L’utilizzo di carattere emergenziale del remote working durante la pandemia da Covid-19 ha dato avvio, a livello internazionale, ad un esperimento organizzativo e sociale complesso. In tutta l’Europa il remote working ha assunto, di fatto, le sembianze dell’home working [1], divenendo in breve tempo la modalità di lavoro consueta per molti occupati che, prima del 2020, avevano limitate o nessuna esperienza al riguardo. Nel 2019 solo il 5,2% degli occupati in Europa (Eu-27) lavorava abitualmente da casa e il panorama era piuttosto eterogeneo, con i Paesi Bassi che raggiungevano il 15%, mentre fra i Paesi dell’est Europa e dell’area mediterranea si registravano valori decisamente inferiori alla media europea.
Nel corso del 2021, dopo un primo anno di sperimentazione, in Europa si è continuato ad impiegare il remote working seppur con caratteristiche[2] (teleworking, home working, smart working) ed intensità differenti. Oggi si delineano diversi scenari a livello europeo: territori che prima dell’emergenza sanitaria mostravano valori superiori alla media UE hanno intrapreso un trend di crescita nel 2020 e proseguito nel 2021 (Irlanda, Lussemburgo, Belgio, Finlandia, Danimarca, Francia, Estonia, Malta e Portogallo); la Germania che dal 5,4% del 2019 è passata al 17% nel 2021; i Paesi dell’est Europa che partivano da un residuo numero di occupati avvezzi al lavoro da remoto e ancora faticano ad elevarne le percentuali; e infine realtà come Spagna, Italia, Polonia e Grecia che nel 2019 avevano percentuali di remote workers al di sotto della media europea, con l’emergenza sanitaria hanno raddoppiato tali valori, ma registrano un calo nel 2021 quale ipotetico sintomo di un’esperienza contingente che potrebbe non aver deposto radici per il futuro.
In Italia è stata la Legge n. 81/2017 Capo II ad offrire un quadro normativo di riferimento sul lavoro agile, ampliando ed aggiornando quanto previsto nella disciplina sul telelavoro. L’emergenza sanitaria ha invece esteso, dall’oggi al domani, quanto si stava sperimentando gradualmente e parzialmente in alcune realtà organizzative e produttive. La V Indagine INAPP sulla Qualità del Lavoro in Italia[3], realizzata nel corso del 2021, ha consentito di rilevare e analizzare i potenziali mutamenti attivati dall’esperienza di smart working emergenziale, osservando quanto dichiarato sia dai lavoratori che dai datori di lavoro. Al riguardo, in Italia coloro[4] che hanno concretamente sperimentato il lavoro da remoto nel 2021 sono oltre 2 milioni e mezzo, l’11,4% degli occupati italiani, di cui il 10,2% in smart working e l’1,2% in telelavoro.
Dal lato delle imprese, invece, la sopracitata indagine, ha permesso di identificare le sedi che hanno utilizzato il lavoro da remoto, nonché le specifiche misure adottate per favorirlo. Sul totale delle unità locali con lavoratori che possono svolgere mansioni anche a distanza[5], il 64,6% nel corso 2021 ha utilizzato il lavoro da remoto, il 54,2% in modalità smart working e 10,4% in telelavoro.
Le così dette imprese smart si trovano soprattutto nei territori del Nord Italia (69,8% nel Nord est e 53% nel Nord ovest); quindi nel Centro (57,5%) e infine nel Sud e Isole dove solo il 30% delle sedi è ricorsa a tale modalità lavorativa. Rispetto alla dimensione, come atteso, la percentuale di imprese smart cresce all’aumentare della stessa, si passa infatti da circa il 50% delle microimprese ad oltre il 78% delle realtà con più di 250 addetti. Infine, sono soprattutto le realtà afferenti al macrosettore degli altri servizi (62,4%) ad aver utilizzato il lavoro a distanza in modalità smart.
I lavoratori e i datori di lavoro che hanno sperimentato lo smart working intendono continuare ad utilizzarlo e, fra l’altro, convergono sui suoi principali vantaggi. Per l’80% dei lavoratori e per il 72% dei datori di lavoro lo smart working migliora l’equilibrio fra la sfera lavorativa e quella privata.
Entrambi ritengono, poi, che accresca le performance lavorative: dal lato dei lavoratori, di fatto, si riscontra un aumento dell’autonomia sul lavoro (74%) e una maggiore efficacia del lavoro orientato non da compiti e mansioni, ma diretto al conseguimento di obiettivi. Mentre fra le imprese si rileva un incremento della produttività (66%) e un aumento del benessere organizzativo (72%), elemento fra l’altro valorizzato nella letteratura che studia la relazione fra benessere e performance aziendale. Infine, lo smart working offre concrete possibilità di risparmio: di tempo negli spostamenti per i lavoratori (90%) e di costi di gestione degli spazi fisici per le imprese (65,8%).
Gli ulteriori approfondimenti[6] realizzati dall’INAPP nei confronti di tutti i lavoratori (distinti in smartworkers, teleworkers e no-remote workers) hanno evidenziato, inoltre, una complessiva maggiore qualità del lavoro smart che, seppur adottato in un contesto emergenziale, ha rivelato ampi spazi di autonomia nella programmazione e nello svolgimento delle attività, una maggiore complessità e rispetto di standard di qualità e più alti livelli di work life balance.
I datori di lavoro smart sembra abbiano colto a pieno i vantaggi dello strumento, intendono infatti mantenere inalterata (55,5%) o aumentare (3,7%) la quota di addetti in smart working, mentre un 41,2% vuole diminuirla, ma non rinunciarvi.
Lo smart working, tuttavia, non presenta solo vantaggi ed è essenziale considerarne le potenziali criticità per tentare di comprenderne la natura ed intervenire con eventuali strumenti correttivi.
Osservando le opinioni di lavoratori e datori si possono cogliere le questioni più urgenti. Al riguardo, le Parti riferiscono la loro principale preoccupazione nella riduzione della socialità professionale: ossia il possibile aumento del senso di isolamento (per il 64,7% dei lavoratori e il 49% dei datori di lavoro) e il timore che il lavoro agile non faciliti i rapporti fra pari o con i propri responsabili (per il 62% dei lavoratori e il 42,8% dei datori di lavoro).
Inoltre, più della metà degli smartworkers evidenzia, fra i potenziali rischi, l’aumento dei costi fissi domestici (spese per internet, luce, gas, ecc.) ed esprime preoccupazione rispetto alle maggiori difficoltà che si potrebbero incontrare nel far rispettare i diritti e mantenere le tutele.
Allo stesso tempo, i datori di lavoro ritengono che la minore presenza sul luogo di lavoro potrebbe indebolire il senso d’appartenenza aziendale (40,9%), mentre dal punto di vista organizzativo sottolineano la necessità di prevedere nuovi modelli di leadership (31,6%). Una domanda sorge, quindi, spontanea: tali criticità sono intrinseche dello strumento o sono indotte da una inefficace gestione dello stesso?
Per tentare di rispondere è necessario sottolineare, ancora una volta, la natura emergenziale e semplificata, ossia in assenza di un accordo individuale fra le parti, della recente esperienza di lavoro agile. Tale natura ne ha di fatto amplificato limiti e rischi: ad esempio l’impossibilità di garantire la componente ibrida dello smart working, i lavoratori e le lavoratrici non hanno potuto progettare e modulare le giornate da remoto e i rientri in sede secondo le proprie necessità; o la possibilità di connessione everywhere and everytime (dichiarata dal 48,5% degli smartworkers) che adeguate forme di regolazione – accordo individuale e/o contratti/accordi collettivi – potevano scongiurare (il 46,7% dei datori di lavoro e il 24,6% dei lavoratori ha dichiarato che lo smart working si è svolto senza alcuna forma di regolazione).
Fra luci ed ombre, l’esperimento smart working sembra aver suscitato i primi tentativi di cambiamento nell’organizzazione del lavoro. Da un lato si intercettano concreti mutamenti in termini di flessibilità e autonomia nella gestione della prestazione lavorativa.
Lo smart working offre maggiori margini di discrezionalità nel decidere quando (le attività non si misurano più solo rispetto all’ orario di lavoro), come (le attività sono orientate non dai compiti e mansioni, ma da obiettivi specifici) e, superata l’emergenza sanitaria, dove lavorare (casa, coworking, biblioteche o spazi pubblici). Dall’altro si registra un input, seppur lieve, ai processi di digitalizzazione del lavoro, che nelle imprese si è tradotto in un investimento in infrastrutture digitali (software, piattaforme e strumenti di cybersecurity); mentre fra i lavoratori ha riguardato la diffusione dell’utilizzo di strumenti digitali (piattaforme per le riunioni on-line, maggiore utilizzo dei cloud, etc.), prima appannaggio di professioni specifiche o altamente qualificate. Lo smart working è uno strumento win-win che può avere ricadute importanti sulla vita degli individui in termini di maggiore flessibilità e autonomia nel lavoro e di aumento del benessere organizzativo e dei livelli di livelli di work-life balance. Per i datori di lavoro, invece, può influire positivamente nell’organizzazione e nella produttività del lavoro e nella riduzione dei costi aziendali. Oltretutto, tale modalità lavorativa potrebbe mostrare concreti e diffusi vantaggi sociali, basti pensare alla potenziale maggiore diffusione della digitalizzazione nei servizi pubblici, al minor impatto ambientale originato dalla riduzione degli spostamenti o ai cambiamenti che una nuova geografia del lavoro potrebbe comportare nello sviluppo urbanistico (riqualificazione delle aree periferiche, sviluppo di spazi di coworking) e nel ripopolamento delle cosiddette Aree Interne.
Diverse sono, tuttavia, le questioni ancora aperte che richiedono oggi un confronto ampio e complesso, che coinvolga comunità scientifica, istituzioni, imprese, lavoratori e lavoratrici e Parti sociali, per cogliere tutte le potenzialità dello smart working, contenendone rischi e criticità. È necessario, quindi, che l’utilizzo dello strumento sia opportunamente governato, per scongiurare il potenziale effetto isolamento, i rischi di porosità del lavoro, o di mancate opportunità per tutte quelle professioni (non qualificate) e quelle imprese (micro, piccole e del Mezzogiorno) che ad oggi mostrano minori potenzialità in termini di agilità.
[1] Adascalitei D., Carlos Vacas-Soriano C., Staffa E. and Hurley J. (2022). “Telework and teleworkability during COVID: An analysis using LFS data”. Working Paper, Eurofound, Eurofound reference number: WPEF21041.
[2] ILO (2020). “Defining and measuring remote work, telework, work at home and home-based work”, ILO Technical note, 5 June 2020.
[3] L’indagine INAPP sulla Qualità del lavoro è una rilevazione campionaria ricorrente, volta a rilevare la qualità del lavoro in Italia. È inserita nel Piano statistico nazionale e concorre alla produzione delle statistiche ufficiali del Paese. Coinvolge 15.000 occupati (dai 18 anni) e 5.000 unità locali (mono o plurilocalizzate, del settore privato extra-agricolo).
[4] Riguardo all’identificazione del target “lavoratore da remoto” il modulo sullo smart working, previsto all’interno dell’indagine, è stato rivolto a: dipendenti e ‘non autonomi in senso stretto’ (prestatori d’opera -co.co.co e occasionali, coadiuvanti familiari e soci di cooperativa); del settore pubblico, privato e non profit; che hanno dichiarato di svolgere prevalentemente la loro attività in un luogo dedicato (ufficio, azienda, fabbrica, sede fissa), in egual misura presso l’abitazione e presso un luogo dedicato, o in un luogo non definito, pubblico/privato (bar, biblioteca, spazio di coworking, hub); che hanno svolto almeno un giorno di lavoro da remoto, nel mese precedente all’intervista. Cfr. INAPP, Canal T. (2022). “Attualità e prospettive dello smart working. Verso un nuovo modello di organizzazione del lavoro?”, Roma, Inapp https://oa.inapp.org/xmlui/handle/20.500.12916/3634
[5] Nonostante lo smart working sia stato uno strumento importante per il proseguimento delle attività produttive durante l’emergenza sanitaria, quasi l’80% dei datori di lavoro ritiene che le mansioni svolte in sede dai propri lavoratori non possano essere eseguite a distanza, anche se si rilevano differenze importanti osservando la dimensione della sede: il dato varia dall’84% di quelle con fino a 5 addetti al 34% di quelle con 250 e più addetti. Tale stima è stata ricavata rivolgendo ai datori di lavoro la seguente domanda: “In questa sede secondo lei ad oggi, quale percentuale del personale svolge mansioni che possono essere realizzate in lavoro a distanza o smart working/lavoro agile? Oltre il 75%, fra il 51% e il 75%; fra il 25% e il 50%; meno del 25%; nessuno.
[6] Al riguardo, per un approfondimento si rimanda a INAPP, Canal T. (2022).” Attualità e prospettive dello smart working. Verso un nuovo modello di organizzazione del lavoro?”, Roma, Inapp.
[*] Ricercatrice INAPP (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche) - Struttura Mercato del lavoro - Responsabile dell’Indagine Inapp sulla Qualità del Lavoro in Italia
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