia con le nuove disposizioni dettate dal Decreto Dignità è che le regole del contratto e della somministrazione a termine non si applicano ai contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni. Le nuove disposizioni, inoltre, non si applicano ai contratti di lavoro domestico.
Altra novità del Decreto Dignità, che renderà meno appetibile il contratto a termine rispetto a prima, è l’introduzione di un nuovo contributo aggiuntivo dello 0,5% applicato in occasione di ciascun rinnovo del contratto (anche se in regime di somministrazione), che si aggiunge al contributo addizionale Naspi (già previsto dalla Riforma Fornero) dell’1,4% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali.
A conti fatti, un contratto a termine prorogato o rinnovato per un massimo di quattro volte, potrebbe determinare un’aliquota complessiva pari a 3,4% (1,4% + 0,5% x 4 = 3,4%).
In sede di conversione del Decreto si è provveduto altresì ad aumentare la percentuale del numero dei lavoratori assunti con contratto a tempo determinato ovvero con contratto di somministrazione a tempo determinato dal 20% al 30% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza all’utilizzatore, salva diversa previsione della contrattazione collettiva. In sostanza, in un’azienda il numero dei contratti a termine non potrà mai superare il 30% degli assunti a tempo indeterminato, anche calcolando i contratti in somministrazione.
In caso di somministrazione, la percentuale si calcola con riferimento ai lavoratori a tempo indeterminato in forza all’utilizzatore al 1° gennaio dell’anno di stipulazione dei contratti in questione. Nel caso di inizio dell’attività nel corso dell’anno, il limite percentuale si computa sul numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al momento della stipulazione del contratto di somministrazione di lavoro. È in ogni caso esente da limiti quantitativi la somministrazione a tempo determinato di lavoratori in mobilità (art. 8, comma 2, L. n. 223/1991), di soggetti disoccupati che godono da almeno sei mesi di trattamenti di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali e di lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati, per come individuati con decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
La circolare n. 17/2018 del Ministero del Lavoro dedica la seconda parte interamente alla somministrazione a termine dopo le modifiche apportate dal decreto Dignità.
L’articolo 2 del D.L. n. 87/2018, convertito dalla L. n. 96/2018, ha infatti esteso la disciplina del lavoro a termine alla somministrazione di lavoro a termine, già disciplinata dagli articoli 30 e seguenti del D.Lgs. n. 81/2015, con la sola eccezione delle previsioni contenute agli articoli 21, comma 2 (pause tra un contratto e il successivo, c.d. stop and go), 23 (limiti quantitativi al numero dei contratti a tempo determinato che può stipulare ogni datore di lavoro) e 24 (diritto di precedenza).
Nessuna limitazione, invece, è stata introdotta per l’invio in missione di lavoratori assunti a tempo indeterminato dal somministratore. Questo significa che tali lavoratori possono essere inviati in missione presso l’utilizzatore sia a tempo indeterminato che a termine, senza che ciò comporti l’obbligo della causale o il rispetto dei limiti di durata. Restano fermi, naturalmente, i limiti percentuali stabiliti dalla norma.
Rimane inalterata la possibilità, riconosciuta alla contrattazione collettiva, di disciplinare il regime delle proroghe e della loro durata (art. 34, comma 2, del d.lgs. n. 81/2015).
L’articolo 19, comma 2, del d.lgs. n. 81/2015, per effetto della riforma, è adesso applicabile anche alla somministrazione di lavoro a tempo determinato. Ciò comporta, che il limite massimo di 24 mesi – ovvero quello diverso fissato dalla contrattazione collettiva – entro cui è possibile fare ricorso ad uno o più contratti a termine o di somministrazione a termine, deve essere valutato con riferimento non solo al rapporto di lavoro che il lavoratore ha avuto con il somministratore, ma anche ai rapporti con il singolo utilizzatore.
Il limite temporale di 24 mesi, quindi, opera tanto in caso di ricorso a contratti a tempo determinato quanto nell’ipotesi di utilizzo mediante contratti di somministrazione a termine, con la conseguenza che raggiunto il detto limite il datore di lavoro non potrà più ricorrere alla somministrazione di lavoro a tempo determinato con lo stesso lavoratore per svolgere mansioni di pari livello e medesima categoria legale.
Quanto alle condizioni di cui all’articolo 1, comma 1, lettere a) o b) del D.L. n. 87/2018, che giustificano il ricorso alla somministrazione a termine in caso di contratti di durata superiore a 12 mesi e di rinnovi, le stesse si applicano esclusivamente con riferimento all’utilizzatore.
A riguardo, la circolare ministeriale n. 17/2018 evidenzia che l’obbligo di specificare le motivazioni del ricorso alla somministrazione di lavoratori a termine sorge non solo quando i periodi sono riferiti al medesimo utilizzatore nello svolgimento di una missione di durata superiore a 12 mesi, ma anche qualora lo stesso utilizzatore abbia instaurato un precedente contratto di lavoro a termine con il medesimo lavoratore per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria.
Al termine di questa breve panoramica sulle novità del contratto a termine, sorge spontaneo chiedersi se l’assioma del Governo, contratto a termine uguale a precariato, possa essere superato con l’introduzione della nuova normativa. L’intento del Decreto Dignità è chiaro: restringere il legittimo utilizzo della flessibilità in entrata, rendendo un po’ più difficile la stipula dei contratti a tempo determinato.
Una restrizione che verrà attuata sia attraverso l’introduzione delle nuove regole concernenti la durata, i presupposti ed i limiti per i rinnovi e le proroghe, sia mediante l’aumento del costo del lavoro a termine, che dovrebbero scoraggiare un uso eccessivamente disinvolto dell’istituto.
Alla luce di ciò, appare evidente come, se da un lato è certamente auspicabile una prospettiva di “stabilizzazione” del lavoro, dall’altro, non è possibile ignorare le critiche avanzate dal mondo imprenditoriale.
L’aumento contributivo e la stretta generale sul contratto a termine, affermano le organizzazioni delle imprese, scoraggeranno le aziende a fare nuove assunzioni, creando un blocco occupazionale e favorendo il ricorso al lavoro nero.
Adesso non resta che attendere e verificare in concreto, attraverso un attento monitoraggio, l’incisività delle modifiche alla disciplina del contratto a termine sulla riduzione del precariato, soprattutto giovanile.
[*] Ispettore del Lavoro – Avvocato – Responsabile Area Coordinamento Vigilanza dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Cosenza - Le considerazioni contenute nel presente intervento sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione cui appartiene (Circ. MLPS del 18.03.2004).
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