Cosa e come definisce il neologismo “Lavoro povero” la preziosa instillatrice del nostro sapere, ovvero la Treccani? Così: “Occupazione remunerata con un salario talmente modesto che non permette di superare la soglia di povertà”. Per gli amanti esterofili il termine maggiormente usato, internazionalmente e globalmente, è “work-poor” o anche “working poor”.
In una vecchia intervista dell’allora Segretario Generale della CGIL Sergio Cofferati rilasciata a Repubblica l’8 novembre del 2000 (oltre venti anni fa, quindi in tempi non sospetti per l’attuale acceso dibattito socio-economico) lo stesso affermava: “… occorre rompere il circolo vizioso della povertà, proprio nel momento in cui si affaccia l’inquietante fenomeno del “lavoro povero”, cioè quelle forme di attività remunerate che non consentono a un individuo, soprattutto donne, di uscire dalla soglia di povertà…”.
Certamente, il cosiddetto lavoro povero può definirsi una prestazione lavorativa per così dire “fragile”, lo stesso osservandolo dal punto di vista puramente economico, essenzialmente, non crea valore aggiunto. Alla parola povertà si possono quindi collegare giustamente anche i termini di precarietà ed insicurezza.
Lavoratori precari, intermittenti, a termine, co.co.pro., addetti nella gig economy, lavoratori a chiamata, stagionali, occasionali, a tempo parziale (part time involontario), riders, autonomi a partita IVA (indotta e/o mascherata), tutti soggetti posizionati alle soglie di un reddito insufficiente pur se rientranti statisticamente nella categoria degli “occupati”.
Aggiungiamo anche il tema non banale tra le conseguenze di una precarietà “spinta” (e quindi una certa e rilevante inflazione delle formule di flessibilità), che fa emergere un effetto diretto sulla sicurezza e sulla salute dei lavoratori, partendo evidentemente dalla mancanza o ridotta formazione che impatta maggiormente sui contratti di lavoro brevi e brevissimi.
A questo è pensabile innestare un’altra problematica, quella inerente il necessario superamento o meglio contrasto della cosiddetta pratica dumping contrattuale, evidentemente molto diffusa e sempre più invasiva, sostanziata da quelli che vengono definiti "contratti pirata". Senza tralasciare, però, anche la parallela questione (ugualmente in tema di dumping) che riguarda la non corretta applicazione di contratti “coerenti” con la categoria professionale di diretto riferimento, (definibili con i codici Ateco) o meglio di altro ambito lavorativo e quindi da considerare “impropri”.
Recentemente, in uno dei suoi ultimi interventi pubblici, il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, ha evidenziato il rischio concreto della rincorsa tra prezzi di beni/servizi e salari. Si renderebbe quindi necessario agire a livello centrale per non abbandonare a loro stessi i soggetti fragili della popolazione quali: lavoratori dipendenti a basso reddito, pensionati, lavoratori autonomi a più basso reddito, disoccupati/inoccupati. Sarebbe necessario mettere in atto delle iniziative che vedano protagonisti governo e parti sociali, pensando di incidere strutturalmente e maggiormente sulla distribuzione più equa della ricchezza.
Occorre, pertanto, compiere alcune scelte che si muovano contemporaneamente su piani distinti: in primis si dovrà affrontare il tema del “salario minimo”, ovvero garantire ai lavoratori una paga dignitosa, reso più cogente dalla recente decisione europea di emanare una specifica Direttiva su questa delicata materia. Sappiamo che in Europa su 27 Paesi già 21 hanno adottato il salario minimo, tra i nostri maggiori competitor lo hanno accolto, lo annoveriamo, anche Germania e Francia.
Ciò anche per trovare possibilmente delle risposte a uno dei più rilevanti problemi, tra la molteplicità, che attanaglia il nostro mercato del lavoro, ci riferiamo al comunemente detto lavoro povero, che non consente a chi pure una occupazione la dispone, di sopravvivere dignitosamente, riferendosi anche al rispetto dell’articolo 36 della Costituzione, marginalizzando quindi le persone e producendo disagio sociale.
Lo scorso 25 marzo 2022 si è tenuto su questo tema, presso la Corte di Cassazione, un interessante convegno che ha riguardato specificamente la problematica del lavoro povero e sue possibili soluzioni a partire dalla previsione di veicoli legislativi in grado di fissare soglie minime di retribuzioni valevoli per la variegata platea di lavoratori. Lo scopo sarebbe quindi quello di trovare meccanismi di tutela dei livelli minimi del reddito da lavoro dipendente.
Il tema in questione risulta particolarmente stringente anche alla luce del raffronto, come detto, con gli altri Paesi europei. Difatti, da un esame dei recenti dati OCSE 2021 emerge che l’Italia risulta essere, negli ultimi decenni, l’unico paese che ha visto “decrementare” anziché aumentare il salario medio dei lavoratori. Dal 1990 al 2020 si è registrato, allarmantemente, un calo del salario medio annuale del –2,9%. Specularmente per i nostri concorrenti diretti europei ossia Germania e Francia hanno avuto rispettivamente, nello stesso lasso di tempo, un aumento del +33,7% e +31,1%.
Anche la problematica rappresentata dal numero esorbitante di CCNL, più di 900, depositati presso il CNEL, interferisce notevolmente rispetto una non agevole individuazione dei contratti collettivi di riferimento, a fronte di una sempre maggiore presenza dei cosiddetti contratti pirata, che inevitabilmente sostengono le imprese (quelle scarsamente etiche) nel mantenere i livelli retributivi contrattuali scandalosamente ai livelli più bassi delle scale stipendiali. Il cosiddetto “dumping salariale” risulta quindi essere l’elemento distorsivo primario rispetto a livelli adeguati di salari e retribuzioni. Da qui la necessità di veder affrontare il tema normativo del salario minimo accompagnandolo, al contempo, con le salvaguardie offerte e garantite dalle fonti privilegiate contrattuali collettive.
Salari “equi” stabiliti dalla contrattazione collettiva dovrebbero restare, a parere di chi scrive, elementi irrinunciabili. Ma questo ritengo non confligga, in astratto, con le ragioni di un possibile rafforzamento scaturente dalla previsione di un minimo legale orario stabilito da un veicolo normativo.
Su questo si è acceso un intenso dibattito circa i percorsi da poter seguire in tale ambito. Da una parte ci sono i fautori della modalità normativa, quale scelta positiva, ossia la possibilità di adottare un criterio di salario minimo legale, “definito per legge”, che al momento in Italia evidentemente non esiste. Con la consapevolezza, però, che questo strumento può affrontare solo in parte e con grandi difficoltà il tema dei bassi salari che caratterizza la situazione nel nostro Paese, ma al contempo avrebbe il vantaggio di intervenire incisivamente al fine di superare la deleteria pratica, ai noi, largamente diffusa, del cosiddetto “dumping contrattuale” e salariale, vale a dire dei già citati "contratti pirata". Dall’altra parte, soprattutto a parere delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, la via maestra da dover seguire si potrebbe sostanziare più semplicemente ricorrendo allo strumento consolidato della contrattazione collettiva, che avrebbe il merito di lasciare alle rispettive parti (datoriali e sindacali) le prerogative negoziali quali unici e irrinunciabili strumenti per affrontare il tema dell’elevazione delle basse retribuzioni dei lavoratori (almeno di una parte di essi impiegati in settori lavorativi di ridotta attrazione).
In mezzo ci sarebbe anche una proposta (recentemente sostenuta dal Ministro del lavoro in carica) di assumere, per legge, le tabelle salariali dei minimi contrattuali, definiti dai singoli contratti di categoria. Si tratterebbe quindi di individuare i cosiddetti “contratti leader” o meglio ancora, i contratti di maggior favore esistenti all'interno di ciascun settore produttivo. Addivenendo quindi ad un salario minimo, ad esempio per i lavoratori dei servizi, della logistica, dell’agricoltura, della ristorazione, del tessile, per i chimici, per i lavoratori metalmeccanici e via dicendo, che tenga conto delle variegate situazioni contrattuali e delle diverse dinamiche produttive e di settore.
Se esaminiamo la situazione attualmente esistente possiamo affermare che, escludendo i “contratti pirata” stipulati da organizzazioni sindacali scarsamente rappresentative o peggio inconsistenti o addirittura inesistenti, la contrattazione non in dumping oscillerebbe nella gran parte dei contratti collettivi, con minimi contrattuali, proprio tra i 7 e 9 euro orari.
È bene rappresentare che la direttiva europea, sopra menzionata, si propone innanzitutto di estendere e valorizzare la contrattazione. È un fatto acclarato, infatti, che l'Italia ha un tasso di copertura dei livelli salariali, sanciti per mezzo della contrattazione collettiva, superiore all'80% sulla massa dei lavoratori attivi.
Se si vuole quindi che salari e stipendi siano “adeguati” al nuovo contesto europeo occorre intervenire, da una parte, non solo sul salario minimo, ma anche agendo con vigore per promuovere e stimolare il rinnovo dei contratti alla scadenza naturale ovvero già scaduti. Dall’altra parte, si renderebbe anche necessario rivedere la logica dell'indennità di vacanza contrattuale che, anziché diventare uno stimolo al rinnovo dei contratti, nella maggior parte dei casi si è rivelata, al contrario, una spinta al suo prolungamento, in assenza di azioni per i rinnovi contrattuali.
Un altro elemento strategico relativo al cosiddetto “lavoro povero” è sicuramente quello attinente alla necessità di diminuire la distanza tra costo del lavoro e salario netto percepito dai lavoratori, quello che viene quindi materialmente intascato dagli stessi. Solo a mero esempio menzioniamo il fatto che su questo aspetto siamo secondi in Europa soltanto dopo il Belgio per quanto riguarda proprio il peso complessivo delle tasse sul lavoro. Si tratterebbe quindi come politica economica da doversi intraprendere una iniziativa per compiere un passo avanti in una direzione senza equivoci: vale a dire l’attuazione di uno sconto fiscale (riducendo il cuneo fiscale) che sia però sostanzialmente a vantaggio del lavoratore.
In un recente volume pubblicato da Left.it dal titolo “Il minimo indispensabile” si evincono dati molto preoccupanti e direi allarmanti per il nostro Paese. Oltre un lavoratore italiano su dieci versa in condizioni di povertà. Almeno un quarto degli occupati percepisce un salario basso o molto basso. Ciò è destinato a peggiorare anche a causa del recente aumento, galoppante, dell'inflazione e non di meno della crisi economica, deflagrata dopo più di due anni di pandemia mondiale e la recente, insensata, guerra in Ucraina.
Sempre più spesso al termine “lavoro povero”, lo ripetiamo, viene affiancato efficacemente e penso giustamente il tema cogente ed attuale delle “retribuzioni minime”.
Da qui l’affannosa rincorsa, appunto, al conseguimento di un salario minimo legale. Una misura probabilmente non più procrastinabile, al fine anche di garantire “dignità” ad ogni lavoratrice e lavoratore, giovane e meno giovane; agendo anche per contrastare il “vulnus” di lavori e impieghi (quand’anche oggetto di regolari assunzioni) che vengono retribuiti però con cifre indegne di 3,4,5 euro orari. Andrebbe fatta, pertanto, una sorta di radiografia ad un mondo del lavoro per così dire “malato” e che dovrebbe poter essere trasformato, in nome dei diritti, della giustizia sociale, come pure del benessere e della qualità della vita di ogni cittadino, lavoratore dipendente, autonomo, pensionato, e aggiungiamo inoccupato e sottoccupato.
In definitiva è possibile affermare che in Italia, in questa fase di “ciclo economico” conseguente, tra le altre cose, ad un periodo pandemico che si sta prolungando oltre questo ultimo biennio, abbinato all’altro evento, di portata mondiale, quale quello della guerra esplosa in Ucraina dallo scorso febbraio di questo anno, l’incidenza della povertà lavorativa si è ulteriormente aggravata.
Il fenomeno con tutta evidenza colpisce maggiormente i nuclei monoreddito, ma anche chi gestisce un’attività autonoma ma in particolar modo coloro che lavorano involontariamente part time e tra questi soprattutto le donne e i giovani, senza dimenticare però le migliaia di lavoratori in cassa integrazione.
In definitiva una fotografia del nostro Paese che inquadra le moderne forme di sfruttamento lavorativo, in un mercato del lavoro definibile notevolmente iniquo, anche rapportato a profondi divari territoriali come pure di genere e generazionali, tutte orientate a sostanziare una povertà strutturale.
Tragicamente abbiamo assistito nel nostro Paese a fenomeni sempre più pervasivi che ci hanno condotto, in questo ultimo decennio, alla situazione in essere di vulnerabilità lavorative. Precarietà del lavoro, accompagnata da discontinuità e saltuarietà, come pure salari bassi o bassissimi, crescenti e manifeste disuguaglianze, lavoro nero e schiavo, sfruttamento, insicurezza e mancati rispetti contrattuali, tutti elementi questi al contempo gravemente lesivi della dignità umana prima e non di meno della dignità stessa del lavoro.
Fenomeno del lavoro povero particolarmente legato a processi verosimilmente esplosi nelle economie occidentali, in particolar modo, affiancato da processi di “deregulation” di buona parte dei mercati di lavoro presenti, e al contempo dal moltiplicarsi delle crescenti formule “flessibili” dei diversi rapporti lavorativi.
Da qui una parte importante di lavoratori, principalmente giovani e donne, si è vista relegata, per così dire, all’interno di un fenomeno connotato da precarietà persistente che può durare anche svariati anni, prima di veder sfociare un’occupazione stabile, cagionando asimmetrie di carriere che impattano gravemente e non di meno sui singoli percorsi e accantonamenti previdenziali.
Non possiamo neanche sottacere l’ulteriore elemento peggiorativo rappresentato dalla spirale inflazionistica che sta mordendo le economie occidentali tutte, in quest’ultimo periodo. Ciò produce soprattutto in Italia l’ulteriore impoverimento e decadimento del lavoro come bene, ampliando ulteriormente i divari sociali esistenti.
La crisi ha però messo in risalto come l’incremento del lavoro povero non sia semplicemente collegato a fattori ciclici, ma anche a fenomeni di natura strutturale connessi alla globalizzazione dei mercati e alla frequente delocalizzazione dei processi produttivi e manifatturieri, alla evidente diffusione di nuove tecnologie digitali, ma anche alla crescente terziarizzazione dei sistemi economici senza dimenticare, il progressivo sgretolamento e depotenziamento dell’azione del sindacato nell’ambito della contrattazione collettiva. I cambiamenti del mercato del lavoro hanno quindi di fatto accelerato queste dinamiche concentrando buona parte della crescita occupazionale (sancita anche da recenti statistiche Istat) ricorrendo però al cosiddetto lavoro povero non meno che precario.
Il salario minimo, come anche sottolineato, di recente, dal centro studi della Cgia di Mestre, si può incrementare anche contrastando efficacemente il cosiddetto "nero'. Non è casuale, infatti, che una buona parte dei settori maggiormente interessati dall'economia sommersa sia anche quella dove le retribuzioni previste dai CCNL, almeno nei livelli di inquadramento più bassi, siano oggettivamente al di sotto della soglia di 9 euro orari.
In particolare, ad esempio, in agricoltura, nella logistica e nei servizi alla persona, la sussistenza del "nero" contribuisce a mantenere basse le retribuzioni previste dai contratti sottoscritti dalle parti sociali dei medesimi ambiti.
Le OO.SS. sostengono che il rischio concreto di un salario minimo legale è quello di schiacciare verso il basso le retribuzioni di milioni di lavoratori, condizionando le aziende nel rinunciare alle tutele contrattuali privilegiando di contro le “normate” soglie retributive.
Bisogna altresì fare maggiore chiarezza, sull’argomento salari e retribuzioni, nella corretta identificazione del TEM (trattamento economico minimo) rispetto al TEC (trattamento economico complessivo – mensilità aggiuntive, welfare aziendale, previdenza integrativa, quindi componenti della contrattazione di II° livello).
Il salario minimo legale sarebbe lo strumento più appropriato da impiegare per i Paesi dove la contrattazione collettiva è poco diffusa, dove invece gli accordi contrattuali sono la norma l’attenzione sui minimi salariali potrebbe essere ben rafforzata.
Da ultimo abbiamo seguito anche l’ipotesi dell’attuale ministro del Lavoro Orlando, di estendere i trattamenti retributivi dei contratti maggiormente rappresentativi, questa sembrerebbe una soluzione mediana sufficientemente ragionevole.
Sappiamo che in ogni Stato Nazionale europeo vige una propria regola salariale profondamente diversa l'una dall’altra di difficile comparazione. Ciò evidentemente porta ad avere considerevoli differenze salariali tra i 27 Paesi europei, con riflessi anche sulle ricadute produttive e concorrenziali.
Nel Diritto del lavoro italiano e relative leggi in materia, viene sancito che i C.C.N.L. sono sottoscritti unitamente dalle Organizzazioni Sindacali e dalle Associazioni rappresentative datoriali che risultano essere comparativamente più rappresentative in Italia. Di più, a seguito dell'accordo interconfederale del 28 giugno 2011, se vi è l’approvazione almeno a maggioranza delle R.S.U. (Rappresentanti Sindacali Unitarie) vengono estese, erga omnes, ai lavoratori aderenti a quel contratto.
Nel nostro Paese i contratti collettivi nazionali di lavoro, regolarmente depositati presso il C.N.E.L., come già accennato, sono circa un migliaio, 985 per l’esattezza. Di questi, soltanto 162 sono firmati da C.G.I.L. C.I.S.L. e U.I.L. unitamente alle Associazioni datoriali più rappresentative che garantiscono livelli salariali soddisfacenti a livello di minimi riconosciuti, comunque maggiori di quanto si sta ipotizzando quale livello di salario minimo ovvero 8-9 euro orari.
Viceversa, la quasi totalità dei restanti contratti collettivi, di cui una parte consistente comunemente definiti "contratti pirata" o “corsari”, sono sottoscritti in larga misura da sigle sindacali di comodo, ma anche da singoli datori di lavoro o da studi professionali, riportandoci quindi al tema non secondario dalla piena e verificabile legittimità rappresentativa. Contratti che vengono ad applicarsi solo ad alcune decine o centinaia di lavoratori, magari dipendenti di una sola azienda.
Il citato accordo interconfederale del giugno 2011, rammentiamo, contiene anche lo strumento di misurazione che fissa “criteri oggettivi” per la definizione della rappresentatività delle Organizzazioni Sindacali, utile quindi per individuare le organizzazioni legittimate a negoziare e stipulare contratti collettivi nazionali di categoria. Bisogna però renderlo efficace al fine di contrastare così tutti i contratti pirata.
Serve però anche la possibilità di misurare di rappresentatività delle Associazioni datoriali e, principalmente, rendere di fatto operativo tale accordo in considerazione del fatto che dopo 11 anni dalla sigla, rimane ancora in una sorta di fase sperimentale e limitatamente ai contratti sottoscritti dalla Confindustria.
Lo scorso 7 giugno 2022, lo ripetiamo, il Parlamento europeo unitamente agli Stati membri della UE hanno conseguito un accordo sulla emanazione di una specifica direttiva in materia di salari minimi adeguati da corrispondere ai lavoratori tutti della UE. Successivamente il 12 luglio l'accordo raggiunto è stato approvato dal medesimo Parlamento Europeo. Il testo che ne è scaturito punta a creare il presupposto per fissare salari minimi adeguati ed equi e al contempo a consolidare il ruolo della contrattazione collettiva. Successivamente si arriverà a sancire con il voto finale in seduta plenaria, previsto per il prossimo settembre, quanto concordato nei menzionati passaggi preliminari.
Ciò detto la direttiva in argomento non sancisce alcun obbligo per l'Italia, come per gli altri Paesi europei, che non hanno norme sui salari minimi, evidentemente, detti Paesi, possono decidere di optare ossia mantenere il solo veicolo della contrattazione collettiva.
In una recente indagine condotta dall'Aidp (associazione italiana per la direzione del personale) sul tema del salario minimo, è emerso che tale strumento è apprezzato dai direttori del personale. Lo studio ha riguardato circa 600 manager HR, che in larga maggioranza (70%) appunto si è dimostrato favorevole alla sua introduzione – pur considerando la necessità di legarlo al costo della vita su base regionale. Altro dato interessante emerso, che ha riguardato l’86% del campione, riguarda la convinzione che con l’introduzione del salario minimo le relazioni sindacali non verranno né indebolite, né inasprite. E altresì, il 66% dei manager intervistati ritiene che tale misura non allontanerà le imprese dall’applicazione del contratto nazionale.
Ad ogni modo è un fatto che esiste una specificità italiana costellata di una lunga tradizione di relazioni sindacali e relativa contrattazione collettiva che viene ad applicarsi in gran parte del nostro mercato del lavoro, conseguentemente, la questione salariale viene affrontata e regolamentata opportunamente con il ricorso alla contrattazione collettiva nazionale massivamente diffusa.
Probabilmente, però, risulta opportuno anche farsi carico garantendo la parte minoritaria del nostro sistema che non è supportato da contratti nazionali e quindi da una adeguata tutela salariale.
In tal senso, quindi, l'inserimento di una misura che vada in questa direzione, come il salario minimo da introdurre per via legislativa, potrebbe avere una sua ragion d'essere. La sua introduzione, tuttavia, non può che avvenire in modo equilibrato e coordinato all'interno di un sistema, quale il nostro, in cui il ruolo e la funzione regolatrice delle parti sociali sono largamente estesi e aggiungerei modulati e stratificati nel tempo.
[*] Dirigente dell’INL, Direttore Ispettorato territoriale del lavoro di Prato e Pistoia - Professore a contratto c/o Università Tor Vergata, titolare della cattedra di “Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro” nonché della cattedra di “Diritto del Lavoro”. Il presente contributo è frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non impegna l’Amministrazione di appartenenza.
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