Il Covid-19 ha messo a dura prova non soltanto la tenuta del Sistema Sanitario Nazionale, ma anche quella dell’assetto costituzionale in riferimento all’esercizio delle libertà personali e anche, o forse soprattutto, in ordine alla forma di Governo parlamentare, alla separazione dei poteri e alla ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni nella gestione delle emergenze sanitarie.
La gerarchia delle fonti di produzione non è una questione tecnico - giuridica che i interessa gli studiosi della materia, ma è l’espressione vitale del carattere democratico dello Stato, fondato sull’appartenenza della sovranità al popolo, che la esercita in forma rappresentativa, secondo procedure in cui intervengono gli organi di garanzia previsti dalla Costituzione, affinché nessun potere dello Stato sia esercitato fuori da un ambito pre-disciplinato e si ponga extra-ordinem.
E allora il punto è chiedersi se un fatto emergenziale debba essere anch’esso gestito “secundum ordinem”, ovvero se abbia un indice di necessità tale da costituire il fondamento per la produzione di atti, che fuoriescono, nella sostanza, dall’ordine precostituito e dallo schema gerarchico previsto dalla Costituzione.
Gli articoli della Carta fondamentale inerenti le fattispecie emergenziali sono l’art. 77 Cost., in materia di decretazione d’urgenza e l’art. 78 Cost., storicamente mai applicato, che disciplina l’emergenza bellica.
Ebbene, neanche nel caso più grave, quello che richiede la deliberazione dello stato di guerra, è prevista una procedura che ne consenta la gestione con poteri illimitati, tali da porsi al di fuori dell’ordine costituito.
Lo stato di guerra, infatti, ai sensi dell’art. 78 Cost., è deliberato dall’organo parlamentare e cioè dalle Camere, che non conferiscono al Governo poteri “pieni”, bensì poteri “necessari” e quindi limitati alla gestione dell’emergenza.
Nell’attuale ordinamento e nel vigente assetto costituzionale non è configurabile, quindi, uno spazio vuoto, deregolato, privo di limiti e vincoli, neanche laddove questo sia collegato all’emergenza dettata dalla tutela dell’unico diritto che la Costituzione definisce fondamentale e cioè il diritto alla salute.
In altri termini, anche la tutela della salute in uno stato emergenziale deve essere perseguita nel rispetto dei principi costituzionali, tra i quali volutamente non figura una previsione specifica e aprioristica dello stato di necessità, la cui normazione – data l’impossibilità di elencazione tassativa – è rimessa alla clausola generale di cui all’art. 77 Cost.
Lo strumento previsto dalla Costituzione per far fronte agli stati di necessità straordinari ed urgenti è, pertanto, il decreto legge, adottato dal Governo sotto la sua responsabilità e avente forza di legge provvisoria.
Il giorno stesso dell’adozione, il decreto deve essere presentato alle Camere, che, se sciolte, sono appositamente convocate, affinché il Parlamento recuperi la centralità di fonte di produzione, attraverso la conversione del decreto, pena la perdita di efficacia del provvedimento governativo.
I principi di legalità e di separazione dei poteri sono rispettati, sia per la centralità procedurale e sostanziale del Parlamento, sia perché gli altri organi di garanzia, Presidente della Repubblica e Corte Costituzionale, esplicano le funzioni ordinarie di controllo.
La disciplina della decretazione d’urgenza è stata di recente integrata a livello di legislazione ordinaria, dal D.Lgs. n. 1 del 2 gennaio 2018, meglio conosciuto come Codice della Protezione Civile, che conferisce al Consiglio dei Ministri il potere di deliberare gli stati di emergenza di rilievo nazionale, determinandone la durata e l’estensione territoriale.
Nella recente pandemia il Governo ha esercitato questo potere, deliberando il 31 gennaio 2020 l’emergenza sanitaria derivante da Covid-19.
Hanno fatto seguito una serie di provvedimenti legislativi e amministrativi, con cui si sta tuttora gestendo l’emergenza medica, sociale ed economica e sui quali illustri giuristi, seppur silenti nell’imminenza dell’allarme sanitario, stanno interrogandosi in ordine alla legittimità costituzionale dell’impianto normativo che ne è derivato, sia in termini procedurali, che di sostanziale incidenza sui diritti primari della persona.
Si tratta di una normativa prodotta secundum ordinem o la riserva di legge, quanto meno formale, è talmente blanda e generica da potersi considerare un caso di gestione extra-ordinem, che avrebbe irreversibilmente “infettato” il nostro impianto costituzionale?
In data 23 febbraio 2020 il Governo ha emesso il Decreto Legge n.6, che all’art. 1 comma 1 attribuisce alle “autorità competenti” il potere di adottare “ogni misura di contenimento e di gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica” e all’art. 2 prevedeva il potere di “adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell'emergenza, al fine di prevenire la diffusione dell'epidemia da COVID-19 anche fuori dai casi di cui all'articolo 1, comma 1”.
L’art. 3 commi 1) e 2) del D.L. n. 6/2020, disciplina la forma di esercizio del potere conferito dall’art. 1, prevedendo in sintesi che ogni misura di conferimento e di gestione adeguata e proporzionata allo stato dell’emergenza sia adottato con atti, aventi forma di Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri.
Si tratta quindi di atti amministrativi a carattere monocratico, deliberati non dall’intero Consiglio dei Ministri, ma dal solo Presidente, che nel merito prevedono norme dal contenuto variegato, alcune delle quali attuative di norme primarie, ma altre innovative, sanzionatorie, addirittura idonee a configurare sanzioni penali e finanche limitative delle libertà di circolazione, di culto, di manifestazione, di riunione e di iniziativa economica.
Trattandosi di atti amministrativi, il potere normativo del Parlamento è evidentemente compromesso e compromessi sono anche gli ordinari controlli degli organi di garanzia, che si esplicano con la promulgazione/adozione da parte del Presidente della Repubblica e con la verifica della legittimità da parte della Corte Costituzionale.
Si pone evidentemente un problema di compatibilità tra questo impianto normo-amministrativo e la riserva di legge o di atti avente forza di legge, cui è costituzionalmente assoggettata la limitazione delle libertà personali.
Il tema della compressione delle libertà da parte degli atti di natura amministrativa, non è certo inedito in diritto.
La Corte Costituzionale, con diverse sentenze, ha cristallizzato nel tempo i principi che regolano questa compressione e i limiti entro cui essa è esercitabile.
La limitazione è possibile purché il legislatore, nel prevedere questo potere in capo all’Amministrazione, detti alcuni “limiti”, tra cui “efficacia limitata nel tempo in relazione a dettami della necessità e dell’urgenza; adeguata motivazione; efficace pubblicazione nei casi in cui il provvedimento non abbia carattere individuale, conformità del provvedimento stesso ai principi dell’ordinamento giuridico” (Corte Cost. n. 26/61, Corte Cost. n. 4/77, Corte Cost. 115/2011).
Allora il principio di legalità è salvo, laddove la delega contenga limiti temporali, di contenuto, di pubblicità e soprattutto di stretta connessione al dato emergenziale.
Nel caso di specie, quindi, la riserva di legge è stata rispettata nella forma, in quanto la delega all’esercizio del potere amministrativo è contenuta in un atto avente forza di legge, il D.L. n. 6/2020, ma la carenza di limiti sembra configurarla, come evidenziato da autorevoli giuristi, come una sorta di “delega in bianco”, per l’eccesso di discrezionalità, la mancanza dei requisiti di proporzionalità e adeguatezza, l’assenza di limitazioni temporali e l’incapacità di determinare con certezza finanche i soggetti competenti all’esercizio di questo potere, individuati in generiche “autorità competenti”.
Pertanto i DPCM sono diventati “atti normativi a portata generale”, con estromissione del Parlamento e degli organi di garanzia e il decreto legge da fonte di produzione si è trasformato in” fonte sulla produzione”.
Da qui il paventato vulnus che avrebbe infettato l’impianto costituzionale.
Ebbene, c’è da dire, che in parte è stato posto rimedio all’origine del particolare impianto normativo con l’emanazione del successivo Decreto Legge n. 19 del 25 marzo 2020, che, infatti, ha abrogato l’incriminata formulazione dell’art. 2 del D.L. n. 6/2020, nella parte in cui attribuiva alle autorità competenti il potere di adottare con le modalità previste dall’art. 3 comma 1) e 2), ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza.
Tuttavia le perplessità sostanziali rimangono.
In particolare, nel periodo intercorrente tra i due decreti legge e quindi dal 23 febbraio al 25 Marzo, si è determinata una forzatura costituzionale, retta formalmente dagli artt. 1, 2 e 3 del D.L n. 6/2020, riferibili, tra l’altro, ad atti territorialmente limitati e cioè adottabili per i soli Comuni che la Protezione Civile, col Ministero della Salute e il Comitato Tecnico Scientifico avevano considerato ad alto rischio e quindi classificabili come “zona rossa”.
Di seguito la zona ad alto rischio si è estesa e le misure restrittive della libertà sono state applicate su tutto il territorio nazionale, attraverso provvedimenti amministrativi, comunque riconducibili all’ampia e generica previsione del Decreto Legge madre e cioè il D.L. n. 6/2020.
Di fatto vi è stato uno stravolgimento della genetica degli atti emessi, che ha scosso in qualche modo i pilastri fondanti dell’assetto costituzionale, pur non facendo crollare il solido edificio.
Non può sottacersi, tuttavia, che se un vulnus c’è stato, l’origine di questo non è di certo attribuibile alla gestione dell’attuale emergenza, bensì al consolidato abuso, risalente nel tempo, della decretazione d’urgenza, che è stata utilizzata spesso per normare situazioni ordinarie e non connotate dai requisiti richiesti dall’art. 77 Cost.
La lentezza dei tempi parlamentari, l’eterogeneità politica e conflittuale della composizione delle Camere, l’esasperata ricerca e conferma del consenso elettorale, hanno spinto diversi Governi ad avvalersi dello strumento che la Costituzione prevedeva per ben altri scopi.
Pertanto, se il decreto legge è stato utilizzato in luogo della legge ordinaria, laddove si è configurato una situazione di effettiva straordinarietà, si è cercato un provvedimento che fosse ancora più snello, addirittura a carattere monocratico, per superare il rischio della paralisi decisionale in seno a un Consiglio dei Ministri potenzialmente conflittuale.
Il tentativo di recuperare ciò che autorevole dottrina definisce “la bussola della Costituzione”, è tuttavia doveroso, al fine di evitare che gestioni siffatte, “giustificate” dall’urgenza di tutelare la salute nazionale, costituiscano precedenti di forte attrazione, idonei a causare il rischio di future restrizioni o limitazioni delle libertà.
La caoticità dell’impianto normativo è stato ulteriormente aggravato dalla copiosa attività legislativa degli enti locali.
L’emergenza non è stata trattata come “profilassi internazionale”, di competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117 Cost. comma 2) lett. q), ma, volutamente, come “tutela della salute”, soggetta alla legislazione concorrente di Stato e Regione, ai sensi dell’art. 117 Cost. comma 3).
In mancanza di norme quadro che dettano a livello nazionale i principi generali e in presenza, tra l’altro, di una normativa che attribuisce ormai da tempo ampi poteri ai Presidenti delle Giunte Regionali, ne è derivato una disciplina variegata, non solo per gli atti adottati, ma anche per la mancanza di uniformità su tutto il territorio nazionale.
Eppure una normativa caotica, priva di uniformità territoriale e ai limiti della legittimità costituzionale ha prodotto profonde innovazioni in molti ambiti del diritto e in particolare di quello del lavoro, stravolgendolo con effetti visibili non solo nell’immediato.
Sembra iniziato un percorso di ripensamento dell’organizzazione, della produttività, dell’individuazione dei servizi realmente essenziali su cui concentrare la spesa pubblica e anche delle modalità di conciliazione delle esigenze familiari con i tempi lavorativi, attraverso la massima valorizzazione dello smart working, che ha costretto ad anticipare un futuro al quale, forse, non si era ancora preparati.
La legislazione dell’emergenza si è mossa prevalentemente su un doppio binario, da una parte l’intensificazione delle attività essenziali per la salute e il soddisfacimento delle esigenze primarie e dall’altra l’espletamento del numero più elevato possibile di attività con modalità alternative a quelle in presenza.
Laddove la tipologia di lavoro è stata tale da non considerarsi né essenziale né espletabile da remoto, si è provveduto alla sospensione temporanea.
Pertanto, lo sforzo è stato quello di rafforzare le tutele del lavoro, ma anche del non lavoro.
In quest’ultimo caso le modalità d’intervento sono state la temporanea sospensione dei licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo e l’utilizzo di strumenti di sostegno al reddito, idonei a tutelare la quasi totalità dei dipendenti inattivi.
I due strumenti, strettamente connessi l’uno all’altro, muovono dall’assunto in base al quale la causa idonea a legittimare un licenziamento per crisi aziendale è dovuta all’attuale emergenza sanitaria e la soluzione proposta per farvi fronte è la Cassa Integrazione, con la quale il costo del lavoro viene accollato al sistema di sicurezza sociale, economicamente implementato proprio perseguire detta finalità.
D’altro canto, la sospensione ex lege dell’attività lavorativa costituisce, sul piano civilistico, un’impossibilità temporanea della prestazione non imputabile alle parti, che impedisce l’esecuzione delle reciproche prestazioni, di lavorare e di retribuire.
Le misure di sostegno al reddito trasferiscono sul sistema sociale, in attuazione dei doveri di solidarietà costituzionale, il danno della perdita della retribuzione subita dal lavoratore.
Naturalmente in una situazione di emergenza non solo sanitaria, ma anche economica e sociale, sono emerse nella loro piena problematicità alcune questioni irrisolte, di cui da tempo si avvertono gli effetti pregiudizievoli.
Tra queste, la diversità delle tutele tra lavoratori dipendenti e quelli flessibili, precari o sommersi.
A causa della discrasia, gli strumenti di sostegno al reddito e il blocco dei licenziamenti sono stati efficaci nella tutela dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato.
Di contro, i due istituti non hanno prodotto effetti per lavoratori a termine, collaboratori autonomi, lavoratori irregolari o completamente in nero, che di fatto contribuiscono in modo determinante alla produttività nazionale.
Per questi si è dovuto provvedere attraverso forme di sostegno al reddito sotto forma di bonus o strumenti assistenziali erogati attraverso l’intermediazione dei Comuni.
Quanto alle attività non soggette a sospensione, è da dire che Il concetto stesso di servizio essenziale, giuridicamente tracciato dalla Legge n. 146/1990 in materia di diritto di sciopero, non si è rilevato calzante rispetto alle esigenze effettive dell’emergenza, laddove la filiera agro-alimentare, ad esempio, ha rivestito un’essenzialità più rilevante della formazione, della cultura o del trasporto pubblico.
È stato di certo difficoltoso tracciare l’elenco – inedito e innovativo – delle attività da sospendere e quelle da lasciare operative, perché finalizzate al soddisfacimento delle esigenze primarie.
La costruzione di tutele incisive per i lavoratori attivi è stata più complessa rispetto a quella prevista per i lavoratori sospesi, poiché, mentre per questi ultimi l’emergenza da gestire è stata ed è di tipo economico, per quelli attivi il danno da prevenire è la lesione del diritto alla salute, in particolare per il personale sanitario impegnato in maniera diretta nel contrasto alla pandemia.
Gli adempimenti posti a carico del datore di lavoro hanno costretto ad un ripensamento dell’organizzazione lavorativa, attraverso la valorizzazione dell’attività erogata senza presenza fisica e la riduzione all’indispensabile degli spostamenti da rendersi comunque in massima sicurezza.
L’intero apparato che ne deriva risulta conforme all’art. 41 Cost., in quanto, sebbene invasivo delle scelte organizzative, è funzionale al perseguimento dell’utilità sociale e alla tutela della sicurezza, in conformità alla quale l’attività di impresa deve essere svolta.
Il rafforzamento delle tutele dei lavoratori attivi si è realizzata attraverso l’adozione di specifici Protocolli, che hanno rimediato anche ai dubbi che il Garante della Privacy aveva espresso in ordine ad alcune questioni, come, ad esempio, il sistema di rilevazione della temperatura corporea, prevedendo la non acquisizione del dato nei casi in cui essa sia inferiore alla soglia di allarme di 37,5 gradi.
Da un punto di vista normativo la gestione degli aspetti di sicurezza e igiene sul lavoro è contenuta nell’art. 2 comma 6 DPCM 26 aprile 2020, secondo cui le imprese, la cui attività non risulti sospesa, rispettano i contenuti del Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 dal Governo e le Parti Sociali e dei Protocolli sottoscritti per la prevenzione nei cantieri e nella logistica.
I tre Protocolli costituiscono allegati al DPCM 26 aprile ed il primo di essi è la versione dettagliata ed integrata di un precedente Protocollo convenuto il 14 marzo 2020, avente anch’esso portata generale.
In quanto richiamati dall’art. 2 comma 10 DPCM 26 aprile 2020, le norme riportate nei Protocolli sono misure di contenimento, la cui violazione, come la violazione di qualsiasi altra misura di contenimento, comporta l’applicazione delle sanzioni di cui all’art. 4 D.L. 19/2020, rubricato appunto “Sanzioni e Controlli”.
La procedura per l’irrogazione delle sanzioni connesse è quella di cui alla Legge n. 689/81 e quindi si tratta di sanzioni di natura amministrativa, immediatamente applicabili e prive però del potere prescrittivo di adeguamento alle condizioni di legalità e sicurezza.
Tuttavia è opportuno rilevare che la specifica di cui all’art .4 D.L. n. 19/20, secondo cui le disposizioni sono applicabili “salvo che il fatto non costituisca reato”, impone un’interpretazione letterale in base alla quale, laddove una condotta costituisca al contempo violazione dei Protocolli e violazione di una disposizione penale, essa sarà punita con il deferimento del responsabile all’Autorità Giudiziaria, previa applicazione della procedura di cui all’art. 20 D. D.Lgs 758/94, con la quale si prescrive la condotta idonea a ripristinare l’ordine violato.
Le sanzioni di tipo amministrativo sono quindi residuali e applicabili in tutti i casi in cui la violazione dei Protocolli non sia anche penalmente rilevante.
Da un punto di vista sostanziale, la tutela dei lavoratori in presenza è garantita con la dotazione di dispositivi di sicurezza idonei a prevenire la diffusione del virus e attraverso il ripensamento degli spazi e dei turni di lavoro, volto a garantire il necessario distanziamento fisico anti-contagio.
Un ruolo decisivo è svolto dalla formazione e informazione, connessa al rischio biologico da Sars-Cov-2 e dalla specifica attenzione alla categoria dei lavoratori che versano in “situazione di particolare fragilità per patologie attuali o pregresse dei dipendenti”, rimessi alla segnalazione del medico competente.
L’impiego di questi lavoratori in azienda dovrà essere escluso laddove non sia possibile garantire misure di sicurezza appropriate per la loro condizione, in quanto si tratta di lavoratori cd fragili e capaci, quindi, di risentire di una maggiore incidenza di complicanze gravi all’insorgenza della malattia.
L’applicazione delle norme in materia di sicurezza previste dai Protocolli è soggetta ad attività specifiche di controllo da parte di gruppi integrati e coordinati a livello territoriale dalle Prefetture.
È da precisare, tuttavia, che I sottoscrittori del Protocollo del 26/04/2020 hanno rappresentato in premessa che esso contiene delle indicazioni operative, valevoli in tutti gli ambienti di lavoro e volte ad incrementare le tutele, ciò in quanto il Covid-19 rappresenta un rischio biologico generico, per il quale occorre adottare misure uguali per tutta la popolazione.
Pertanto, le imprese adottano i Protocolli all’interno dei propri luoghi di lavoro, integrandoli con eventuali ulteriori misure più incisive secondo la peculiarità dell’organizzazione, sentite le rappresentanze sindacali, affinché ogni luogo di lavoro, in base alle specificità, sia effettivamente idoneo a garantire la sicurezza necessaria.
I dubbi e le perplessità sull’imponente impianto normativo sono tanti, ma è innegabile che per la prima volta dal dopoguerra in poi i Governi a livello mondiale si sono relazionati con circostanze che nelle previsioni mediche più drastiche dipingevano scenari apocalittici, dinanzi ai quali tutto si è relativizzato, finanche le libertà fondamentali, che mai, come precisato da autorevole dottrina, possono essere sospese.
Il Consiglio di Stato – Sez. III nella recente sentenza n.02867/2020 ha giustificato questa relativizzazione, evidenziando che “si sono applicate disposizioni fortemente compressive dei diritti anche fondamentali delle persone – dal libero movimento, al lavoro, alla privacy – in nome di un valore di ancor più primario rango costituzionale, la salute pubblica, e cioè la salute della generalità dei cittadini, messa in pericolo dalla permanenza di comportamenti individuali (pur pienamente riconosciuti in via primaria dall’ordinamento, ma) potenzialmente tali da diffondere il contagio, secondo le evidenze scientifiche e le tragiche statistiche del periodo” e ancora riferendosi ai danni, connessi alle misure anti-contagio, specifica: “la gravità del danno individuale non può condurre a derogare, limitare, comprimere la primaria esigenza di cautela, avanzata nell’interesse della collettività, corrispondente ad un interesse nazionale dell’Italia oggi non superabile in alcun modo”.
Eppure, ogni crisi, come la stessa etimologia del termine suggerisce, è un’opportunità di crescita e di costruzione del cambiamento, perché ben più grave della pandemia sarebbe farla scorrere senza aver tratto insegnamenti e senza avere almeno seminato i germogli di un avvenire migliore.
“Covid-19 e Costituzione”, di Gaetano Silvestri.
“Costituzione, fonti del diritto ed emergenza sanitaria”, di Alberto Lucarelli.
“Il diritto del Lavoro al tempo del Covid”, di Arturo Maresca.
[*] L’Avv. Graziella Secreti è Funzionario Ispettivo in servizio presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Cosenza. Le considerazioni contenute nel presente intervento sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.
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