Prima parte
Il Legislatore, mediante il rinvio alla contrattazione collettiva nella disciplina dei rapporti di lavoro, ricorre ad uno strumento socialmente adeguato in termini di flessibilità, vicinanza agli interessi concreti coinvolti e, quindi, di capacità di attirare consenso alle norme da parte dei relativi destinatari[1].
Sotto altro profilo, l’integrazione tra legge e contrattazione collettiva s’inserisce nel fenomeno, in espansione, del diritto promozionale del lavoro, che si esprime tramite le cc.dd. norme incentivo (soft laws). Queste ultime costituiscono una recente alternativa alle norme inderogabili di legge, espressione dell’intervento autoritativo dello Stato, e si pongono l’obiettivo di estendere l’applicazione del contratto collettivo al di là della sua efficacia di diritto comune, limitata alle parti stipulanti ed ai relativi iscritti. L’espansione del fenomeno risponde alla logica del principio di sussidiarietà, già indicato nel Libro Bianco sul mercato del lavoro del 2001 come obiettivo fondamentale nel rapporto tra legge e contrattazione collettiva: «Il legislatore (nazionale o regionale) dovrebbe intervenire solo dove le parti non abbiano sufficientemente svolto un ruolo regolatorio.
In questo senso verrebbe esaltata appieno la funzione del contratto collettivo (nella sua prospettiva interaziendale) come strumento regolatore di una corretta competizione fra imprese sul piano sociale».
Sul piano strutturale, tra i modelli di combinazione tra legge e contratto collettivo, individuati in dottrina, possono qui essere citati i seguenti:
Le questioni che assillano il modello integrativo in argomento sono molteplici.
In primo luogo, il problema di carattere generale riguarda l’assenza di una disciplina organica del fenomeno, sicché tutte le analisi non possono che fare riferimento alle singole leggi di rinvio. Naturalmente, tale situazione costringe l’interprete a considerare, di volta in volta, i singoli interventi legislativi in un quadro spesso incoerente e contraddittorio. Ad aggravare il contesto, si deve aggiungere che nemmeno le singole leggi di rinvio si curano di definire le regole specifiche del rapporto legge-contratto collettivo. Questo è, verosimilmente, il portato del timore del legislatore di creare un sistema alternativo ed incompatibile con quello prefigurato dal costituente nell’art. 39 Cost..
Gli ulteriori problemi che emergono in relazione a tale ruolo della contrattazione collettiva afferiscono alla natura ed alla conseguente efficacia soggettiva del contratto previsto dalla norma di rango primario. Invero, essendo quest’ultima naturalmente di efficacia ed applicazione generale, è necessario verificare in che misura tali caratteri di generalità afferiscano anche al contratto collettivo cui la legge rinvia. In merito, bisogna rammentare la nota situazione determinata dalla mancata attuazione dell’art. 39, seconda parte Cost., che prevede l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi stipulati dai sindacati registrati secondo la procedura ivi prevista. Occorre a tal proposito chiedersi, con particolare attenzione, se le norme di legge che conferiscono – o si propongono di farlo – tale efficacia generalizzata al contratto collettivo siano compatibili con l’art. 39, comma 4 Cost., o ne costituiscano una sostanziale elusione. La dottrina ha a lungo dibattuto il tema, ma non si può dire che sia addivenuta a soluzioni certe e definitive. Della questione è stata più volte partecipe la Corte Costituzionale, la quale, se in un suo noto intervento (Sentenza n. 106/1962) aveva fissato chiari limiti all’opera legislativa di “autorizzazione” di norme contrattuali con efficacia erga omnes, nelle successive pronunce sembra aver preso atto, con sostanziale ed implicita approvazione, della tendenza normativa a generalizzare i prodotti dell’autonomia collettiva ben oltre la portata inter partes attualmente loro imposta dall’ordinamento. Tale atteggiamento della Consulta è stato verosimilmente indotto dalla persistente inerzia del Legislatore, sia nell’attuare che nel modificare o abrogare la seconda parte dell’art. 39 Cost..
Al fine di affrontare le questioni cennate, è necessario preliminarmente individuare la natura giuridica del contratto collettivo oggetto di rinvio legislativo, che costituisce, a sua volta, un notevole dilemma del modello.
La prima questione emergente, in senso logico, appare dunque quella della natura e funzione della contrattazione collettiva oggetto di rinvio legislativo. Bisogna, in particolare, chiarire se – come sostiene parte della dottrina e, almeno in talune pronunce, la Corte Costituzionale (V. infra) – lo svolgimento di un ruolo integrativo, derogatorio, suppletivo, qualificatorio, ecc. della legge possa aver determinato, accanto alla tradizionale figura di negozio di diritto comune, la genesi di un nuovo tipo di contratto collettivo, avente la natura di fonte di diritto oggettivo e la funzione del perseguimento di interessi generali.
Orbene, in merito all’individuazione dei caratteri essenziali della contrattazione di rinvio, la tesi preferibile appare, a Costituzione invariata, quella della tradizionale natura di diritto comune del contratto collettivo e della conseguente funzione di regolamentazione di interessi privati, attraverso la composizione del conflitto tra le contrapposte categorie dei datori e dei lavoratori.
Tale conclusione deriva innanzitutto da esigenze di certezza, giacché la stessa dottrina che sostiene la natura alternativa dell’autonomia contrattuale è divisa e perplessa sulla precisa configurazione del contratto collettivo: si parla, alternativamente, di fonte extra ordinem, di fonte fatto, di fonte fatto di diritto scritto, fonte-atto dell’ordinamento intersindacale, ecc., senza peraltro specificare l’esatta consistenza di tali nozioni.
Si deve aggiungere che non appare pacifica, tra tali autori, la stessa nozione di fonte del diritto, come le ampie discussioni sul punto dimostrano.
Inoltre, tali incerte definizioni si fondano sullo svolgimento, da parte della contrattazione collettiva, di una funzione di perseguimento degli interessi pubblici che appare più affermata che dimostrata, poiché – come condivisibilmente precisato in dottrina[2] – è la legge, e non il contratto, a perseguire tali interessi tramite il ricorso allo strumento dell’autonomia. Per di più, i connotati di tale pretesa figura di contratto “funzionalizzato” all’interesse pubblico non sono definiti in alcuna norma positiva, nemmeno nelle stesse leggi che rinviano alla fonte pattizia, né queste richiamano regimi speciali per tale pretesa nuova tipologia negoziale.
Sicché, incertezze dottrinali in disparte, di un contratto collettivo “altro” non risulta traccia né in Costituzione, né in alcuna fonte legislativa che richiama la categoria pattizia. Ora, tutto questo non può, all’evidenza, essere addebitato a dimenticanze del legislatore, le quali sarebbero così tante, quante sono le disposizioni di rinvio all’autonomia collettiva, da far dubitare della sua stessa consapevolezza di azione.
In tale contesto si vuole sostenere, invece, che la legge compie deliberatamente tale operazione, proprio in quanto la contrattazione resta un atto di autonomia, cioè un atto che si fonda sul consenso liberamente prestato dagli attori sociali. In altre parole, il legislatore presume che la disciplina di una determinata materia, con il concorso della contrattazione, sia socialmente adeguata in termini di consenso, proprio per la compartecipazione di un atto di autonomia che proviene dai consociati. Non avrebbe senso affidarsi ad uno strumento che costituisce – o diventa, con il rinvio legislativo – una fonte eteronoma, se l’obiettivo è il coinvolgimento democratico dei destinatari delle norme al processo di formazione delle stesse, nell’ottica della sussidiarietà e della tenuta del sistema dei rapporti di lavoro. In definitiva, le legge, nel paradigma in esame – che ben risponde ai postulati di quello che è stato definito il “diritto riflessivo” –, presuppone la contrattazione come atto di consenso autonomo, e la coinvolge esattamente in quanto tale; proprio per questo motivo essa non può mutarsi in fonte del diritto in ragione del richiamo legislativo, pena la dispersione della ratio originaria del fenomeno. Pertanto, in quanto atto autonomo, il contratto collettivo non può che assumere, anche nelle ipotesi di rinvio normativo, i contorni del contratto di diritto comune.
Inoltre e soprattutto, sul piano più strettamente positivo, non possono essere trascurate le decisive obiezioni di natura costituzionale che si frappongono all’accoglimento della tesi del contratto collettivo come fonte del diritto variamente definita. La conclusione ultima di tale ricostruzione è che il contratto collettivo “funzionalizzato” al perseguimento dell’interesse pubblico, al contrario di quello di diritto comune, non sarebbe sottoposto all’art. 39 Cost.. Si tratta di un esito ermeneutico “creativo”, in contrasto con l’immodificato dato costituzionale, che non conosce la distinzione menzionata.
Né vale l’argomentazione, ricorrente tra i sostenitori della tesi che qui non si condivide, che il Costituente non poteva conoscere l’evoluzione del modello delle relazioni sindacali. Invero, detta argomentazione produce l’unico effetto, giuridicamente irrilevante, di evidenziare la noncuranza dell’attuale legislatore nell’aggiornare il testo costituzionale, ovvero, da altro punto di vista, la sua visione – anacronistica, se si vuole – della perdurante validità della disposizione costituzionale. In tale ambito, si deve condividere l’autorevole opinione dottrinale secondo cui se il contratto collettivo costituisse davvero una fonte di diritto, cui la legge possa delegare funzioni di produzione normativa con efficacia generale, la disciplina costituzionale di cui all’art. 39 seconda parte Cost., fondata sull’identificazione di sindacati registrati e sul principio maggioritario con tutela delle minoranze, sarebbe surrettiziamente surrogata da rinvii legali in bianco agli atti di soggetti sindacali diversamente individuati ed operanti[3].
Le svariate tesi, anche del giudice costituzionale (cfr. § 4/a), formulate per giustificare costituzionalmente l’efficacia generale della contrattazione oggetto di rinvio legislativo, appaiono quindi più come tentativi di dimostrare – secondo le opzioni soggettive del singolo interprete – l’anacronismo della disciplina costituzionale, che orientamenti tesi a evidenziare fondatamente la compatibilità del modello legislativo con la Carta. Pertanto, il contratto collettivo oggetto di rinvio legislativo non può mutare la sua natura di negozio di diritto comune, applicabile solo agli iscritti o ai non dissenzienti, pena la violazione della disposizione costituzionale. Parimenti, sono destinati a collidere con l’immutato testo costituzionale le tesi dottrinali che fondano il potere sindacale di stipulare contratti collettivi non sulla rappresentanza volontaria di stampo civilistico, bensì su di un potere originario loro spettante. Sebbene l’assunto sia certamente degno di essere preso in considerazione, esso non appare in sintonia con il dettato costituzionale, evidentemente fondato sulla teoria della rappresentanza volontaria, tant’è che tale dettato, introducendo l’ipotesi dell’efficacia erga omnes solo a determinate condizioni – ovvero, come è stato efficacemente osservato in dottrina[4], l’eccezione al divieto di efficacia erga omnes –, presuppone l’efficacia soggettiva limitata del contratto collettivo.
Il “diritto vivente” conforta la presente impostazione, giacché la giurisprudenza non ha mai dubitato, in linea generale, della natura di diritto comune della contrattazione collettiva. È, infatti, consolidato l’orientamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione in forza del quale «il contratto collettivo ha efficacia vincolante limitatamente agli iscritti alle associazioni sindacali stipulanti e a coloro che, esplicitamente o implicitamente, al contratto abbiano prestato adesione» (Cass. SS.UU., 26 marzo 1997, n. 2665). In questo senso, sono da ritenere tuttora attuali le affermazioni della Suprema Corte: «…dal principio della libertà sindacale, tutelato non soltanto dal richiamato art. 39 Cost. ma anche dal precedente art. 2 poiché il sindacato rientra fra le “formazioni sociali” ivi previste, deriva l’impossibilità di applicare un contratto collettivo di diritto privato, vale a dire non imposto erga omnes, a persone che non vi abbiano direttamente o indirettamente aderito e che vi sarebbero assoggettate in base a definizioni o delimitazioni autoritative». (Cass. 2665 cit.).
Peraltro, non può sottacersi che la questione della natura di fonte del diritto del contratto collettivo ha ricevuto impulso da un rilevante intervento normativo, quale in particolare il d.lgs. n. 40 del 2006, che, in riforma del processo civile, ha previsto il ricorso in Cassazione per violazione e falsa applicazione di norme dei contratti collettivi nazionali, equiparandoli, sotto tale profilo, agli atti normativi di rango primario (nuovo art. 360 comma 1, n. 3 c,p.c.). Tale norma aveva visto un precedente di rilievo in tema di pubblico impiego nell’art. 63, comma 5 del d.lgs. 165/2001 (già art. 68, comma 5 del d.lgs. 29/1993). Inoltre, in entrambi i settori, pubblico e privato, la legge consente anche l’accertamento pregiudiziale dinanzi alla Corte di Cassazione sull’efficacia, validità e interpretazione del contratto collettivo (art. 420 bis c.p.c.). Tuttavia, la giurisprudenza ha stabilito che la denuncia di violazione o di falsa applicazione dei contratti o accordi collettivi di lavoro, ai sensi del novellato art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., è sì parificata a quella delle norme di diritto, ma esclusivamente sul piano processuale, sicché anch’essa comporta l’interpretazione della Corte di Cassazione delle loro clausole in base alle norme codicistiche di ermeneutica negoziale (artt. 1362 ss. c.c.) come criterio interpretativo diretto e non come canone esterno di commisurazione dell’esattezza e della congruità della motivazione (Cass., 19 marzo 2014, n. 6335). Com’è agevolmente ricavabile da tale principio di diritto, la Suprema Corte, da un lato, limita al piano processuale il ruolo di fonte del contratto collettivo e, dall’altro, espressamente riferisce i canoni di interpretazione del contratto collettivo agli art. 1362 e ss. c.c., così ribadendone la natura negoziale.
Non si può fare a meno di menzionare la disposizione che, forse più di ogni altra, sembra aver “rivoluzionato” il sistema delle fonti del diritto del lavoro, l’art. 8 del d.l. n. 138/2011, che ha istituito la contrattazione di prossimità. Come si osserverà, tale precetto ha addirittura equiparato, quanto ad efficacia, il contratto collettivo di secondo livello alla legge. Si pone il problema, dunque, di comprendere se la pattuizione di cui all’art. 8 cit. costituisca, o meno, una fonte del diritto oggettivo.
Tuttavia, si può dire in senso contrario che anche ove la legge avesse inteso inserire tale tipo di contratto collettivo nel sistema delle fonti, ciò avrebbe fatto a prezzo di uno stravolgimento del medesimo sistema, poiché non ha dotato della medesima forza ed efficacia la fonte finora pacificamente ritenuta – anche dagli stessi attori sociali stipulanti – sovraordinata al contratto di prossimità, cioè la contrattazione di primo livello. In virtù di tale contraddizione, l’art. 8 non costituisce una risposta univoca al problema dell’inserimento della generale figura del contratto collettivo nell’ordinamento delle fonti. In aggiunta, la contraddizione rilevata ha fatto dubitare della conformità dell’art. 8 cit. all’art. 39, comma 1 Cost., per lesione del principio della libertà dell’organizzazione sindacale, intesa come libertà di organizzare le fonti dell’ordinamento intersindacale. Peraltro, sul medesimo art. 8 gravano ulteriori, gravi dubbi di illegittimità costituzionale per contrasto con il principio di eguaglianza (art. 3), con il principio di legalità (art. 101), oltre che con la seconda parte dell’art. 39 Cost. cit. (v.infra, § 9).
Anche gli esaminati indizi normativi, dunque, non hanno consentito di raggiungere un sufficiente grado di certezza esegetica, per cui allo stato non si può affermare quale sia l’esatta collocazione, ammesso che ne abbia una, del contratto collettivo “delegato” all’interno del sistema delle fonti.
Del resto, la problematicità della configurazione del contratto quale fonte del diritto è evidenziata dalle ulteriori questioni dell’efficacia soggettiva del negozio collettivo e della rappresentatività dei sindacati stipulanti, delle quali è ora necessario trattare.
In merito alla problematica dell’efficacia soggettiva del contratto collettivo, non può essere trascurata l’analisi della giurisprudenza della Corte Costituzionale. La più rilevante pronuncia che la Corte ha adottato in tema è, probabilmente, la sentenza 19 dicembre 1962, n. 106. In tale occasione, la Consulta ha, innanzitutto, chiarito che nella Carta costituzionale non sussiste alcuna riserva della materia dei rapporti di lavoro in favore della contrattazione collettiva, essendo viceversa pienamente ammissibili, ed anzi doverosi, interventi legislativi diretti ad attuare i principi costituzionali della tutela della dignità personale del lavoratore e del lavoro in qualsiasi forma e da chiunque prestato, nonché della garanzia al lavoratore di una retribuzione sufficiente ad assicurare una vita libera e dignitosa. Secondo il giudice delle leggi, l’art. 39 pone due principi, l’uno riguarda la libertà sindacale, l’altro l’autonomia collettiva professionale. Col primo sono garantite la libertà dei cittadini di organizzarsi in sindacati e la libertà delle associazioni che ne derivano; con l’altro è riconosciuta alle associazioni sindacali la regolazione dei conflitti di interessi che sorgono tra le contrapposte categorie mediante il contratto, al quale è conferita efficacia obbligatoria erga omnes, purché sia stipulato in conformità ai requisiti procedurali e soggettivi previsti. L’affermazione centrale della pronuncia merita di essere riportata testualmente: «Una legge, la quale cercasse di conseguire questo medesimo risultato della dilatazione ed estensione, che è una tendenza propria della natura del contratto collettivo, a tutti gli appartenenti alla categoria alla quale il contratto si riferisce, in maniera diversa da quella stabilita dal precetto costituzionale, sarebbe palesemente illegittima». Da notare che la Consulta, utilizzando il termine «risultato», in riferimento all’estensione soggettiva erga omnes del contratto, sembrava aver preventivamente delegittimato non solo disposizioni che violassero apertamente la statuizione costituzionale, ma anche quelle che si rivelassero idonee ad eluderla nella sostanza. Dunque, considerati i termini omnicomprensivi ed il tono perentorio adoperati, tale intervento della Corte non pareva lasciare adito a dubbi sull’incostituzionalità di qualunque provvedimento normativo tendente ad estendere – anche indirettamente –, senza il rispetto delle formalità contemplate dall’art. 39 cit., l’efficacia soggettiva dei contratti collettivi oltre l’ambito loro proprio di negozi di diritto comune.
Sennonché, in successive decisioni la Corte, pur non prendendo esplicitamente le distanze dall’originaria impostazione, è sembrata averla di fatto rinnegata. In primo luogo, il giudice delle leggi ha circoscritto l’ambito di applicabilità della disposizione costituzionale, sostenendo che quelli contemplati dall’art. 39 Cost. costituiscano una particolare categoria negoziale, i contratti collettivi “normativi”, destinati a regolare i rapporti di lavoro di una o più categorie professionali o di una o più singole imprese (Sentenza 30 giugno 1994, n. 368). In questa linea di pensiero, l’art. 39 cit. non riguarda, invece, il modello in esame di integrazione tra legge e contratto: nei confronti dei singoli lavoratori l’efficacia delle clausole del contratto si fonderebbe sulla legge che ad essi rinvia. Inoltre, la Consulta ha affermato la legittimità del modello di integrazione legge-contratto collettivo «quando si tratta di materie del rapporto di lavoro che esigono uniformità di disciplina in funzione di interessi generali connessi al mercato del lavoro» (Sentenza 18 ottobre 1996, n. 344). Secondo tale nuovo orientamento, la “legificazione” del contratto collettivo è costituzionalmente legittima quando oggetto della contrattazione collettiva sia un conflitto di interessi tra imprenditori e lavoratori, incidente sull’assetto generale del mercato del lavoro – maggiore o minore elasticità dei modi d’impiego della mano d’opera, mantenimento dei livelli di occupazione ecc. –, senza il coinvolgimento di interessi di terzi soggetti estranei alle parti del rapporto di lavoro. Pertanto, dall’impostazione del giudice delle leggi risulta la legittimità del fenomeno della “legificazione” della pattuizione collettiva, nella misura in cui il contratto sia limitato a specifiche materie relative al mercato del lavoro ed abbia – come peraltro normalmente avviene – rilevanza limitata alle parti del rapporto di lavoro. La Consulta, in tale occasione, non ha esitato ad affermare che esistono «leggi che delegano alla contrattazione collettiva funzioni di produzione normativa con efficacia generale, configurandola come fonte di diritto extra ordinem, destinata a soddisfare esigenze ordinamentali che avrebbero dovuto essere adempiute dalla contrattazione collettiva prevista dall’inattuato art. 39, quarto comma, della Costituzione» e, nondimeno, ha semplicemente preso atto del fenomeno, senza giudicarlo in contrasto con la superiore disposizione citata. In proposito, non sono mancate critiche dottrinali secondo le quali il dictum della Consulta si pone in contrasto con l’art. 39 comma 4 cit., poiché finisce per legittimare la sostituzione, per via normativa primaria, al sistema costituzionale fondato sul principio maggioritario con tutela delle minoranze un rinvio legale in bianco agli atti di soggetti sindacali diversamente identificati[5]. È stato anche condivisibilmente sottolineato come la nozione di fonte extra ordinem sia equivoca in sé, mancando una sua precisa individuazione dogmatica. In questa visione, la “funzionalizzazione” del contratto collettivo ad interessi pubblici è lesiva della libertà di organizzazione sindacale garantita dal comma 1 dell’art. 39 Cost..
Probabilmente, la più significativa pronuncia della Consulta che, nella sostanza, confuta l’assunto fondamentale della sentenza n. 106/62 cit., è la n. 309 del 16 ottobre 1997. In essa, la Corte ha ritenuto legittimo il meccanismo legislativo di generalizzazione dei contratti collettivi del pubblico impiego, di cui al d.lgs. 29/1993, attraverso la valorizzazione, dal lato del datore di lavoro pubblico, del dovere delle pubbliche amministrazioni di applicare i contratti collettivi e, dal versante del dipendente, del contratto individuale che rinvia a quello collettivo. Secondo il dictum, «tale meccanismo non realizza dunque quell’efficacia erga omnes conferita dall’art. 39, quarto comma, della Costituzione ai contratti stipulati dalle associazioni sindacali in possesso di determinate caratteristiche, ma si colloca sul distinto piano delle conseguenze che derivano, per un verso, dal vincolo di conformarsi imposto alle amministrazioni e, per l’altro, dal legame che avvince il contratto individuale al contratto collettivo». Non si può fare a meno di rilevare, tuttavia, che il congegno normativo non censurato dalla Corte realizza proprio quel risultato ultimo – l’efficacia erga omnes per l’intera categoria – che la stessa Corte, nella sentenza n. 106/1962 cit., riteneva causa d’illegittimità costituzionale di ogni legge che l’avesse perseguito, in assenza della realizzazione delle condizioni costituzionali.
Più di recente, si segnala la sentenza n. 51 del 26 marzo 2015, ove la Consulta ha ritenuto costituzionalmente legittimo l’art. 7 comma 4, del d.l. n. 248 del 2007, che impone alle società cooperative di corrispondere, ai propri soci lavoratori, i trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria. La motivazione evidenzia che la disposizione richiamerebbe i trattamenti economici complessivi minimi previsti nei contratti collettivi menzionati, quale parametro esterno di commisurazione, da parte del giudice, nel definire la proporzionalità e la sufficienza del trattamento economico da corrispondere al socio lavoratore, ai sensi dell’art. 36 Cost..
A prescindere dalla condivisibilità o meno delle singole pronunce del giudice delle leggi, non appare dubbio come il relativo orientamento riveli una certa tolleranza nei riguardi del fenomeno dell’integrazione legge-contratto collettivo. Molti commentatori hanno scorto, non senza approvazione, un deciso pragmatismo dei supremi giudici, i quali hanno avallato il mutato contesto delle relazioni industriali rispetto al periodo di entrata in vigore della Costituzione[6]. Tuttavia, è stata anche sottolineata la disinvoltura, se non la spregiudicatezza, del nuovo orientamento del giudice delle leggi rispetto ad un testo costituzionale rimasto immutato.
Peraltro, ove anche si volesse condividere la recente giurisprudenza costituzionale, rimarrebbe il punto critico dell’incerta delimitazione del relativo orientamento, nel senso che l’elaborazione della Corte non sembra aver precisamente determinato la categoria di contratto collettivo che può a buon diritto sottrarsi al conflitto con l’art. 39 Cost.. Oltre alle dispute dottrinali sul tema, una dimostrazione di tale incertezza è offerta dal documento conclusivo di un’indagine conoscitiva sull’assetto delle relazioni industriali e sulle prospettive di riforma della contrattazione collettiva, svolta dalla XI Commissione della Camera dei Deputati nel 2009. Nel documento si legge: «…per il contratto categoriale, la via diretta ed automatica di un’estensione erga omnes resta bloccata dalla mancata attuazione dell’articolo 39 della Costituzione, secondo una consolidata giurisprudenza costituzionale, che ha conosciuto due sole eccezioni sostanziali (peraltro argomentate in maniera da non sembrare tali), cioè la contrattazione di comparto nel pubblico impiego privatizzato e la contrattazione relativa all’individuazione delle prestazioni indispensabili e delle misure idonee a garantirle in caso di scioperi nei servizi pubblici essenziali». Per quanto sopra riferito, in effetti, non sembra che le eccezioni individuate, peraltro in forma dubitativa, nella relazione colgano appieno il pensiero della Consulta, la quale sembra aver anche escluso dall’ambito di applicabilità dell’art. 39 cit. il c.d. contratto collettivo fonte extra ordinem. In ogni caso, a Costituzione immutata, l’incertezza è alimentata dalla sempre possibile modifica dell’attuale orientamento della Consulta.
Discende necessariamente dalla sopra sostenuta natura di diritto comune dei contratti oggetto di rinvio legislativo che l’efficacia degli stessi riguardi gli iscritti alle organizzazioni stipulanti e quei non dissenzienti che possono identificarsi secondo il noto criterio del rinvio del contratto individuale. Viceversa, il contratto collettivo non può applicarsi a coloro che siano iscritti alle organizzazioni non stipulanti, a meno che non risulti che intendano assoggettarsi comunque alla disciplina contrattuale. Questa è l’unica ricostruzione che appare compatibile con il vigente quadro costituzionale.
È noto che in dottrina sono stati elaborati vari tentativi ricostruttivi, anche autorevoli, tesi a delineare la legittimità di sistemi alternativi a quello contemplato dall’art. 39 Cost.. Tali tentativi risultano fondati, di volta in volta, su vari criteri – principio di effettività delle relazioni sindacali, norme dell’ordinamento intersindacale, prassi consolidate, ecc. – che, in sintesi, avrebbero dato luogo ad un sistema contrattuale di fatto vigente, sostanzialmente praeter legem (o meglio: constitutionem). In tale contesto, sembra emergere, in tutta la sua intensità, il contrasto tra principio di effettività e principio di legalità, già oggetto di ampie discussioni in sede dogmatica. In adesione ad una corrente dottrinale di origine pubblicistica, si deve affermare che il principio di legalità, in quanto pretende di porsi come criterio di validità degli atti di produzione del diritto, esclude la concepibilità di una norma per cui la validità dei medesimi dipenda puramente e semplicemente dal criterio di effettività[7]. Invero, ove si rovesciassero i termini della menzionata dicotomia, nel senso della prevalenza di una supposta effettività, si avvererebbe il rischio secondo cui il singolo giurista, in definitiva, affermi come «diritto» ciò che egli spera diventi effettivamente tale, o ciò che ritiene probabile diventi effettivamente tale, o ciò che abbia avuto la forza di imporsi di fatto come tale. Nel presente ambito di indagine, occorre aggiungere che la pretesa effettività delle relazioni e delle norme intersindacali devono confrontarsi con il principio di legalità costituzionale; in tale quadro concettuale, stupisce la disinvoltura di non irrilevanti filoni dottrinali, nonché della stessa giurisprudenza costituzionale, di superare il disposto dell’art. 39 Cost., in nome del suo asserito anacronismo – anche se di rado esplicitato come tale – e della presunta esistenza di un sistema sindacale “materiale”, contrapposto a quello “formale”. In tali percorsi argomentativi, appaiono emergere più opzioni soggettive dei vari autori o giudici che fondate argomentazioni di diritto positivo. Invero, non sembra sia stato dimostrato che l’art. 39 Cost. ammetta legittime alternative al sistema di contrattazione, se non quella vigente del regime di diritto comune dei contratti. Non solo l’efficacia soggettiva generalizzata della contrattazione di rinvio contrasterebbe con la seconda parte della disposizione costituzionale, per inosservanza delle condizioni da essa imposte, ma finanche con il comma 1, per violazione della libertà sindacale negativa. Infatti, come evidenziato in dottrina ed in giurisprudenza (Cass. SS.UU. 2665/1997 cit.), la contrattazione che s’impone ai non iscritti e dissenzienti, in mancanza dell’attuazione della seconda parte dell’art. 39, contrasta con la libertà contrattuale “negativa”, garantita dal comma 1 della medesima disposizione, di non assoggettarsi ad alcuna disciplina pattizia.
Dunque, qualunque rinvio normativo alla contrattazione collettiva deve essere interpretato come operato ad un’autonomia che può esplicarsi solo nei confronti degli iscritti alle organizzazioni stipulanti ed ai non dissenzienti. Una diversa soluzione ermeneutica, che sostenesse l’efficacia erga omnes di tale contrattazione, potrebbe essere legittima costituzionalmente solo in presenza dell’attuazione della seconda parte dell’art. 39 cit. o di una sua modifica o abrogazione. I fondamentali principi di legalità costituzionale e della certezza del diritto non sembrano ammettere altre opzioni.
[1] G. GIUGNI, Diritto sindacale, Cacucci, Bari, 2001, 148
[2] P. PASSALACQUA, Autonomia collettiva e mercato del lavoro. La contrattazione gestionale e di rinvio, op. cit.
[3] A. VALLEBONA, Autonomia collettiva e occupazione: l’efficacia soggettiva del contratto collettivo, in GDLRI, 1997, 3, 409
[4] V. LECCESE, Il diritto sindacale al tempo della crisi: Intervento eteronomo e profili di legittimità costituzionale, in GDLRI, 2012, 136, 501
[5] A. VALLEBONA, Autonomia collettiva e occupazione, op. cit., 409.
[6] Cfr. B. CARUSO, “Costituzionalizzare” il sindacato. I sindacati italiani alla ricerca di regole: tra crisi di legittimità e ipertrofia pubblicista, in LD, 2014, 4, 610 ss...
[7] S. FOIS, in Enc. Dir., voce Legalità, principio di, 1973.
[*] Funzionario dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro in servizio presso la Sede dell’ITL di Como. Dottore di Ricerca in “Formazione della persona e mercato del lavoro” presso l’Università di Bergamo. Il presente contributo è tratto, con modifiche e adattamenti, dalla monografia La contrattazione collettiva nel diritto sanzionatorio del lavoro, ADAPT University press, 2018, cui si rimanda anche per le citazioni bibliografiche. Esso è frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non impegna l’Amministrazione di appartenenza.
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