Preliminarmente bisogna chiarire che “discriminare” significa mettere in atto una disparità di trattamento
nei confronti di una persona o un gruppo di persone, sulla base di alcune caratteristiche legate “all’età, alla religione, alla razza, alle convinzioni personali, alla disabilità, all’orientamento sessuale, all’origine sociale, al sesso o all’identità di genere”. Ne consegue che la persona o le persone nei cui confronti vengono attuati atti discriminatori
, vedono ridursi le proprie possibilità di partecipazione alla vita sociale, culturale, economica e politica del Paese. La discriminazione può essere attuata in ogni ambito della vita di una persona, se accade in ambito lavorativo, si parla di discriminazioni sul luogo di lavoro che possono manifestarsi in maniera più o meno palese e diretta o indiretta e in diversi modi e situazioni. L’individuo può vedersi negato l’accesso al lavoro o se già ha lo status di lavoratore le discriminazioni possono essere attuate in itinere nel corso del rapporto di lavoro e possono presentarsi in diverse forme concernenti le condizioni lavorative: retribuzione, avanzamenti di carriera, accesso a corsi di orientamento e formazione, demansionamento, etc.. Infine, possono manifestarsi nella fase finale del rapporto di lavoro per effetto di espulsione dal lavoro a causa di un licenziamento discriminatorio e, pertanto, illegittimo.
1.1 Sono considerate discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere, intenzionalmente o non intenzionalmente, per l’orientamento sessuale o l’identità di genere di una persona che violano la dignità di una persona e creano un clima sul posto di lavoro intimidatorio, ostile, degradante umiliante od offensivo.
Il mobbing, ad esempio, racchiude tutte quelle condotte vessatorie, reiterate e continuative, individuali o collettive, rivolte nei confronti di un lavoratore o lavoratrice ad opera di superiori gerarchici (mobbing verticale), e/o colleghi (mobbing orizzontale), oppure da parte di sottoposti nei confronti di un superiore (mobbing ascendente).
1.2 Nella nozione di discriminazione vi rientrano quelle attuate nei confronti delle donne in quanto tali. Trattasi di quella certamente più diffusa nonostante numerose leggi sono state emanate per tutelare le donne in ogni ambito, in particolare, si ricordino quelle che vietano le discriminazioni tra i due sessi sul luogo di lavoro (Legge n. 903/1977; Legge n. 125/1991; D.Lgs. 198/2006 c.d. Codice delle Pari Opportunità; D.Lgs. n. 5/2010 etc.). la figura della Consigliera di parità (Capo IV del Codice delle Pari Opportunità tra uomo e donna, legge n. 198/2006) si occupa di parità tra uomo e donna sul posto di lavoro e cioè discriminazione di genere, spesso anche di quelle legate alla identità di genere intesa come transessualità/transgenderismo.
1.3 Altra forma di discriminazione che può manifestarsi anche sui luoghi di lavoro è quella nei confronti delle persone con disabilità. Non è un caso che la Legge n. 68/1999, ha come obiettivo quello di promuovere l’inserimento e l’integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso un collocamento mirato
. La legge stabilisce un obbligo di assunzione dei soggetti disabili presso datori di lavoro in rapporto al numero dei dipendenti delle singole imprese, anche se l’attuazione della normativa è ancora molto difficoltosa. Seguono in materia altre normative come la Legge n. 18/2009 “Ratifica ed esecuzione della Convenzione delle nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, firmata a New York il 13 dicembre 2006 e l’istituzione dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità”, infine, importante è ricordare la Legge n. 67/2006, recante “Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità e vittime di discriminazioni”. Permangono tutt’oggi discriminazioni non solo in ingresso, ma anche sul posto di lavoro, che vanno considerate in maniera diversa a seconda che si tratti di disabilità intellettive, motorie, psichiche etc.
1.4 La discriminazione per razza ed origine etnica che si sostanzia in un trattamento differenziato di un individuo o di un gruppo di individui a causa dei suoi/loro tratti somatici, dell’appartenenza culturale e di quella linguistica. Anche per contrastare questo fenomeno il legislatore è intervenuto a livello nazionale esiste infatti il D.lgs. n. 215/2003 Testo Unico sull’immigrazione, che recepisce la Direttiva 2000/43/CE, istituisce e disciplina l’azione in sede civile contro gli atti di discriminazione; a livello comunitario ricordiamo il Trattato sulla Comunità Europea del 1999.
Le diverse tipologie di discriminazioni introdotte nel nostro ordinamento dall’art. 25 della Legge n. 125/1991 sulle pari opportunità sono:
- Discriminazione diretta: qualsiasi atto, patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quella di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga.
- Discriminazione indiretta: quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo ed i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.
Tra i vari comportamenti discriminatori che si possono realizzare sui luoghi di lavoro, meritano particolare attenzione, anche a fronte degli ultimi sviluppi della giurisprudenza statunitense, quelli relativi all’orientamento sessuale e l’identità di genere. Trattasi di fattori di rischio che hanno elementi in comune ma di trovano su due binari di tutela differenti.
Discriminazioni in tema di orientamento sessuale
Fonti normative nazionali:
- Cost. del 1948, art. 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e chiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
Art. 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. In tal modo la tutela antidiscriminatoria trova spazio nel nostro Paese, sia sotto il profilo “diretto” che nella nostra Costituzione è teorizzato quale principio di uguaglianza formale (art. 3, comma 1), sia sotto il profilo “indiretto”, quale uguaglianza sostanziale (art. 3, comma 2).
- Legge n. 604/1966, art. 4: vieta il licenziamento discriminatorio. Inizialmente tale forma di tutela era stata introdotta nel nostro ordinamento sin dagli anni sessanta per garantire i diritti sindacali e politici dei lavoratori (la ratio di tale tutela era che nessuno poteva essere discriminato per l’appartenenza ad un partito politico o per l’iscrizione ad un determinato sindacato). In seguito la portata di tale divieto si è estesa sino a ricomprendere nelle norme di tutela ogni fattore di rischio.
- Legge n. 300/1970, art. 15 (cd. Statuto dei lavoratori tutt’ora in vigore) rubricato “Atti discriminatori” sancisce la nullità di qualsiasi atto o patto diretto a subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte; licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero etc.. Una prima modifica della norma si ebbe con l’art. 13 della Legge n. 903/1977 che sostituì il secondo comma dell’art. 15 con il seguente: “Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti ai fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso”. Successivamente completata dal D.Lgs. n. 216/2003, aggiungendo le discriminazioni “di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali”. Appare evidente che l’art. 15 ha seguito l’evoluzione legislativa descritta ampliando il ventaglio delle possibili cause di discriminazione. Ne consegue che il datore di lavoro, dunque, è tenuto non tanto a praticare la parità di trattamento verso i suoi dipendenti, bensì a rispettare il principio di non discriminazione, cioè a non praticare disparità di trattamento in ragione di fattori che la Legge gli vieta di prendere in considerazione. L’articolo 15 Stat. si configura quindi come una vera e propria norma di chiusura (qualsiasi atto o patto diretto a recare altrimenti pregiudizio), si sostanzia, cioè in una formula così ampia, da ricomprendere nel divieto anche le discriminazioni atipiche, ovvero quelle non direttamente tipizzate dal Legislatore.
Lo Statuto dei lavoratori a più di 50 anni dalla sua emanazione, si dimostra una Legge ben fatta, capace di evolvere e di adattarsi, continuando a perseguire lo scopo per cui è nato, la tutela dei diritti dei lavoratori e, nel caso dell’art.15, del principio di uguaglianza, formale e sostanziale, sui posti di lavoro.
- D.Lgs. n. 215 e 216 del 2003: attuativi della Direttiva quadro 2000/78/CE, che prevede la tutela contro la discriminazione basata sull’orientamento sessuale delle persone sul luogo di lavoro. In base a tale tutela c’è stata l’introduzione in Italia di specifiche disposizioni volte a proteggere i dipendenti dagli effetti di un licenziamento discriminatorio (quale ad es. quello per l’orientamento sessuale). In tal caso il datore di lavoro, secondo quanto previsto dalla legge, è obbligato a risarcire il danno al lavoratore licenziato e, inoltre, a reintegrarlo (cfr. l’art. 4 della Legge n. 604/66 e l’art. 3 della Legge n. 108/90 nonché l’art. 15 della Legge n. 300/70). È da notare che l’introduzione di questa normativa nel sistema comunitario e in Italia è stata suggerita anche dalla Corte di Giustizia, la quale aveva evidenziato il correlato vuoto di tutele esistente prima del 2000 in favore della libertà di preferenze sessuali delle persone
.
- D.Lgs. n. 276/2003, art. 10: ha posto il divieto per le agenzie per il lavoro e per gli altri soggetti pubblici e privati autorizzati o accreditati “di effettuare qualsivoglia indagine o comunque trattamento di dati ovvero di preselezione di lavoratori, anche con il loro consenso, in base al credo religioso, al sesso, all’orientamento sessuale, allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza, alla età, all’handicap, alla razza, all’origine etnica, al colore, all’ascendenza, all’origine nazionale, al gruppo linguistico, allo stato di salute etc.”.
- D.Lgs. n. 145/2005: ha incluso le molestie di genere e le molestie sessuali come fattispecie discriminatoria, oltre che tutti quei trattamenti sfavorevoli che vengono adottati dal datore di lavoro come ritorsione verso chi abbia avanzato un reclamo o compiuto un’azione per pretendere il rispetto del principio di parità.
- D.Lgs. 198/2006: è stato emanato poi il cd. Codice delle Pari opportunità tra uomo e donna, rivoluzionario in materia. Infatti, il Codice ha ad oggetto le misure volte ad eliminare ogni discriminazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza o come scopo di compromettere o di impedire il riconoscimento, il godimento o l’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo. La parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i settori; compresi quelli dell’occupazione, del lavoro e della retribuzione. In particolare, ai sensi degli artt. 27 e 28 del D.Lgs. n. 198/2006, come modificati dal D.Lgs. n. 5/2010, è vietata qualsiasi discriminazione:
- per quanto riguarda, l’accesso al lavoro in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione, nonché la promozione (sul punto si è espressa la Cass., sent. 5/6/2013 n. 14206 relativa ad una pretesa discriminazione per ragione connessa al sesso, nell’avanzamento di carriera), indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale (art. 27, co.1);
- anche se attuata, attraverso il riferimento allo stato matrimoniale o di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, in modo indiretto, attraverso meccanismi di preselezione, ovvero a mezzo stampa o con qualsiasi altra forma pubblicitaria che indichi come requisito professionale l’appartenenza all’uno o all’altro sesso (art.27, co.2);
- anche relativa alle iniziative in materia di orientamento, formazione, perfezionamento, aggiornamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini formativi e di orientamento, per quanto concerne sia l’accesso, sia i contenuti (art. 27, co.3);
- diretta e indiretta, concernente un qualunque aspetto o condizione delle retribuzioni, per quanto riguarda un lavoro al quale è attribuito un valore uguale (art. 28, co.1);
- tra uomini e donne, per quanto riguarda l’attribuzione delle qualifiche, delle mansioni e la progressione nella carriera (art. 29, comma 1);
- inoltre, ai sensi dell’art. 25, comma 2-bis, inserito dal D.Lgs. n. 5/2010, costituisce discriminazione
ogni trattamento meno favorevole, in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità o dell’esercizio dei relativi diritti.
Importante è osservare anche che il legislatore all’art. 27, co. 4 del medesimo Codice, precisa che “eventuali deroghe alle disposizioni succitate ai commi precedenti, sono ammesse soltanto per mansioni di lavoro particolarmente pesanti individuate attraverso la contrattazione collettiva”. Infine, al comma 5 dell’art. 27 si specifica che nei concorsi pubblici e nelle forme di selezione attuate
, anche a mezzo di terzi, da datori di lavoro privati e pubbliche amministrazioni la prestazione richiesta deve essere accompagnata dalle parole “dell’uno o dell’altro sesso”
, fatta eccezione per i casi in cui il riferimento al sesso costituisca requisito essenziale per la natura del lavoro o della prestazione”. È in re ipsa che non costituisce discriminazione condizionare l’appartenenza ad un determinato sesso l’assunzione in attività della moda, dell’arte e dello spettacolo, quando ciò sia essenziale alla natura del lavoro o della prestazione.
Il legislatore del 2006 continua negli articoli successivi all’art. 27 con una elencazione di divieti di discriminazione:
- retributiva: ossia a parità di prestazioni richieste, parità di retribuzione;
- nella prestazione lavorativa e nella carriera: è vietata qualsiasi discriminazione fra uomini e donne per quanto riguarda l’attribuzione delle qualifiche, della mansioni e la progressione nella carriera;
- nell’accesso alle prestazioni previdenziali: esplicitato nell’opzione concessa alle lavoratrici di continuare a prestare la loro opera fino agli stessi limiti di età previsti, per gli uomini, da disposizioni legislative, regolamentari e contrattuali, previa comunicazione al datore di lavoro da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto alla pensione di vecchiaia. Si pensi, altresì, alla disposizione in tema di assegni familiari, aggiunte e maggiorazioni delle pensioni per familiari che possono essere corrisposti, in alternativa, alla donna lavoratrice o pensionata alle stesse condizioni e con gli stessi limiti previsti per il lavoratore o pensionato.
- nell’accesso agli impieghi pubblici: è stabilito che la donna può accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazioni di mansioni e di svolgimento della carriera, salvi i requisiti stabiliti dalla legge. È, altresì, stabilito che l’altezza delle persone non costituisce motivo di discriminazione nell’accesso a cariche, professioni e impieghi pubblici salve alcune eccezioni concernenti mansioni e qualifiche speciali;
- nell’arruolamento e nel reclutamento nelle forze armate e nei corpi speciali: ebbene le forze armate ed il Corpo della guardia di finanza si avvalgono, per l’espletamento dei propri compiti, di personale maschile e femminile; nessun tipo di discriminazione può essere fatto nelle procedure di reclutamento nelle forze armate a danno delle donne rispetto agli uomini;
- nelle carriere militari: è previsto che le disposizioni vigenti per il personale militare maschile delle Forze armate e della Guardia di Finanza sono le stesse vigenti per il personale militare femminile;
- divieto di licenziamento per causa di matrimonio: la disposizione sancisce a chiare lettere la nullità delle clausole di qualsiasi genere, contenute nei contratti collettivi e individuali, che prevedano comunque la risoluzione del rapporto di lavoro delle lavoratrici in conseguenza del matrimonio, esse sono quindi tamquam non esset; idem per le dimissioni presentate dalla lavoratrice nel periodo che va dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio a un anno dopo la celebrazione . È fatta salva la prova contraria con onere a carico del datore di lavoro che il licenziamento non sia dovuto a causa del matrimonio.
Il capo III del Codice delle Pari Opportunità è poi rubricato “tutela giudiziaria” agli artt. 36 al 41-bis
prevede le Azioni Individuali con le quali “chi intende agire in giudizio per opporsi ad ogni comportamento discriminatorio posto in essere può ricorrere, avanti al Tribunale, in funzione del Giudice del Lavoro, del luogo ove è avvenuto il comportamento discriminatorio o, per i rapporti sottoposti alla sua giurisdizione, al Tribunale amministrativo regionale territorialmente competente, sia direttamente che delegando o il Consigliere di parità, per la tutela dei propri diritti. Si precisa che, il Consigliere di parità – nominato a livello nazionale, regionale e provinciale – ha il compito di intraprendere ogni utile iniziativa, al fine del rispetto del principio di non discriminazione e della promozione di pari opportunità per lavoratori o lavoratrici, svolgendo, fra l’altro, le funzioni circa la rilevazione delle situazioni di squilibrio di genere e promozione di progetti di azioni positive.
Le azioni individuali in esame possono essere precedute dalle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, oppure ai sensi dell’art. 410 cpc o, rispettivamente, dell’art. 66 del decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165 (con facoltà di assistenza, in quest’ultimi casi, dei Consiglieri di parità).
È infine prevista una procedura di urgenza
ai sensi dell’art. 38 D.lgs. n. 198/2006, attivabile dal lavoratore o, per sua delega, dalle organizzazioni sindacali, associazioni e organizzazioni rappresentative o Consigliera di parità. Il ricorso ugualmente si propone dinanzi al Tribunale, in funzione del Giudice del Lavoro, del luogo ove è avvenuto il comportamento discriminatorio o, per i rapporti sottoposti alla sua giurisdizione, al Tribunale amministrativo regionale territorialmente competente che, nei due giorni successivi, convocate le parti e assunte sommarie informazioni, se ritenga sussistente la violazione di cui al ricorso, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, nei limiti della prova fornita, ordina all’autore del comportamento denunciato, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti. Avverso tale decreto e nel termine di 15 giorni dalla sua comunicazione, è ammessa opposizione avanti al Giudice, il quale decide con sentenza immediatamente esecutiva. L’inottemperanza al decreto o alla sentenza pronunciata nel giudizio di opposizione è punita con l’ammenda fino ad € 50.000 o l’arresto fino a sei mesi.
La seconda parte verrà pubblicata su Lavoro@Confronto N. 47
[*] Direttore dell'Ispettorato Territoriale del Lavoro di Napoli
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