Le azioni di sfruttamento nei suoi confronti
La ricerca delle premesse smarrite mi ha condotto, in queste ultime settimane, a varcare la soglia di un “luogo” che, per la delicatezza e l’intimità di ciò che contiene, non dovrebbe trovare spazio nel curriculum di un candidato e men che meno nei colloqui di lavoro, in fase preassuntiva e a contratto avviato. Mi riferisco alla cosiddetta condizione o stato di bisogno del lavoratore dipendente.
Sono state due recenti sentenze della Cassazione ad attirare la mia attenzione sull’argomento, invitandomi ad osservarlo da angolature diverse:
Le due sentenze non si riferiscono a casi conclamati di caporalato in agricoltura, ad esempio, ma alla possibilità di integrazione del reato di caporalato dentro l’ampio mondo del lavoro dipendente.
Al netto delle situazioni in cui il disagio è evidente (mi riferisco al vissuto di chi approda sulle nostre coste e deve iniziare un percorso di integrazione, di chi per ragioni diverse ha perso tutto ed è assistito da associazioni caritative, anche nella ricerca di lavoro), in che modo lo stato di bisogno entra in scena nel rapporto tra datore di lavoro e dipendente, condizionandolo?
È il datore di lavoro che reperisce informazioni sull’interessato, per valutare le eventuali possibilità di sfruttamento, o è costui che palesa la sua difficoltà, che chiede per bisogno quanto deve essergli riconosciuto per diritto?
Le aziende sanno di operare in uno scenario di grande crisi. Ogni giorno siamo bombardati da notizie preoccupanti: il rincaro energetico, la recessione, lo spauracchio della cassa integrazione, la perdita del posto di lavoro, l’aumento della povertà. Cresce la paura del domani, da parte di chi ha già un contratto e da parte di chi sta cercando occupazione. Il domani porta in grembo l’incertezza, ma siamo chiamati a fare delle scelte nell’imminenza. Orientarsi non è facile e la tentazione di sacrificare i propri talenti, di svendere i propri diritti, per riuscire a sopravvivere, comunque, in un oceano di complessità, è forte.
Sbaglieremmo, però, a pensare che gli imprenditori assistono a tutto questo con cinismo. Anche gli imprenditori devono agire dentro questo tempo e non possono essere lasciati da soli. Se rinunciassero a fare impresa, ad investire, e dunque, ad assumere?
Il momento è davvero delicato e forse una delle premesse smarrite da recuperare, necessaria per affrontare con dignità le sfide che ci attendono e le tentazioni che ci assillano, è che il lavoro è anzitutto una attività transitiva. Con il nostro lavoro trasformiamo la realtà che abbiamo intorno e trasformiamo noi stessi. Se impieghiamo bene le nostre forze, per un fine di bene comune, possiamo trasformare in meglio la realtà che abbiamo attorno e quell’azione cambierà in meglio noi stessi.
Alla luce di questa consapevolezza comprendiamo ancora di più quanto lo stato di bisogno non possa in alcun modo intaccare tale attività.
Semmai è possibile il contrario, anzi è auspicabile che il lavoro lo agganci e lo risolva. Ognuno di noi, dunque, per quanto e come può, non rinunci alla sua parte di coraggio e di volontà di cambiamento. Non abdichi o svenda la sua titolarità di cittadino, per sé stesso e per il lavoro.
[*] Assistente di Direzione (Grand Hotel President - Siderno - RC). Autrice del blog The Job Enquirer - Occhio vivo sul mondo del lavoro. Dal 2015 al 2019 Direttore del Corso di formazione all'impegno sociopolitico e alla cura del creato «Laudato si'» della diocesi di Locri-Gerace.
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