La responsabilità solidale del committente nell’ipotesi di devoluzione del TFR al Fondo di Tesoreria Inps
di Serena Papadia [*]
I recenti sviluppi giurisprudenziali
La riforma del sistema previdenziale, intervenuta in virtù delle previsioni normative contenute nel D.Lgs. 5/12/2005, n. 252 e, successivamente, nella Legge 27/12/2006, n. 296[1], ha obbligato, a decorrere dal 1° gennaio 2007, i lavoratori subordinati del settore privato a dover scegliere tra la devoluzione delle quote di T.F.R. via via maturate nel corso della propria carriera lavorativa a forme di previdenza complementare, che proprio per il loro carattere aleatorio dovrebbero garantire, una volta raggiunto il traguardo pensionistico, nella più favorevole delle ipotesi, una maggiore agiatezza al dipendente, oppure al più tradizionale accantonamento mensile in azienda di cui all’art.2120 c.c..
Tuttavia, nelle aziende alle cui dipendenze operino almeno 50 addetti, la scelta è tra le forme di previdenza complementare, a cui comunque convergono le quote di T.F.R. in caso di inerzia del lavoratore, per il c.d. principio del “silenzio assenso”[2], ed il versamento mensile da parte del datore di lavoro delle anzidette somme presso il Fondo Tesoreria Inps.
Ed è proprio con riferimento a quest’ultima ipotesi che si determinano degli importanti riflessi relativamente alla responsabilità solidale a cui il committente è tenuto ai sensi dell’art. 29 del D.Lgs. 10/09/2003, n. 276, il cui disposto normativo recita chiaramente: “il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni[3] dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile”.
Invero, se il sopracitato dettato normativo può considerarsi ancora corretto ed attuale nel caso in cui il datore di lavoro/appaltatore privato abbia in forza meno di 50 dipendenti e, quindi, accantoni mensilmente le quote del T.F.R. presso l’azienda, la situazione muta considerevolmente nell’ipotesi in cui venga superata la soglia dei 50 addetti e quest’ultimi non decidano espressamente, o per tacita inerzia, di investire il proprio trattamento di fine rapporto nelle forme di previdenza complementare previste.
Difatti, in quest’ultima ipotesi in capo al datore di lavoro, in luogo di un obbligo di pagamento del T.F.R. direttamente ai propri dipendenti, si configurerà un obbligo di versamento dei corrispondenti “contributi” – così vengono denominati - al Fondo Tesoreria Inps, che conseguentemente diventerà l’unico soggetto giuridico legittimato a liquidare il T.F.R. al lavoratore interessato in caso di cessazione del rapporto di lavoro, sia pure nei limiti di quanto sia stato effettivamente versato presso il Fondo stesso[4].
Tuttavia, poiché dall’esterno la mutata condizione giuridica del datore di lavoro/appaltatore – da soggetto giuridico obbligato al pagamento a mero titolare di una delegazione di pagamento ex lege – è di difficile percezione a causa dell’operare del cosiddetto “meccanismo anticipatorio”, già collaudato nelle fattispecie dell’indennità di cassa integrazione e per quella di malattia, in virtù del quale sarà sempre il datore di lavoro a erogare le quote di T.F.R. maturate al lavoratore interessato, fermo restando il diritto di portarle successivamente in detrazione su quanto dovuto al Fondo Tesoreria Inps a titolo di contributo mensile obbligatorio, ovvero, in caso di in capienza, in toto a titolo contributivo all’Inps, questa situazione potrebbe ingenerare confusione anche sulla novellata posizione del committente.
Infatti, solo attribuendo prevalenza alle posizioni giuridiche piuttosto che a quelle meramente materiali, apparirà evidente che, qualora il datore di lavoro/appaltatore abbia regolarmente versato i contributi dovuti al Fondo Tesoreria Inps, non sarà più debitore verso i lavoratori di tali somme ex art. 2120 c.c., ma su di lui graverà un mero obbligo di anticipazione, e, per converso, anche la responsabilità solidale del committente, già circoscritta dai più recenti indirizzi giurisprudenziali[5] in condizioni normali alle sole quote di T.F.R.[6] maturate dai lavoratori nelle more di svolgimento del relativo contratto di appalto, si estinguerà completamente.
Difatti, una diversa conclusione, oltre a contrastare con la ratio perseguita dal legislatore, introducendo la disciplina di cui all’art. 29 del D.lgs. n. 276/2003, volta a sollecitare il committente ad una più oculata scelta delle imprese appaltatrici dei cui inadempimenti avrebbe altrimenti dovuto direttamente rispondere, al tempo stesso sarebbe sprovvista di qualsivoglia fondamento giuridico, discendendo l’obbligo di anticipazione per conto dell’Inps da un rapporto previdenziale a cui il committente è del tutto estraneo.
Il meccanismo anticipatorio e la relativa compensazione sui contributi, fin qui decritti, operano solo nel caso in cui l’impresa sia ancora attiva, difatti, in caso di cessazione o insolvenza della stessa, il lavoratore avrà diritto di ricevere direttamente dal datore di lavoro le somme maturate dal Fondo.
Invero, ai sensi dell’art. 1, comma 756, della Legge n. 296/2006, “per il principio di automaticità”, in caso di insolvenza del datore di lavoro con riferimento agli importi maturati dopo il 1° gennaio 2007, il Fondo Tesoreria Inps[7] sarà comunque obbligato a corrispondere direttamente al lavoratore il T.F.R. maturato, fatto salvo il diritto dell’ente previdenziale di rivalersi verso il committente entro il termine di decadenza di due anni per il recupero delle quote non versate.
Una importante evoluzione giurisprudenziale si è di recente determinata proprio con riferimento alle ipotesi in cui l’impresa del datore di lavoro/appaltatore sia inadempiente all’obbligo di pagamento diretto, pur avendo regolarmente versato le quote di T.F.R. al Fondo Tesoreria Inps.
Difatti, se risulta ormai pacifico che la responsabilità solidale del committente di cui all’art. 29 del D.Lgs. n. 276/2003 si estingue nel caso in cui l’appaltatore sia dichiarato fallito, subentrando ex lege il Fondo di Garanzia Inps istituito dall’art. 2 della L. n. 297/1982, molto più controverso è stato per un lungo lasso di tempo il riconoscimento in capo al committente, che provveda al pagamento diretto ai lavoratori richiedenti delle quote di T.F.R. maturate durante l’esecuzione dell’appalto, di un diritto di surrogazione ex art. 1203 c.c. nei confronti del Fondo Tesoreria Inps rispetto ai “contributi” che erano stati regolarmente accantonati dal datore di lavoro.
Una tale eventualità è stata, infatti, lungamente osteggiata dall’Inps sulla base del principio in ossequio al quale, fatta salva appunto l’ipotesi del fallimento, in tutti gli altri casi in cui il committente provveda al pagamento diretto di spettanze retributive o quote di T.F.R. maturate durante l’arco temporale di esecuzione dell’appalto a richiesta dei lavoratori ivi impiegati, non fa altro che ottemperare ad una obbligazione che discende direttamente dal sopracitato art. 29 del D.Lgs. n. 276/2003, nonché, da ultimo, dall’art. 1676 c.c. – come noto norma di chiusura dell’intero sistema della responsabilità solidale.
Per di più, secondo l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, laddove si ammettesse il configurarsi in capo al committente di un diritto di surrogazione, verrebbe altresì vanificata la ratio perseguita dal legislatore proprio attraverso l’introduzione di tale regime di responsabilità solidale, ovverosia di procedere ad un rigoroso percorso di selezione delle ditte appaltatrici che conduca alla sola scelta di quelle in grado di garantire una corretta e solida gestione dei rapporti di lavoro con il personale in forza, ferma restando la necessità di vigilare costantemente sul loro operato.
Quindi, secondo le conclusioni sostenute dall’Inps, l’obbligazione gravante sul Fondo di Garanzia con riferimento alle ultime tre mensilità di retribuzione ed al T.F.R., oltre ad avere natura previdenziale anziché retributiva - in quanto discende da un diritto di credito di identico contenuto ma avente origine diversa rispetto a quello gravante sul datore di lavoro insolvente – interverrebbe solo in via sussidiaria, qualora non sia possibile escutere alcun altro soggetto, ivi compresi gli obbligati in solido.
Tuttavia, l’orientamento dottrinale sopra esposto, è stato disatteso da alcune pronunce giurisprudenziali intervenute negli ultimi anni: già, la sentenza n. 25257/2010, la Corte di Cassazione, precisando che con l’espressione “aventi diritto” devono intendersi tutti coloro i quali, a qualsiasi titolo, siano succeduti ad altri nella titolarità di un diritto, aveva aperto uno spiraglio ad una diversa soluzione in via interpretativa della vicenda, ma a diradare qualsivoglia dubbio al riguardo è a breve distanza di tempo intervenuta esplicitamente la Suprema Corte, Sez. Lav. Con la sentenza n. 25257/2010, ove si afferma che nella categoria degli “aventi diritto” debbano essere inclusi anche gli obbligati in solido ai sensi dell’art. 29, comma 2, del D.Lgs. n. 276/2003.
Pertanto, il pagamento diretto effettuato dal committente in favore dei lavoratori, che ne facciano richiesta, delle quote di T.F.R. regolarmente versate al Fondo Tesoreria Inps dall’appaltatore insolvente determina “la surrogazione di diritto ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 1203 c.c… e, quindi, il subentro del solvens nella posizione creditizia degli accipientes”, con la conseguente possibilità per il committente – incluso, così facendo, nel novero degli “aventi diritto” – di richiedere la restituzione delle predette somme all’Inps, in qualità di gestore del Fondo anzidetto.
Da ultimo, si può affermare che questa evoluzione interpretativa, che è stata ormai recepita a livello nazionale[8], pur incontrando ancora l’ostilità di quella parte della dottrina secondo cui il committente pagando le quote di T.F.R. si limiterebbe ad estinguere un’obbligazione diretta che ha, in solido con l’appaltatore, nei confronti del lavoratore, residuando in suo favore un mero diritto di regresso nei riguardi del datore di lavoro insolvente10, invero non fa altro che scongiurare un indebito arricchimento dell’Inps rispetto a somme di denaro che erano state accantonate proprio allo scopo di essere elargite ai lavoratori, quando fosse cessato il rapporto di lavoro, senza quindi affievolire la tutela rafforzata riconosciuta agli stessi nell’ipotesi in cui vengano impiegati per l’esecuzione di un contratto di appalto.
Quindi, lungi dal voler garantire un regime di maggior favore al committente, lo scopo, così facendo, perseguito, al pari di quanto avviene in virtù del riconoscimento legislativo del principio del “beneficium excussionis” assicurato a quest’ultimo, è quello di garantire un maggior equilibrio tra le posizioni giuridiche dei soggetti protagonisti, nelle diverse vesti di appaltatore, committente e lavoratore, in un contratto di appalto.
Note
[1] I capisaldi del sistema di previdenza complementare sono stati fissati dalla Legge n. 243/2004.
[2] Le quote di T.F.R. maturato dovranno essere trasferite alla forma pensionistica collettiva prevista dal C.C.N.L. di categoria e, qualora, ve ne sia più di una, a quella a cui abbiano aderito il maggior numero di lavoratori; solo nel caso in cui difetti in via assoluta nelle previsioni della contrattazione collettiva una forma pensionistica collettiva allora si utilizzeranno i c.d. Fondinps – ovvero Fondi complementari Inps.
[3] Il termine di decadenza, che è stato esteso da uno a due anni, secondo la nota n.7140 del 13/04/2012 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, nel caso in cui si operi in regime di subappalto, deve intendersi decorrente dalla cessazione del singolo subappalto – unico momento peraltro conosciuto dai lavoratori operanti in tale regime – e non del contratto di appalto principale da cui prendeva origine.
[4] Così recita l’art. 1, comma 756 dell’art. 1 della Legge n. 296/2006, in ossequio al quale l’obbligo giuridico di corrispondere il TFR resta in capo al datore di lavoro per quanto eccede la quota dei versamenti effettuati al Fondo.
[5] Si veda, tra le altre, la sentenza n. 8819 del Tribunale di Roma del Maggio 2012 che recita espressamente: “I trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti, oggetto della garanzia, devono essere quelli connessi allo specifico appalto commissionato dal committente e non possono derivare da distinti titoli. Pertanto, in relazione al trattamento di fine rapporto, la solidarietà del committente non può che essere limitata alla quota del TFR maturata in conseguenza dell’esecuzione dell’appalto e non può includere anche eventuali quote maturate in virtù di prestazioni rese al di fuori dell’appalto.”
[6] Da ultimo anche il legislatore aveva recepito tale conclusione nel cosiddetto “decreto semplificazioni” – art. 21 del D.L. n. 5/2012 – convertito nella Legge n. 35/2012.
[7] Presso l’Inps sono stati costituiti tre Fondi: il Fondo di Garanzia per il pagamento del TFR in caso di insolvenza del datore di lavoro ai sensi del Legge n. 297/1982; Il Fondo di Garanzia per la previdenza complementare di cui al D.Lgs. n. 80/1992; e, per l’appunto, il Fondo Tesoreria Inps istituito dall’art.1, commi 755 e ss. della L. n. 296/2006.
[8] Si veda, da ultimo, la Corte di Appello di Genova sentenza n. 148 del 9 aprile 2013.
[9] In ossequio all’indirizzo dottrinale citato ben diverso è il caso della cessazione del credito a titolo oneroso in cui il lavoratore (cedente) cede il proprio diritto ancora da soddisfare all’avente diritto/cessionario che subentra negli stessi diritti del cedente.
[*] La dott.ssa Serena Papadia è funzionaria ispettiva del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, in servizio presso la Direzione Territoriale del Lavoro di Cosenza. Le considerazioni contenute nel presente articolo sono esclusive del pensiero dell’autore e non impegnano, in alcun modo, l’amministrazione di appartenenza.
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