Nell’evolversi del mercato del lavoro e dell’economia odierna, spesso ci si pone un interrogativo che sempre più attanaglia non soltanto chi ha già un’occupazione e non vuol correre il rischio di perderla, magari a vantaggio di chi si dimostra più “flessibile”, ma anche per coloro che sono alla ricerca di una occupazione sapendo di poter offrire una gamma di competenze acquisite anche per merito di adeguati percorsi di “formazione” assolti.
La formazione possiamo definirla quale fondamentale strumento per mezzo del quale ampliare (ma spesso modificare e integrare) il proprio bagaglio di competenze ed abilità lavorative necessarie per lo svolgimento della conseguente prestazione lavorativa.
Il mercato del lavoro evidentemente sta cambiando, di conseguenza credo sia importante anche porsi una domanda vale a dire: è più importante essere iper specializzati nel proprio settore di impiego o è preferibile rendersi più propriamente duttili per meglio rispondere alle richieste datoriali e dell’impresa?
Partiamo da una fondamentale considerazione ossia ci accorgiamo che con il passare del tempo sta mutando profondamente l’idea di lavoro. Non di meno anche la formazione, in quanto elemento strutturale legato indissolubilmente al lavoro, ha assunto interpretazioni, sfumature e declinazioni differenti.
Il lavoro, infatti, non può limitarsi ad essere il semplice mezzo per guadagnarsi da vivere ma come contempla il dettato costituzionale, è altrettanto luogo in cui si sviluppa e realizza la personalità e la dignità delle persone in quanto tali.
Sta cambiando velocemente il modo di pensare al lavoro e di rapportarsi ad esso, basti riflettere sui modi in cui si prova ad inserirsi nel mercato attraverso una affannosa ricerca di impiego e alla evoluzione dei sistemi di lavoro e aggiungo di vivere parallelamente, anche rispetto ai secoli scorsi, nell’attuale epoca tecnologica, post industriale.
Nel periodo del boom economico vissuto dal nostro Paese il “lavoro” offriva certamente visioni più rosee e il suo raggiungimento certamente era più agevole. Alla sua base si poneva la sostanziale vastità di offerta di lavoro frequentemente non specializzata e proveniente dalle regioni del sud, come pure una organizzazione del lavoro ben definita tarata soprattutto su produzioni massicce di beni materiali manifatturieri crescenti, rivolti ad un mercato in continua espansione. La classe imprenditoriale vecchia e nuova, per lo più di provenienza settentrionale, investiva i propri capitali con una certa positiva propensione e fiducia. Conseguentemente il concetto di lavoro assumeva un carattere naturalmente univoco nella sua disponibilità ed esplicazione cadenzato a fronte di organizzazioni delle produzioni di estrazione post fordista. E anche le rivendicazioni sindacali di massa, del periodo, si basavano, principalmente, sul miglioramento delle condizioni di lavoro nelle “fabbriche”, rivendicando turni, salari, diritti materiali, crescenti.
Oggi, di contro, il lavoro ingloba aspetti, nella nostra vita, nettamente differenti, soprattutto se osserviamo la negatività, pervasività e cogenza che hanno nel tempo assunto i concetti di disoccupazione e inoccupazione (aggiungiamoci anche il recente reddito di cittadinanza) che proprio nel contesto sociale ne sono l’esempio lampante, anche osservando l’evoluzione conseguente dei sistemi di welfare, l’aggiornamento del mercato del lavoro, l’ampliamento e diffusione degli ammortizzatori sociali, la necessità di percorsi di “formazione” permanente.
Si aggiunga che il modello organizzativo attuale si estrinseca sempre più su modelli di non contiguità, riferendosi al fatto che i lavoratori rendono la prestazione restando sempre meno a stretto contatto tra di loro. Questo modello organizzativo incide imprimendo un cambiamento del modo di intendere il lavoro, determinando un sistema per così dire “di connessione”.
Nell’organizzazione per connessione la parola chiave potrebbe essere “flessibilità”, volta al raggiungimento del possibile mutamento nella gestione della forza lavoro, innescando da parte delle imprese l’esigenza non rara di esternalizzare e/o delocalizzare molte delle loro attività o rami di produzione. Ciò ha portato la dottrina giuslavoristica a misurarsi con il concreto diritto di fare impresa laddove i costi di produzione ed in particolare del lavoro sono minori pur salvaguardando livelli occupazionali, salariali e contrattuali contrastando, per quanto possibile, fenomeni di dumping geo-economici.
Il tutto ad ogni modo ruota anche sul possibile mutamento delle professionalità e altrettanto nella formazione dei dipendenti, il lavoratore dove essere sempre più flessibile anche nell’implementare o modificare le proprie competenze professionali seguendo permanentemente percorsi formativi.
Queste considerazioni tendono a sottolineare il fatto che per un mercato del lavoro moderno il vero architrave, in ogni rapporto di lavoro, confermiamolo, è la formazione, in quanto rappresenta l’elemento che più di ogni altro consente di affrontare al meglio le turbolenze e le variabili dei mercati del lavoro.
Da sempre, la formazione oltre che rappresentare uno strumento strettamente legato anche alla finalità dell’assunzione, al pari sostanzia la concreta declinazione dell’articolo 35 della Costituzione, ossia il giusto principio dell’elevazione professionale di chi lavora. Da cui il diritto naturale al lavoro deve contenere anche il diritto ad acquisire e mantenere, ovvero ad elevare, la propria professionalità per poter eseguire al meglio l’attività lavorativa scelta o che in prospettiva potrebbe necessariamente doversi svolgere.
In summa si rende necessario non solo perseguire delle politiche attive del lavoro finalizzate a ridare, per quanto possibile, maggiore stabilità ai rapporti di lavoro, prerequisito per una adeguata professionalizzazione e fidelizzazione dei lavoratori, ma anche sensibilizzare il mondo datoriale per infondere una cultura più ampia e inclusiva del lavoro, “alto” in cui la formazione sia costantemente garantita anche in vigenza del rapporto del lavoro, e non solo come strumento per approdare all’assunzione.
È giusto ribadire che la formazione continua del lavoratore è necessaria per affrontare meglio i repentini cambiamenti di una società sempre più tecnologica ed informatizzata, ma la continua formazione può altresì dimostrarsi necessaria al dipendente per l’ottimale svolgimento delle sue mansioni, abbinandovi anche nozioni teoriche che, magari, all’epoca della prima assunzione non necessitavano.
Con la crescente ed inarrestabile avanzata delle tecnologie digitali, le concomitanti problematiche legate ai mutamenti demografici e altrettanto le conseguenze dei persistenti e massicci flussi migratori, ma non ultima la pandemia mondiale originata dal Covid-19, si stanno modellando i diversi mercati del lavoro sotto svariati punti di vista.
Secondo recenti studi statunitensi, un problema particolarmente urgente da risolvere, e verificato da diverse aziende multinazionali, consiste nel trovare personale preparato in grado di garantire il possesso delle competenze richieste dall’attuale mondo del lavoro. In particolare, le aziende si vedono vincolate nei processi di selezione del personale o ad assumere un dipendente sotto qualificato o troppo qualificato per le mansioni richieste. Risulta quindi necessario esplorare i mutamenti in atto nel mercato del lavoro, affrontando tematiche quali, lo smart working, le sfide che attendono l’economia nei prossimi anni, la delocalizzazione, destrutturazione e fluidità del lavoro, con un occhio attento all’importanza dei percorsi di formazione scolastica, universitaria e lavorativa per il futuro delle aziende in Italia.
Risulta quindi necessario, per avvicinare i saperi al mondo delle imprese, ripensare i modelli e i comportamenti partendo dall’organizzazione della scuola, coinvolgendo sia le aziende che i lavoratori.
Dal lato delle aziende appare imprescindibile creare le condizioni adatte per cui ogni suo lavoratore riesca ad esprimersi nei contesti dove concentrare la propria formazione e il proprio sviluppo. Un approccio, in altre parole, incentrato sull’uomo, quale preziosa risorsa umana, non più visto come una mera componente della personale forza lavoro, ma inteso come un collaboratore che possa dare un sostegno attivo alla realizzazione di una società e di un’economia vocata alle sfide del futuro. Non a caso nel tanto decantato Pnrr sono previsti appunto interventi e risorse per il rafforzamento delle competenze connesse con il capitale umano.
Appare evidente, quindi, ripensare gli attuali modelli di sviluppo del capitale umano, iniziando dal concetto obsoleto di istruzione standardizzata valida per tutti, ma altresì anche l’idea di un unico lavoro che accompagni l’intera esistenza dell’individuo, ci stiamo sempre più rendendo conto, non è praticamente applicabile, e l’evoluzione del mercato del lavoro odierno ne è una plastica espressione. Da qui il pensiero portante che la formazione continua, deve erigersi quale uno dei fattori abilitanti delle politiche industriali, anche quando si parla di transizione green la chiave dovrebbe essere proprio la formazione.
I cambiamenti economici e il progresso tecnologico devono iniziare ad essere accostati anche al mercato del lavoro apportando un nuovo pensiero aperto, flessibile, vedendo quindi adottati percorsi basati sull’apprendimento costante (life long learning) e di livello oltre che, garantire un’effettiva mobilità lavorativa funzionale anche ai bisogni dei lavoratori.
Bisogno però, al contempo, considerare che ogni generazione, dell’attuale società economica globale, possiede un suo tratto distintivo, dei valori, una conoscenza ed un’esperienza molto diversa dalle altre, per riuscire a massimizzare e finalizzare, nei contesti sociali, le caratteristiche di ognuna è palese che bisogna ripensare i modelli di formazione e di sviluppo professionale. Saper riconoscere e affrontare efficacemente le suddette differenze generazionali, contribuisce a ridurre la mancata corrispondenza delle competenze (skills mismatch), che è cosa nettamente diversa rispetto all’altro elemento di criticità ovvero il divario di competenze (skills gap).
In prospettiva l’economia futura affronterà delle sfide che già si stanno delineando, rispetto alla situazione attuale, alcuni recenti studi economici hanno quantificato in circa 1,3 miliardi di persone nel mondo che sono o iper-qualificate per la mansione che svolgono o hanno competenze insufficienti, un dato che entro il 2030 aumenterà di 100 milioni di unità. Per fare un esempio concreto, di cosa si vuol dire, nel 1970 negli Stati Uniti, i tassisti laureati erano meno dell’1%, secondo un’ultima rilevazione la percentuale dei conducenti laureati è del 15%. Per un corretto sviluppo dell’economia mondiale, quindi, risulta evidente la necessità di intervenire, da subito, risolutamente per correggere il cosiddetto “skills mismatch”.
Le competenze digitali e lo sviluppo delle cosiddette soft skills quali: intelligenza emotiva, problem solving, adattabilità, capacità di lavoro di squadra, sono percorsi poco analizzati e perseguiti dagli istituti scolastici e universitari, evidentemente ancora legati ai fabbisogni richiesti dalle produzioni industriali su larga scala che si basavano sul presupposto, ormai superato nei fatti che una mansione/occupazione intrapresa rimasse la medesima per l’intera età lavorativa del dipendente.
Il lavoro oggi si poggia ed è in sostanza caratterizzato da un’istruzione per così dire standardizzata, a questo aggiungiamo un eccessivo ricorso a formule di precariato, come pure ad immotivati lunghi periodi di tirocini. Un’impostazione questa che rende praticamente impossibile evitare i sopra menzionati skills mismatch.
Per superare questi problemi è necessario creare condizioni di lavoro che consentano al lavoratore di scegliere come e dove utilizzare il proprio tempo formativo e le relative competenze da raggiungere, ciò significa, in altre parole, consentire al lavoratore di meglio adattarsi e proiettarsi alle mutevoli esigenze delle aziende.
Parallelamente, anche i sistemi scolastici e universitari, che hanno il compito di fungere da intermediari e mediatori tra i datori di lavoro, le classi politiche, e i futuri lavoratori, tenendo altresì in considerazione l’evoluzione e lo sviluppo delle nuove competenze e tecnologie, hanno responsabilità ben specifiche ed onerose.
L’alternanza scuola-lavoro, denominata dal 2019 Pcto - percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, è una “modalità didattica obbligatoria” per tutti gli studenti degli ultimi tre anni delle scuole statali superiori, licei compresi, introdotta nel 2015 (sotto il nome della riforma della buona scuola) con l’obiettivo di arricchire la formazione degli studenti, verificandone le attitudini al lavoro, contemplando un monte ore da effettuarsi pari a 90 per i licei, 150 per gli istituti tecnici e 210 per istituti professionali.
Si parla comunque sempre di “alternanza” anche per l’altro pilastro che la compone, vale a dire i cosiddetti “stage” di coloro che frequentano gli istituti incardinati nei diversi sistemi regionali di istruzione e formazione professionale.
Il sistema normativo italiano per la prevenzione predispone una tutela molto articolata per proteggere gli studenti impegnati in queste attività.
Secondo le definizioni dell’articolo 2 del Decreto Legislativo 81 del 2008, la norma, quando si riferisce al “lavoratore”, intende chiunque svolga un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione.
Uno studente che entra in azienda in virtù dei programmi di alternanza scuola-lavoro ora Pcto, promossi dal suo istituto di istruzione, da un certo punto di vista sta anche lavorando, e quindi diventa un soggetto del sistema aziendale di prevenzione previsto dalla legge. Questo significa che i potenziali pericoli a cui può essere esposto durante le attività lavorative devono essere individuati, in modo da poter determinare le azioni per la sua protezione attraverso la valutazione dei rischi e definire le misure di prevenzione e protezione che devono essere predisposte, i controlli dei rischi, secondo i criteri delle misure generali di tutela.
I percorsi di alternanza scuola-lavoro prevedono obbligatoriamente anche una formazione generale in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, così come richiesto dal Decreto legislativo 81 del 2008. Il MIUR in collaborazione con l’INAIL ha realizzato uno specifico percorso formativo in moduli con relativi test, dal titolo Studiare il lavoro - La tutela della salute e della sicurezza per gli studenti lavoratori in alternanza Scuola Lavoro. Formazione al Futuro. La Carta dei diritti e dei doveri elaborata dal MIUR e dall’INAIL, che si applica a questa fattispecie, stabilisce che gli studenti siano assegnati a Tutor individuati tra il personale di maggior esperienza delle aziende ospitanti. I Tutor, evidentemente, non possono essere scelti tra persone qualunque. Devono possedere competenze e non di meno l’attitudine a svolgere questo delicato compito.
L’obiettivo per questi studenti, in definitiva, è avere occasioni concrete per conoscere il mondo del lavoro al di là della scuola, mettersi alla prova, imparare, conoscere, sapere cosa potrebbe attenderli.
Il tema in questione dell’alternanza ha avuto di recente un rilevante riverbero mediatico anche in considerazione di incidenti gravi e purtroppo anche della perdita di giovani vite umane impegnate in percorsi formativi presso aziende, questo forse a causa dell’aggiramento, in alcuni casi, della normativa vigente in concomitanza magari di regole insufficienti che per questo andrebbero cambiate.
Una riflessione credo debba porsi circa l’elemento della “obbligatorietà” dei programmi di alternanza scuola-lavoro nelle istituzioni scolastiche superiori. Difatti il vincolo materiale delle scuole costrette ad una selezione scarsamente approfondita ed oggettiva delle migliori e più strutturare realtà aziendali dove far “ospitare” e formare al lavoro le classi studentesche, risulta essere elemento critico e rischioso.
Riteniamo che con evidenza non tutti i contesti d’impresa risultano essere adeguatamente formativi, come pure fattualmente “sicuri”. Così come fondamentali risultano essere le figure dei “Tutor” aziendali, dal punto di vista della loro specifica formazione per l’assolvimento di detto ruolo, avendo la responsabilità diretta e l’onere di accompagnare i ragazzi in questi percorsi di lavoro-studio. Opportunamente si dovrebbe invertire la definizione, i limiti e gli obiettivi di questo particolare apprendimento sul campo partendo dalle necessità di formazione degli studenti e non come spesso avviene al fine di assecondare le esigenze aziendali.
È certo che le istituzioni scolastiche in un contesto di società economica evoluta, non debbono chiudersi in se stesse, in autoreferenzialità, ma debbono aprirsi all’esterno cercando le giuste “contaminazioni” con le realtà produttive e il mondo delle imprese senza però scadere in asservimenti o strumentalità. Va quindi mantenuta la fondamentale valenza formativa, civica ed umana oltre che di conoscenze, avendo come stella polare la crescita dell’individuo e se possibile instillando anche la cultura del lavoro, contrastando per quanto possibile la precarietà, la privazione della dignità e lo sfruttamento delle persone.
Anche il possesso o meno di adeguate competenze professionali, da parte dei lavoratori, potrebbe riflettersi sul più generale livello di benessere psicologico negli ambienti di lavoro. Far comprendere il rischio nella “Organizzazione del lavoro” non è cosa facile, in quanto non ben analizzato e compreso dai più.
I rischi psicosociali e lo stress lavoro-correlato, componenti dell'organizzazione del lavoro, rappresentano una delle principali sfide con cui bisogna confrontarsi in tema di salute e della sicurezza sul lavoro alla luce delle considerevoli ripercussioni sulla salute e lo stato psicofisico delle singole persone/lavoratori, ma anche rispetto alle imprese ed economie nazionali.
I rischi lavorativi psicosociali derivano in gran parte da inadeguate modalità di progettazione, organizzazione e gestione del lavoro e da un contesto lavorativo socialmente scadente. Conseguenze psicologiche, fisiche e sociali negative, come stress, esaurimento o depressione connessi al lavoro sono all’ordine del giorno. Alcuni esempi di condizioni di lavoro che comportano rischi psicosociali sono: carichi di lavoro eccessivi, scarso coinvolgimento nei processi decisionali che riguardano i lavoratori, gestione inadeguata dei cambiamenti organizzativi, precarietà del lavoro, molestie psicologiche e sessuali, e io aggiungo inadeguatezza nel ruolo ricoperto a causa della carenza o assenza di conoscenze legate ad un deficit di aggiornamento professionale e formativo.
Un adeguato ambiente lavorativo psicosociale consente di promuovere il miglioramento delle prestazioni, lo sviluppo personale e il benessere fisico e mentale dei lavoratori, i quali soffrono di stress, invece, quando ad esempio le richieste della loro attività travalicano la medesima capacità di farvi fronte, con le conoscenze possedute e/o il livello e la qualità di formazione specifica detenuta.
Recentemente Fondimpresa – Fondo paritetico interprofessionale partecipato da Confindustria unitamente a Cgil, Cisl e Uil – avente lo scopo di promuovere la formazione professionale continua, per migliorare la competitività delle imprese e, al contempo, l’occupabilità dei lavoratori, ha realizzato un evento dal titolo certamente esplicativo: “Formazione è futuro, la sfida demografica e le leve per il lavoro”.
Il tema portante da mettere al centro delle scelte dei decisori politici nell’universo lavoro, credo possa essere tra i molti quello di assecondare un sistema economico in grado di affrontare le sfide post pandemiche e rinnovati modelli e ambiti produttivi scaturenti.
Per fare questo bisogna porsi alla ricerca ovvero creare adeguate figure professionali dotate di una formazione aderente a nuovi standard produttivi e tecnologici. In questo anche il fattore demografico, evidentemente, rappresenta un elemento di oggettiva influenza, per una popolazione lavorativa anziana come quella presente nel nostro Paese. Dobbiamo quindi affrontare coraggiosamente e con giusti investimenti la questione derimente delle “politiche attive” e della “formazione” con un occhio attento alle categorie di disoccupati, inoccupati, ma io aggiungo anche occupati, in special modo quelli con età anagrafica più elevata, finanziando la realizzazione di appositi piani formativi orientati alla acquisizione di abilità e competenze che agevolino la crescita professionale, l’occupabilità e non meno la rioccupabilità di coloro che vengono espulsi, o sono in procinto di esserlo, da segmenti/settori produttivi, non di rado in età avanzata.
Il lavoro, anche nel sistema alternanza scolastica, risulta essere particolarmente fragile con inadeguatezze che si sono appalesate con le morti e gli infortuni accaduti a giovani vite in questi primi mesi del 2022. Esistono delle carenze nel sistema scolastico odierno soprattutto rispetto alle incapacità di rispondere alle necessità formative della società moderna. In questo anche i percorsi di alternanza scuola-lavoro e relativi tirocini denotano condizioni inammissibili: sul versante della scadente e ridotta formazione, della scarsa sicurezza attuata, degli inefficaci monitoraggi dei progetti svolti, ecc.
I cosiddetti percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (Pcto) sembrerebbero pressoché privi di tutele e carenti di diritti, giusto sarebbe per questo mandare i giovani studenti a formarsi in imprese e luoghi di lavoro dove vi siano standard operativi maggiormente elevati. È giusto garantire, quindi, stesse condizioni di sicurezza valevoli indistintamente per tutto il sistema della formazione. Pertanto, medesima dignità per tutti i percorsi formativi. Ragionevole dovrebbe anche essere l’effettuazione di una formazione preventiva per questi studenti in materia di sicurezza sul lavoro, prima quindi di accedere nelle aziende. Esigere anche una sorta di “certificazione” o bollino di qualità, delle imprese ospitanti i percorsi di alternanza.
Strutturare un dialogo permanente tra le coesistenti figure dei “Tutor” aziendali e scolastici per il costante monitoraggio e verifica delle rispettive attività da svolgere, in raccordo tra scuole e aziende, investendo adeguate e specifiche risorse.
Ricollegandoci ai compiti tutoriali si ritiene che un importante suggerimento sia rappresentato, a parere di chi scrive, sul poter contare nell’apporto e il prestigio di un’utile attività che potrebbe ben svolgere la Federazione Maestri del Lavoro d'Italia e dai singoli Maestri implementando, al contempo, la diffusione del miglior spirito associativo. Appunto con la legge 143/92 che regolamenta l’attribuzione dell’onorificenza della “Stella al Merito del Lavoro”, già all’art.1 si sancisce, fra l’altro, che l’onorificenza può essere concessa a lavoratrici e a lavoratori italiani dipendenti da imprese pubbliche o private che si siano particolarmente distinti per singolari meriti di perizia e di laboriosità, corroborata da un’irreprensibile condotta morale.
Lo Statuto della Federazione prevede tra i suoi scopi qualificanti “… quello di unire solidalmente le Maestre e i Maestri nella vita associativa e stimolarli ad offrire le proprie competenze a favore della collettività di appartenenza per costituire un sicuro punto di riferimento nel relativo tessuto territoriale”.
E ancora: “Nelle attività di volontariato della Federazione, in particolare in quella prevista dall’art.3 lettera a) dello Statuto che riguarda “la cura e la crescita tecnico – professionale dei giovani per facilitarli nell’inserimento nel mondo del lavoro”.
Un esempio virtuoso quindi dell’attività che potrebbe essere curata della Federazione Maestri del Lavoro, è rappresentato da quello che si sta facendo in Toscana, e precisamente a Prato, dove in attuazione del protocollo d'intesa tra MIUR e Federazione, il Consolato Pratese ha effettuato un ciclo di incontri con gli studenti delle scuole superiori della provincia per portare una diretta testimonianza formativa agli studenti dal 3° al 5° anno, con valenza certificata per l'Alternanza Scuola-Lavoro o come è denominata ora, Pcto. Il programma prevede sia delle presentazioni che delle esercitazioni toccando argomenti quali: strutture e metodi operativi delle aziende, marketing, gestione del cliente, gestione di un progetto, lavoro di gruppo, comunicazione, certificazione.
Si sono inoltre sviluppati argomenti relativi alle professionalità ed ai valori insiti nelle aziende per dare una visione complessiva delle principali tematiche del lavoro, anche ricorrendo ad esempi pratici illustrati agli studenti utili ad un loro maggiore coinvolgimento.
Segnatamente, gli obiettivi degli incontri sono stati:
[*] Dirigente dell’INL, Direttore ITL Terni-Rieti - Professore a contratto c/o Università Tor Vergata, titolare della cattedra di “Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro” nonché della cattedra di “Diritto del Lavoro”. Il presente contributo è frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non impegna l’Amministrazione di appartenenza.
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