Con una cadenza che è ormai sventuratamente costante, i mass-media e i social ci riportano notizie di sfruttamento sul lavoro, raccontandoci storie che somigliano sempre più spesso a racconti di schiavitù piuttosto che “mere” cronache di utilizzo illecito ed irregolare dei lavoratori.
Queste storie sono talmente frequenti che appare improprio continuare a definirlo come il “fenomeno” del caporalato, in quanto non è più possibile statisticarle e classificarle come circostanze limitate ed isolate in senso geografico, temporale o di settore.
A questo punto, sarebbe più corretto iniziare a parlare della “questione” sfruttamento, stante la continuità con cui questi eventi rimbalzano tra le notizie da prima pagina e la totale “trasversalità geografica” che le caratterizza. Solo negli ultimi due mesi, infatti, abbiamo appreso di situazioni di profondo sfruttamento che hanno riguardato la Toscana, il Veneto, la Calabria e la Campania ma, in precedenza, quasi nessuna regione italiana ha potuto vantare il merito di essere estranea a questi fatti.
Altro rilievo drammatico è che le situazioni di sfruttamento riscontrate non riguardano solo il settore agricolo, a cui l’immaginario collettivo fa ancora facile riferimento, ma piuttosto ne hanno visto un incremento esponenziale anche nell’edilizia, nel mondo della manifattura, nei trasporti, nei servizi a domicilio e nella logistica, tant’è che iniziano ad essere utilizzate, anche dalle specifiche Commissioni d’inchiesta, definizioni quali “caporalato urbano”, “bracciante metropolitano” e “caporalato digitale”.
Eppure, una norma di legge, capillare e ben strutturata, esiste, anche se, per ragioni a volte inspiegabili, questa norma sembra non avere la forza di trovare un’omogenea applicazione su tutto il territorio nazionale, tale da iniziare a sradicare la “questione” a partire dalle sue fondamenta.
La norma è l’articolo 603 del codice penale, opportunamente modificato dalla Legge n.199 del 2016, che definisce puntualmente le caratteristiche essenziali del “caporalato”, con le sue principali peculiarità criminose:
Ambedue le fattispecie posseggono un preciso filo conduttore: l’approfittamento di uno stato di necessità dal quale deriva lo sfruttamento lavorativo.
In entrambi i casi, comunque, appare chiaro che il Legislatore ha voluto dare una forte centralità alla condizione di debolezza della vittima, la quale è evidentemente costretta a “sottomettersi”, in forza di un condizionamento psicologico che riguarda, non tanto il suo futuro, ma piuttosto il “presente”, momento nel quale il lavoratore sfruttato ha la necessità di reperire beni primari per sé ed eventualmente per i propri cari.
È proprio su questi elementi che l’attuale norma si differenzia dalla precedente, non necessitando più del dover dimostrare episodi di maltrattamento o di violenza fisica che, oggi, per l’appunto, non sono più elementi costituenti il reato (e dunque, incriminanti) ma, piuttosto, vengono considerate fattispecie aggravanti dello stesso.
Il “caporale” o lo sfruttatore non è più (solo) colui che bastona fisicamente il lavoratore per sfruttarlo sin oltre le sue possibilità fisiche ma è un profittatore di primarie necessità, capace persino di “cavalcare” esigenze di mercato, come accade nel settore della logistica o di “manipolare” a proprio vantaggio priorità sanitarie, come accade nel settore dei servizi alle persone.
Oggi, chi sfrutta è anche divenuto “sofisticato” e utilizza, sempre più spesso, sistemi di controllo, anche a distanza, con i quali riesce a sapere in tempo reale ciò che i lavoratori fanno, quanto producono e quanto rapidamente lo facciano.
Questa “evoluzione” delle modalità di sfruttamento sul lavoro ha spinto il Legislatore a dover adattare anche le metodologie d’indagine, puntando innanzitutto su nuovi indici caratteristici che ci vengono ben spiegati anche dalla Circolare n. 5/2019 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro. Gli ispettori e gli inquirenti, infatti, devono concentrare la loro capacità investigativa e la loro attenzione su specifici elementi quali:
L’ultimo aspetto, fortemente legato alle norme prevenzionistiche, viene talvolta mal valutato o subordinato alla presenza di qualche altro indicatore e, di conseguenza, si può commettere l’errore di concentrarsi magari sulla semplice presenza dei dispositivi di protezione individuale forniti dal datore di lavoro, trascurando, così, tutto ciò che è la reale tutela della salute e sicurezza sul lavoro che diviene emergenza quando si parla di maestranze sfruttate.
Andrebbe verificata, in primis, l’esistenza di una vera valutazione del rischio e, di seguito, la concreta applicazione di procedure di mitigazione dello stesso. Eppure, al contrario, abbiamo spesso notizia di manovalanza agricola o di operai addetti ai cantieri stradali costretti a lavorare sotto i 40 gradi di luglio, abbiamo notizia di rider che, per paghe misere e nella piccola speranza di una mancia, pedalano da un punto all’altro delle nostre metropoli sottoposti a qualunque genere di intemperie, sappiamo di corrieri che rischiano la propria vita (e quella degli altri) sfrecciando sulle strade delle nostre province per consegnare un pacco nei tempi che gli sono stati ordinati.
Il Testo Unico per la Sicurezza richiede al datore di lavoro di guardare al “benessere” fisico e psicologico del lavoratore, di “dimensionare” correttamente gli ambienti di lavoro (o di adattare le modalità di lavoro all’ambiente), arrivando persino a richiedere una valutazione rispetto al c.d. “stress lavoro-correlato”, tutte istanze queste che ovviamente non saranno mai rintracciabili in una situazione di sfruttamento e che, proprio per questo, rappresentano sensibili elementi indiziari. Dinnanzi ad una situazione di sfruttamento, possiamo dire di essere al “ground zero” della sicurezza.
Andrebbe verificata anche la corretta sorveglianza sanitaria, unico modo per evitare che una qualche patologia preesistente possa divenire una concausa, diretta o indiretta, della morte del lavoratore, anche alla luce del fatto che, secondo i dati Istat, l’età media del lavoratore in Italia si attesta sui 47 anni e che un lavoratore su 5 ha più di 55 anni.
Andrebbe, ancora, riformato l’apparato della formazione, istituendo un sistema che fornisca almeno alcune certezze di base: le qualità, anche etiche, dell’ente erogatore, le capacità didattiche e comunicative del formatore ed il reale grado di apprendimento e di comprensione del lavoratore discente, differenziando, se occorre, i percorsi formativi (così come il Testo Unico prevederebbe già) sulla base delle diversità di genere, dell’età, della provenienza da altri Paesi, del grado di istruzione o delle difficoltà di apprendimento della lingua.
Andrebbe, in ultimo, potenziato e calibrato il sistema dei controlli, con un proporzionato aumento organico degli organi di vigilanza, un adeguamento delle risorse tecniche ed economiche e, infine, una riduzione delle “distanze” con i soggetti inquirenti e giudicanti. In questa revisione del sistema dei controlli, occorrerebbe anche attuare modifiche normative che riguardino alcuni settori particolari, quali, solo per portare due esempi, quello delle cave e miniere, dove il rischio di infortunio è evidente, e il comparto della pesca nel quale si annida una percentuale elevatissima di sfruttamento clandestino.
La velocità con cui il caporalato “moderno” si evolve e penetra ogni settore produttivo non può e non deve lasciare spazi a diatribe o cambi di rotta: lo sfruttamento sul lavoro non è un problema solo perché impoverisce economicamente e moralmente il lavoratore, lo sfruttamento è un tentativo di strage a bassa intensità.
“Per rendere un uomo felice, riempi le sue mani di lavoro, il suo cuore di affetto, la sua mente con uno scopo, la sua memoria con conoscenze utili, il suo futuro di speranza e il suo stomaco di cibo”.
(Frederick E. Crane – giudice della Corte d’Appello di New York)
[*] Ispettore tecnico in servizio presso l'Ispettorato Territoriale del Lavoro di Siena. Le considerazioni contenute nel presente intervento sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza
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