Da circa un anno, ormai, abbiamo tutti imparato a conoscere molto bene una nuova malattia di cui non avevamo mai sentito parlare prima, forse perché gli hanno dato un nome strano, piuttosto singolare, COVID-19, e quindi, magari, più facile da ricordare, oppure perché, in breve tempo dalla sua comparsa, è diventato l’argomento principale di tutte le trasmissioni televisive, radiofoniche e degli altri mass media che, a qualsiasi titolo, trattano d’informazione, forse perché si propaga con una velocità tale che in breve tempo ha raggiunto i quattro angoli della terra e, al contempo, ha cambiato, in maniera improvvisa e radicale, il nostro modo di vivere, di studiare e di lavorare, imponendo una revisione profonda anche delle relazioni sociali, forse perché ci siamo accorti, magari sulla nostra pelle, oppure su quella di un familiare, un amico, un semplice conoscente, un compagno di studi oppure un collega di lavoro, che può portare a conseguenze estremamente variabili da persona a persona, passando dai c.d. “asintomatici”, ossia coloro che, pur essendo contagiati, neppure se ne accorgono se non attraverso specifici esami, fino ad arrivare all’estremo opposto, ossia a condizioni gravi, gravissime e, talvolta, anche letali.
Di recente, messi in circolazione i primi vaccini, è cominciata anche una campagna di vaccinazione di massa dal momento che i virologi di tutto il mondo ci hanno spiegato che da una pandemia come questa, al di là delle precauzioni di carattere preventivo, che ormai ben conosciamo, della distanza da mantenere tra le persone, dell’accurata igiene personale soprattutto delle mani e della protezione delle vie respiratorie con apposite mascherine facciali, non se ne esce se non con l’inoculazione di un vaccino a tutta o almeno alla gran parte della popolazione.
Tutto questo ha portato, in effetti, a grandi dibattiti, tuttora in corso, sia sulla reale efficacia di questi vaccini, di diversa provenienza e, quindi, per l’appunto, anche, potenzialmente, di diversa efficacia, sia anche sull’obbligatorietà o meno della vaccinazione per ogni singolo individuo. Quest’ultimo, in modo particolare, appare come un nodo ancora da sciogliere per il quale occorre, in effetti, superare una serie di ostacoli non di poco conto, sotto vari profili, non da ultimo, anche sul piano giuridico. Si discute, cioè, se si possa legalmente arrivare a coartare la libertà individuale di ciascuno affinché tutti si sottopongano a vaccinazione.
Ma per quale motivo si è arrivati a questo genere di discussioni? La risposta a questa domanda va ricercata nella già enunciata necessità di estendere la campagna vaccinale pressoché all’intera popolazione; atteso, tuttavia, che vanno considerate anche le posizioni di una serie di persone, talvolta riunite anche in gruppi più o meno organizzati (no vax), che, per varie ragioni, non intendono affatto sottoporsi alla vaccinazione, in alcuni casi più estremi perché viene addirittura contestata l’esistenza stessa del virus, ci si domanda, allora, se sia lecito o meno, al fine di raggiungere quella che gli scienziati chiamano “immunità di gregge”
[1], obbligare le persone non consenzienti a sottoporsi comunque a vaccinazione. La risposta, in realtà, è tutt’altro che semplice e scontata. Ciò in quanto ci si può venire a trovare dinanzi ad una dicotomia che rischia di rivelarsi insanabile, per cui, per forza di cose, uno dei due termini dovrà necessariamente cedere il passo di fronte all’altro, poiché occorre garantire, da un lato, gli interessi, di carattere generale, di tutela della salute pubblica, e dall’altro, il diritto individuale di ciascun soggetto di scegliere liberamente se curarsi o meno.
Si tratta, in effetti, di due termini che, in ipotesi, possono anche sovrapporsi l’un l’altro, qualora l’interesse del singolo di curarsi abbia a coincidere con l’interesse pubblico, ma che, in caso contrario, si determina, invece, un contrasto tutt’altro che agevole da risolvere.
Del resto, se si vuole attribuire un qualche fondamento giuridico ad una siffatta discussione, non si può non partire dalla principale fonte di diritto dell’ordinamento nazionale, ossia dalla Costituzione che, all’art. 32 I° comma, nel definire il diritto alla salute, pone proprio in evidenza la suddetta dicotomia, configurandolo come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”.
Posta in questi termini la questione, in caso di contrasto tra il diritto individuale e l’interesse collettivo, riportandosi alle esigenze di contemperamento di contrapposti interessi giuridici tutelati dalla legge che si ritrovano nella disciplina del procedimento amministrativo, di cui alla Legge 241/1990 e succ. mod. e di cui si trovano un’infinità di esempi nella giurisprudenza amministrativa dei T.A.R. e del Consiglio di Stato, l’interesse pubblico dovrebbe avere la prevalenza, in linea di massima, sul diritto individuale. Almeno nelle ipotesi in cui la posizione giuridica soggettiva del singolo si configura in termini di interesse legittimo. Non così agevole, invece, diventa la soluzione qualora ci si trovi, invece, dinanzi a diritti soggettivi che, notoriamente, hanno una soglia ben più elevata di tutela nei confronti dell’attività della P.A. Tanto più qualora si tratti di diritti soggettivi in qualche modo “rinforzati”, che, come tali, forniscono un livello di tutela ancor più elevato (il diritto alla vita, all’esercizio delle libertà fondamentali costituzionalmente garantite, all’integrità fisica, nel cui alveo rientra, tra l’altro, anche il diritto alla salute). In questi casi appare evidente come la comparazione dei diversi interessi, soggettivi e collettivi, non può avere un esito predeterminato a senso unico.
Non a caso, si pone, allora, anche la rilevanza dell’art. 32 II° comma Cost., secondo cui “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.” Cosicché, la riserva di legge per i c.d. trattamenti sanitari obbligatori da un lato ed il limite invalicabile del rispetto della persona umana dall’altro, appena citati, impediscono, dunque, di risolvere sic et simpliciter la questione dell’obbligatorietà della vaccinazione COVID-19.
Ma non va neppure trascurato il contesto di carattere ambientale, se così si può definire, in cui questa discussione si va ad innestare. La circolazione pressoché incontrollata, in molte aree del mondo, di questo virus ha giocoforza determinato una condizione tutt’altro che ordinaria nella quale ci si trova ad intraprendere tutte le azioni necessarie di contrasto al propagarsi del virus. Anche per quanto riguarda l’Italia, benché non si possa definire, forse, del tutto fuori controllo la trasmissione del virus, il livello di quasi 100.000 morti raggiunto per questa patologia nell’intero territorio nazionale dall’inizio della pandemia di circa un anno fa, non può certo lasciare indifferenti. Già soltanto questi riferimenti fanno capire che non ci si trova dinanzi ad una mera discussione accademica, ma potenzialmente di grande impatto sull’intera collettività. Ed è proprio per questo che nel corso di quella che è stata definita la prima fase del lockdown, si sono registrate delle fortissime limitazioni di molte delle libertà fondamentali costituzionalmente garantite, sebbene non sia intervenuta nessuna disposizione di legge, men che meno di rango costituzionale, sul punto, ma le restrizioni sono state decise, per lo più, sulla base di D.P.C.M., ossia con provvedimenti di natura regolamentare, ovvero, nel migliore dei casi, con Decreti Legge. Quest’evidente deroga alle garanzie costituzionalmente garantite si è resa necessaria ed insopprimibile per effetto dell’estrema necessità ed urgenza di limitare quanto più possibile tutti i comportamenti che, seppur, di per sé, pienamente legittimi, non ponevano sufficienti barriere alla circolazione incontrollata del virus.
Tant’è che, successivamente, si è cercato, così come avviene tuttora, visto che la fase emergenziale si può considerare tutt’altro che superata, di limitare, in qualche modo, almeno l’ambito territoriale, su base regionale e/o provinciale, delle predette restrizioni. Il giudizio, poi, sull’efficacia o meno di tali provvedimenti, dovrà essere adottato in altra sede, tenendo conto, tuttavia, anche delle ricadute in termini economico e sociali, anch’esse, a ben vedere, tutt’altro che trascurabili.
In questo particolare contesto, dunque, il diritto alla salute, nella sua accezione collettiva, intesa, dunque, come salute pubblica, è stato considerato senz’altro prevalente rispetto a molti altri diritti fondamentali pur costituzionalmente garantiti, al fine di adottare comportamenti idonei a prevenire il contagio.
Orbene, è innegabile che la vaccinazione dev’essere intesa anch’essa come strumento di prevenzione del contagio, tant’è che viene iniettato, ordinariamente, in persone non contagiate. Quindi, ragionando alla stessa stregua delle misure di limitazioni di altri diritti fondamentali, si potrebbe ipotizzare, anche in questo caso, la prevalenza dell’interesse della collettività alla salute pubblica rispetto alle tutele soggettive derivanti dallo stesso diritto alla salute.
Senonché, in questo caso, il contrasto diventa, se possibile, ancor più stridente proprio perché si tratta di un confronto tra i due aspetti principali e dicotomici del diritto alla salute, così come regolamentato dall’art. 32 Cost. E visto che la stessa disposizione costituzionale pone, innanzitutto, un’espressa riserva di legge a tutela del profilo soggettivo, al di là di tutte le precedenti considerazioni di necessità ed urgenza, si deve ritenere che per la somministrazione dei vaccini anche ai non consenzienti, si debba passare necessariamente attraverso il percorso ristretto di una espressa disposizione di legge che statuisca quest’obbligo e disponga anche le conseguenti sanzioni per il caso di violazione dello stesso. D’altra parte il tempo necessario per la relativa redazione, discussione ed eventuale approvazione ci sarebbe poiché, allo stato attuale, dalle risultanze dei sondaggi di opinione emerge che le persone dichiaratamente contrarie alla vaccinazione, oppure anche soltanto scettiche, sono una ridotta minoranza rispetto alla generalità della popolazione che, nel suo insieme, ammonta a circa 60 milioni. Ed è notizia di queste ultime settimane che, per problematiche di varia natura, l’andamento della campagna vaccinale stia procedendo, purtroppo, al di sotto dei ritmi che erano stati originariamente preventivati ed in modalità ancor più rallentata di quanto ce ne sarebbe effettivamente bisogno in un contesto di forte trasmissibilità del contagio come quella attuale. Perciò, a combinazione di quest’ultimi elementi potrebbe dare il tempo necessario al legislatore di approvare un’apposita disposizione di legge.
È anche vero, però, che i migliori scienziati sostengono che per il raggiungimento della soglia alla quale dovrebbe essere sufficientemente garantita l’immunità di gregge, si dovrebbe arrivare a vaccinare circa il 70% della popolazione[2]. Questo può anche significare che ragionevolmente non vi sia neppure bisogno di arrivare alla prescrizione dell’obbligo di vaccinazione, poiché, una volta vaccinata quella quota di popolazione, della copertura immunitaria dovrebbero poterne fruire anche le persone dissenzienti, senza, così, dover legiferare per la costruzione di un vero e proprio obbligo vaccinale.
Ne deriva, allora, almeno per ora, che in mancanza di un’espressa disposizione di legge, che, tra l’altro, dev’essere anche attenta a non superare i limiti del rispetto della persona umana, costituzionalmente garantiti, non deve ritenersi ammissibile l’introduzione del principio di obbligatorietà della vaccinazione.
È fuori dubbio, tuttavia, che l’eventuale presenza dell’obbligo di vaccinazione, se configurato o meno, possa avere delle importanti ripercussioni anche sul rapporto di lavoro, nel caso in cui il destinatario dell’eventuale obbligo di vaccinazione sia un lavoratore alle dipendenze di un datore di lavoro.
Quest’ultimo, infatti, proprio in quanto dispone, per un certo numero di ore al giorno, della forza lavorativa messa a sua disposizione dai lavoratori, secondo quanto previsto dall’art. 2087 cod. civ., all’interno della propria organizzazione aziendale è tenuto a “tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.”
Da questa disposizione, di carattere generale, discendono, poi, a cascata, tutti gli altri obblighi datoriali previsti nel D.Lgs. 81/2008 e succ. mod. che, in estrema sintesi, impongono al datore di lavoro, la valutazione dei rischi eliminando gli stessi ove rilevati ovvero riducendoli ai minimi termini, in caso di impossibilità di una rimozione in radice (art. 1), la redazione del Documento di Valutazione dei Rischi e la nomina del Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione dei rischi (art. 17), la vigilanza affinché i lavoratori osservino gli obblighi posti a loro carico (art. 20), la nomina del medico competente e, per il suo tramite, la predisposizione della sorveglianza sanitaria dei lavoratori (art. 25), l’informazione dei lavoratori in merito ai rischi precedentemente individuati e le relative procedure per ridurre al minimo i danni eventualmente prodottisi (art. 36), l’adozione dei provvedimenti necessari a seguito di eventuale segnalazione del medico competente circa l’inidoneità specifica di un singolo lavoratore (art. 42), l’individuazione e la fornitura ai lavoratori i D.P.I. necessari per poter lavorare in sicurezza (art. 77).
Tutto questo significa, in buona sostanza, che il datore di lavoro è tenuto, nell’insieme, a creare un ambiente di lavoro idoneo dove far lavorare i propri prestatori di lavoro in condizioni di sicurezza. Si tratta, a ben vedere, di una condizione che dev’essere, in qualche modo, obiettivata, ossia deve ritenersi riscontrabile anche a prescindere dal concreto comportamento tenuto, in ipotesi, dal datore di lavoro. Almeno, in tal modo, si è recentemente pronunciato il Tribunale di Arezzo del 13/01/2021[3], che ha ritenuto illegittimo il licenziamento di un cassiere che si era rifiutato di servire un cliente il quale, benché richiamato, si era rifiutato di indossare la mascherina facciale. Quest’ambizioso obiettivo di tutela a tutto tondo, se così si può dire, rischia, però, di venir, di fatto, vanificato qualora, in un periodo di pandemia, come quello attuale, il lavoratore si presenti sul luogo di lavoro dopo aver rifiutato la vaccinazione a cui avrebbe, in ipotesi, dovuto sottoporsi. Ci sono autori che sostengono che, in questi casi, il datore di lavoro dovrebbe necessariamente allontanare il lavoratore dal luogo di lavoro, arrivando anche a sostenere che, per quanto riguarda il mondo del lavoro, l’obbligo di vaccinazione, di fatto, sia già implicitamente entrato in vigore[4].
Affermazione senza dubbio coraggiosa che, tuttavia, non trova un’adeguata copertura costituzionale, atteso quanto riferito in precedenza in merito alla disposizione di cui all’art. 32 Cost. Va, inoltre, considerato un ulteriore aspetto tutt’altro che irrilevante, ossia che le aziende di qualunque genere, prima ancora che fossero resi disponibili i vaccini, seppur tra mille difficoltà anche di carattere logistico, soprattutto per l’individuazione degli spazi di sicurezza, hanno comunque continuato a lavorare adottando le comuni disposizioni di sicurezza (distanziamento, igienizzazione frequente delle mani, mascherina facciale sempre indossata). Non si comprende, dunque, per quale ragione, una volta resi disponibili i vaccini, i lavoratori che, per scelta personale, senza entrare nel merito delle relative motivazioni, intendano rifiutare l’inoculazione del vaccino, dovrebbero in qualche modo essere ghettizzati rispetto agli altri. Deve ritenersi, invece, che possano continuare a lavorare osservando le medesime norme precauzionali già osservate in precedenza.
Ciò nondimeno, tuttavia, è innegabile che si possono individuare settori di lavoro nei quali, se non un vero e proprio obbligo, almeno la necessità sia sicuramente molto più stringente, a protezione degli stessi lavoratori nonché degli utenti, come nel caso di medici, infermieri ed operatori sanitari in genere che, non a caso, sono stati tra i primi in assoluto a ricevere l’inoculazione del vaccino non appena se n’è avuta la materiale disponibilità, già negli ultimissimi giorni del 2020. In questi casi diventa davvero problematico dare spazio ad obiezioni di carattere individuale nei confronti della vaccinazione in considerazione dei contenuti specifici richiesti dalle prestazioni professionali richiesti a queste particolari figure di lavoratori, ma anche a tutela degli stessi, visto l’alto numero di decessi per COVID-19 registrato anche fra le citate categorie di lavoratori.
[1] https://www.fondazioneveronesi.it/magazine/tools-della-salute/glossario/immunita-di-gregge
[2] https://www.humanitas.it/news/covid-19-e-vaccino-quando-avremo-l-immunita-di-gregge/
[*] Avvocato, Funzionario Area Amministrativa e Giuridico – Contenzioso – F5 in servizio presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Teramo.
Le considerazioni contenute nel presente scritto sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno in alcun modo carattere impegnativo per la relativa Amministrazione di appartenenza.
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