“Ci voleva una pandemia perché l’Italia si accorgesse che si può lavorare in maniera diversa… Ora, terminata l’emergenza finirà anche l’era Smart Working? Probabilmente no. Perché il Governo di Giuseppe Conte sa bene che la diffusione del lavoro agile è una grande occasione per proiettare il Paese nell’era dell’industria e dell’amministrazione 4.0”, queste le parole di Fiorina Capozzi in un articolo de L’Inchiesta.
Secondo un’indagine condotta ad ottobre 2019 dall’Osservatorio del Politecnico di Milano dedicato allo smart working, il 56% delle imprese del Paese aveva già avviato progetti strutturati riguardanti almeno due delle leve di progettazione considerate: flessibilità di luogo, di orario, ripensamento spazi, cultura condivisa e dotazione tecnologica adeguata. Nel 10% delle aziende lo smart working era una modalità presente ma gestita in modo informale, mentre il 34% dichiarava di non averlo ancora adottato. All’interno del 56% delle imprese più avanzate, soltanto il 12% aveva completato il processo di integrazione su tutti i fronti considerati.
Prima della pandemia erano 500-600 mila i lavoratori agili e in tempo rapidissimo si è arrivati a 8,5 milioni" di persone in smart working, passando da “una sperimentazione di nicchia in alcune grandi imprese ad una sperimentazione di massa”, come ricorda l’ex ministro del Lavoro, Cesare Damiano.
Ma quale è la percezione e la sensazione nell’esperienza vissuta del lavorare da casa cinque giorni su cinque dai capi e dai collaboratori? Se pensiamo ai capi la prima parola che viene in mente è controllo. Se pensiamo ai collaboratori è perdita di contatto con il contesto.
Alcune delle difficoltà che si possono rilevare tra i responsabili nel mantenere il controllo sui collaboratori, di certo riflettono una mentalità antica del modo di lavorare, fondata sul comando e sul controllo diretto, piuttosto che sulla autonomia e la responsabilizzazione. La chiave di lettura può essere proprio l’approccio del manager di funzione e il suo utilizzo delle tecnologie disponibili per non far sentire soli i dipendenti non abituati a lavorare a distanza, attraverso una vicinanza ubiqua sempre e ovunque. C’è sempre bisogno di una dimensione aziendale per non far sentire esclusi i collaboratori. Senza questa prospettiva saremmo dei free lance.
Il manager dovrà definire obiettivi e tempi di consegna insieme al suo team, così da tenere una visione sistemica su tutti i progetti, evitare che il flusso comunicativo si interrompa e che qualcuno non si senta parte dello stesso progetto. Insieme saranno presentati gli stati d’avanzamento del progetto da condividere con il proprio manager e con gli altri membri del gruppo.
Per non perdere il contatto con il team, il manager dovrà restare sincronizzato con loro attraverso una comunicazione costante ed evitare lunghi silenzi. Nell’incertezza dei collaboratori di essere ascoltati o meno, da parte del diretto Leader, è fondamentale comunicare a cadenza regolare, in maniera chiara e trasparente, con la cura di fornire le informazioni giuste al momento giusto a tutto il gruppo di lavoro.
Implementare in maniera efficace questa modalità lavorativa significa lavorare sulla figura dei capi, che dovranno diventare manager e leader. Le competenze tecniche, seppur fondamentali, non bastano. I manager, imparando a lavorare su se stessi, sulle proprie capacità ed attitudini, potranno a loro volta imparare ad ascoltare ed a conoscere i propri collaboratori, al fine di migliorare la gestione a distanza.
Una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati” recita così la definizione di Smart Working dell’Osservatorio Smart Working.
Dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali lo Smart Working viene definito come una “modalità di esecuzione del lavoro subordinato”, come “svolgimento della prestazione lavorativa, basata sulla flessibilità di orari e di sede e caratterizzata, principalmente, da una maggiore utilizzazione degli strumenti informatici e telematici, nonché dall’assenza di una postazione fissa durante i periodi di lavoro svolti anche al di fuori dei locali aziendali”.
Il concetto reale che si evince tra le due definizioni è “un accordo” tra dipendente e datore di lavoro. Un accordo che parte dal fatto che gli attori protagonisti, leader e lavoratori, si muovono con lo spirito giusto. In questo modo sarà possibile godere degli aspetti positivi dell’attività in smart working in ambito di business ed in ambito psicologico. Il perché è naturale: sono le persone a far sì che un'organizzazione funzioni. Si lavora bene quando al centro abbiamo una risorsa soddisfatta e partecipe del lavoro che svolge.
Da qui nasce una nuova considerazione: gli aspetti emotivi e cognitivi non sono secondari in nessun ambito, neppure in quello lavorativo, luogo dove si intessono relazioni con colleghi e manager.
Ed anche in questo caso ci viene in aiuto il processo di informazione, partecipazione e di condivisione. In modalità Smart si possono perdere dati legati alla comunicazione non verbale, gestualità, mimica facciale che accompagnano il nostro parlare e forniscono in maniera istantanea informazioni su chi abbiamo di fronte, ad esempio sul suo umore giornaliero. L’80% delle informazioni è trasmesso dal canale non verbale, e ora che ci resta per lo più quello verbale o quello scritto, per supportare e sostenere la nostra capacità di contestualizzare e integrare il sentire ed il pensare richiede un monitoraggio continuo, perché abbiamo meno informazioni. Il sentire ma non vedere i propri collaboratori può togliere informazioni importanti ai capi che non sono in grado di leggere tra le righe e comprendere il clima emotivo dei propri collaboratori. Per un lavoro Smart è necessario un nuovo patto cognitivo ed emotivo con i collaboratori, lontano dal concetto di controllo e di monitoraggio, bensì un patto di fiducia, di coordinamento, di condivisione e di facilitazione della trasparenza informativa. Le persone si sentiranno così supportate e responsabilizzate verso la presa di decisioni collettive. Tutti lavorano per la squadra, in quanto i risultati raggiunti sono gli unici indicatori di performance che contano.
«Lo smart working è proprio un nuovo approccio al lavoro», spiega Fiorella Crespi, direttrice dell’Osservatorio sullo Smart Working del Politecnico di Milano.
C’è una differenza tra adattarsi ad un cambiamento e sentirlo come tale. Tutto ciò che è imposto e che non prevede strumenti che aiutano alla comprensione e condivisione della nuova cultura è legato ancora una volta al controllo sia dei capi sia del contesto aziendale.
Il cambiamento è guidato dal comunicare la nuova visione. Regola principe del change management è l’impossibilità di cambiare la cultura presente all’interno di una organizzazione se non se ne condividono i nuovi obiettivi, se non si comunica in maniera chiara, lavorando sui comportamenti abituali e quotidiani delle risorse.
Omar Mandosi Consulente del Lavoro responsabile del personale di Anas International Enterprice
In precedenza sono stati esaminati alcuni aspetti di novità, legati all’introduzione massiccia del lavoro agile anche a seguito dell’emergenza covid, che hanno riguardato il rapporto tra capi e collaboratori con particolare riguardo alle dinamiche del controllo che il superiore esercita sui suoi collaboratori nonché a come cambia il coinvolgimento di questi ultimi nella partecipazione alla filiera del processo lavorativo.
In questa sede vorrei invece indagare alcune necessità, imposte dalla improvvisa diffusione del lavoro agile, più attinenti agli aspetti contrattuali del rapporto di lavoro, con specifico riferimento al settore della PA, per il quale esistono già i riferimenti per esprimere validi elementi di giudizio.
Nella prima fase dell’emergenza il settore è stato disciplinato con norme che trovano la loro sintesi e la loro applicazione con la circolare n. 2 del 1 aprile 2020 emanata dal Ministro della Pubblica Amministrazione; tale documento, in particolare, in attuazione del d.l. 18 del 2020 (cd decreto cura Italia) art. 87, specifica che “il lavoro agile costituisce la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle pubbliche amministrazioni”.
Sulla scorta dell’emergenza la nuova normativa prevede una deroga agli “accordi individuali e agli obblighi informativi previsti dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81, nonché all’obbligo per il datore di lavoro di fornire i necessari strumenti informatici”.
Successivamente, al superamento della prima fase emergenziale, la materia è stata nuovamente riorganizzata con la legge n. 17 luglio 2020, n. 77 di conversione del decreto legge “rilancio”.
L’art. 263 di tale legge detta disposizioni in materia di flessibilità del lavoro pubblico e di lavoro agile; le principali novità che la norma introduce sono la prosecuzione del lavoro agile sino al 31 dicembre 2020 per il 50% del personale impiegato in attività che possono essere svolte secondo tale modalità lavorativa e l’introduzione, a regime, di una soglia minima del 60% del personale a partire dal 2021.
In particolare su quest’ultima novità appare opportuno svolgere qualche riflessione.
Tecnicamente la norma è una integrazione dell’art 14 della legge delega 124 del 2015 (meglio nota come legge Madia), norma tesa a promuovere la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro nelle amministrazioni pubbliche. Il fatto che il legislatore abbia voluto così impostare la normativa tesa all’irreggimentazione del lavoro agile deve essere tenuto presente per ben comprendere la ratio di fondo a cui ispirarsi nel successivo percorso di attuazione; non ci si colloca più, cioè in una prospettiva emergenziale condizionata dal rischio sanitario, ma si vuole tentare una riorganizzazione strutturale del lavoro nel pubblico impiego, che abbia riguarda ad un miglioramento della qualità della vita, legata ad una riduzione di fenomeni quali il pendolarismo o, comunque, alla riduzione dei tempi utilizzati per andare e tornare dal lavoro, alla possibilità di dedicarsi alle cure parentali, che impattano notevolmente su costi e consumi sociali.
Si osservi che la norma che viene ripresa e integrata è del 2015, vecchia dunque di appena 5 anni: nella formulazione originaria, essa si limitava a riferirsi al telelavoro, nonché alla “sperimentazione, anche al fine di tutelare le cure parentali, di nuove modalità spazio-temporali di svolgimento della prestazione lavorativa” che avessero permesso, entro tre anni, ad almeno il 10 per cento dei dipendenti di avvalersi di tale modalità (su base volontaria). In questa formulazione la locuzione “lavoro agile” non compare nemmeno!
Si comprende dunque l’enorme cambiamento determinatosi a seguito dell’emergenza Covid19, a livello sociale e culturale, che ha inciso così fortemente non solo sulle nostre abitudini di vita, ma anche sulla modalità di concepire il lavoro, addirittura il lavoro pubblico che al centro ha sempre e comunque la finalità di fornire i servizi pubblici alla cittadinanza
Ecco dunque che a nemmeno 5 anni di distanza di una legge che, a suo tempo, appariva già innovativa, cade il tabù del lavoro agile, che non solo trova piena cittadinanza tra le modalità del cambiamento della nostra Pubblica Amministrazione ma addirittura ne diventa una leva fondamentale!
La nuova norma prevede che «entro il 31 dicembre di ciascun anno, le amministrazioni pubbliche redigono, sentite le organizzazioni sindacali, il Piano organizzativo del lavoro agile (POLA), quale sezione del documento di cui all’articolo 10, coma 1, lettera a), del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150. Il POLA individua le modalità attuative del lavoro agile prevedendo, per le attività che possono essere svolte in modalità agile, che almeno il 60 per cento dei dipendenti possa avvalersene, garantendo che gli stessi non subiscano penalizzazioni ai fini del riconoscimento di professionalità e della progressione in carriera, e definisce, altresì, le misure organizzative, i requisiti tecnologici, i percorsi formativi del personale, anche dirigenziale, e gli strumenti di rilevazione e di verifica periodica dei risultati conseguiti, anche in termini di miglioramento dell’efficacia e dell’efficienza dell’azione amministrativa, della digitalizzazione dei processi, nonché della qualità dei servizi erogati, anche coinvolgendo i cittadini, sia individualmente, sia nelle loro forme associative. In caso di mancata adozione del POLA, il lavoro agile si applica ad almeno il 30 per cento dei dipendenti, ove lo richiedano. Il raggiungimento delle predette percentuali è realizzato nell'ambito delle risorse disponibili a legislazione vigente. Le economie derivanti dall'applicazione del POLA restano acquisite al bilancio di ciascuna amministrazione pubblica».
È il caso di osservare che il POLA viene previsto come sezione del “piano della performance” che fu una delle principali innovazioni introdotte dalla cd “riforma Brunetta” (di cui il decreto legislativo 150/2009 fu uno dei testi base) quale mezzo di indirizzo strategico alla PA e strumento prioritario per individuazione di indirizzi e obiettivi. Questo a rimarcare l’importanza del ruolo che il legislatore ha voluto riconoscere al lavoro agile come mezzo per l’ammodernamento e l’innovazione della nostra PA.
Ci sia consentito rilevare, pertanto, come la norma in esame riesca a conciliare e conciliarsi con due testi normativi (la riforma Brunetta e la riforma Madia) che hanno segnato profondamente la materia dell’organizzazione della PA negli ultimi anni e lo hanno fatto, tra l’altro, partendo da due concezioni ideologicamente distanti se non contrapposte.
Colpiscono le percentuali, comunque notevoli, che la norma introduce in favore della possibilità di optare per la nuova modalità lavorativa, che sarà consentita ad almeno il 60% del personale in caso di adozione del POLA, o ad almeno il 30% nel caso in cui il predetto Piano organizzativo non venga adottato. Questo a voler rimarcare come e quanto il legislatore sia convinto di “puntare” sul lavoro agile nei prossimi anni per un ammodernamento del nostro sistema di servizi pubblici.
C’è da ritenere, tuttavia, che il futuro di questo istituto e l’eventuale successo che esso potrà incontrare nella diffusione all’interno della pubblica amministrazione italiana, non si lega soltanto alle previsioni normative, nonché alle disposizioni amministrative con cui lo stesso verrà adottato.
Vi è, infatti, un altro fattore che, al momento, non sembra aver ancora trovato compiuta definizione e che, tuttavia, potrà esercitare un ruolo decisivo; mi riferisco alla contrattazione sindacale e, più in generale, alle disciplina contrattuale sul lavoro agile che gli agenti negoziali saranno capaci di mettere in campo.
Da più parti si è evidenziato, a titolo di esempio, il rischio, connesso ad una introduzione non equilibrata del lavoro agile, che esso possa contribuire a modificare la natura del rapporto di lavoro, spostando l’asse dall’obbligo di prestazione all’obbligo di risultato, con tutte le implicazioni connesse.
Non a caso, proprio nella fase emergenziale, caratterizzata da tutte le urgenze e le difficoltà conseguite alle necessità riorganizzative imposte dalla pandemia, la principale lamentela denunciata dai lavoratori è stata quella di una carente (se non assente) regolamentazione del diritto alla disconnessione.
Ecco dunque che il vero campo in cui si giocherà il futuro del lavoro agile nella nostra Pubblica Amministrazione (e probabilmente anche nel settore del lavoro dipendente privato) è quello della contrattazione sindacale e molto dipenderà da quanto e come i contratti di lavoro del settore sapranno valorizzarlo; l’introduzione massiva del lavoro agile, infatti, necessariamente comporta un ripensamento dei principali istituti contrattuali (si pensi allo straordinario, ai buoni pasto, alle norme sull’orario, a quella sulla sicurezza), e rendendo di fatto obsoleti i contratti attualmente in vigore, che resterebbero disegnati su una tipologia di lavoro a quel punto superata e minoritaria.
[1] in questo articolo per Pubblica Amministrazione si intende il complesso delle amministrazioni pubbliche disciplinate dall’art. 2 del d. lgs. 165/01 e per la cui contrattazione sindacale è competente.
[*] Dirigente Responsabile dei Processi di Corporate presso ANAS International Enterprise Spa con funzione anche di responsabile del personale
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