Quando pensiamo alla povertà quello che ci viene in mente è l’impossibilità di trovare un lavoro e di provvedere a se stessi. I disoccupati, quelli sì che sono poveri: per risolvere il problema basta creare opportunità di lavoro e la mano invisibile farà il resto. In realtà, non basta un’occupazione a far uscire le persone da una condizione di difficoltà economica. Lo racconta la Relazione del gruppo di lavoro sugli interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia, presentata al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali lo scorso gennaio. In Italia, anche se si ha la fortuna di avere un lavoro, si rischia di vivere sotto la soglia di povertà: è così per più di un decimo dei lavoratori italiani, mentre se consideriamo semplicemente il reddito percepito, la fetta di lavoratori a reddito basso si allarga ad un quarto.
Si tratta di un fenomeno complesso, per analizzarlo è necessario osservarlo da diverse prospettive. La povertà lavorativa, infatti, viene definita sia da un punto di vista individuale, sia familiare. Nel primo caso i più colpiti sono i lavoratori che – nella maggior parte dei casi involontariamente – sono costretti a svolgere un numero minore di ore di lavoro all’anno, ovvero coloro che lavorano solo per intervalli di pochi mesi o chi ha un contratto part-time. A questa categoria, poi, si aggiungono i lavoratori autonomi, che, a differenza dei lavoratori dipendenti, non beneficiano di molte tutele. A queste variabili si aggiungono le caratteristiche del nucleo familiare in cui il soggetto è inserito: da quante persone è composto e quante di loro percepiscono un reddito.
Nel report del Gruppo di lavoro viene spiegato come la povertà lavorativa non abbia una unica causa, ma sia piuttosto una concatenazione di elementi che è importante analizzare separatamente, dal momento che le misure per migliorare questa condizione devono agire diversamente su ognuno di essi. Quella che viene chiamata “catena” di creazione di povertà e disuguaglianza è formata da tre anelli: il primo è costituito dai redditi individuali da lavoro, che variano in base al salario unitario (ovvero alla paga oraria), alle ore lavorate durante la settimana e dai mesi lavorati durante l’anno. Il secondo anello invece è quello dei redditi familiari di mercato, ovvero quanti, all’interno della famiglia, percepiscono un reddito grazie al loro lavoro. Infine, si giunge all’anello dei redditi familiari disponibili, ovvero quanti soldi la famiglia ha a disposizione, al netto delle imposte e dei trasferimenti (per esempio quelli derivanti dal welfare dello Stato).
È importante distinguere questi tre anelli perché si può intervenire con politiche specifiche su ognuno di essi, in modo diverso. Per migliorare le condizioni dentro al primo anello, si attuano politiche predistributive, ovvero politiche industriali, del lavoro (micro e macroeconomiche) o di formazione, che aiutano l’individuo ad inserirsi in un mercato del lavoro più sano e di percepire un salario maggiore a condizioni migliori. Al secondo anello si applicano politiche di attivazione e di conciliazione famiglia-lavoro, mentre al terzo si applicano le politiche redistributive – quelle che comunemente noi identifichiamo con il welfare – come le detrazioni fiscali, il Reddito di Cittadinanza o la NASpI.
Fino ad ora gli interventi dello Stato sono rimasti abbastanza in superficie rispetto al problema della povertà lavorativa, andando a tamponare il problema delle difficoltà economiche delle famiglie in maniera più generale, piuttosto che mirata a un obbiettivo specifico. Tra queste misure figurano quelle di supporto all’economia del Mezzogiorno e quelle a sostegno dell’occupazione femminile. Iniziative direzionate in modo particolare ai lavoratori sono state quella dei famosi “80 euro” e quelle che prevedono sgravi fiscali per le imprese che aumentano i salari come premio di produzione. Il problema di queste iniziative è che rischiano, se non ben controllate, di trasformarsi in trasferimenti alle imprese piuttosto che ai lavoratori: i datori di lavoro potrebbero approfittare per pagare ancora meno i dipendenti dal momento che è presente un intervento dello Stato. Inoltre, azioni di questo tipo vanno a beneficiare quei lavoratori dipendenti che spesso si trovano già in buone condizioni, anche a livello contrattuale, rispetto alla media – per l’erogazione degli 80 euro, per esempio, non vengono presi in considerazioni i redditi che sono talmente bassi da risultare incapienti ai fini fiscali. Infine, un intervento importante in termini di risorse impiegate è stato il Reddito di Cittadinanza, che però appare insufficiente per risolvere il problema della povertà lavorativa.
Le proposte del gruppo di lavoro sono di tipo prevalentemente predistributivo, finalizzate al raggiungimento di una garanzia di minimo salariale soprattutto per le categorie più a rischio. Le ipotesi vagliate sono quella di istituire un salario minimo generale, di allargare l’applicazione dei contratti collettivi ad un maggior numero di categorie o di seguire una sorta di terza via: definire dei minimi salariali basati su contratti collettivi da estendere ad un numero limitato di settori, in particolare quelli che presentano condizioni più critiche per i lavoratori. Il gruppo di lavoro sottolinea come sia indispensabile che queste politiche vengano implementate insieme ad azioni trasversali. Da un lato, è importante promuovere il rispetto delle norme da parte delle imprese, attraverso una maggiore vigilanza, incentivi per la buona condotta oppure la denuncia pubblica del name and shame. Dall’altro lato è imprescindibile che i lavoratori abbiano accesso alle informazioni che permettono loro di accedere alle tutele e di comprendere effettivamente quali siano le loro prospettive economiche anche a lungo termine, come ad esempio le previsioni sulle condizioni di pensionamento.
Queste misure sono state pensate in termini microeconomici, sono cioè degli interventi mirati che tentano di porre rimedio alla povertà lavorativa che negli ultimi dieci anni in Italia è aumentata considerevolmente. L’analisi degli esperti però, mette in luce come degli interventi di tamponamento temporaneo non sono sufficienti a risolvere il problema se non sono accompagnati da politiche che agiscano anche sul piano macroeconomico. “Spesso la mancanza di lavoro, lavoro qualificato, ben pagato e con continuità lavorativa, è strettamente legata alle dinamiche della domanda di lavoro e/o alle caratteristiche del contesto territoriale e macro economico-sociale più ampio” si legge nel report; è chiaro quindi che non ci si può limitare a questo, ma bisogna implementare politiche macroeconomiche ed industriali di più ampio respiro, per “influenzare il margine estensivo e la composizione strutturale del mercato del lavoro in termini di occupazioni e settori”. In altre parole, bisogna che i lavoratori siano messi nelle condizioni di percepire un salario equo e continuativo: l’unico modo per avere risultati stabili a lungo termine, oltre a mettere in pratica interventi mirati, è costruire dalle fondamenta un contesto socio-economico che lo permetta.
[*] Studentessa di Scienze Filosofiche presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Laureata in Philosophy, International and Economic Studies a Ca’ Foscari. Vicedirettrice marketing di Lexacivis.
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