Effemeridi • Pillole di satira e costume
Qualche giorno fa ho incontrato un caro amico dall’aspetto quasi irriconoscibile. Il suo volto esprimeva sbigottimento e rabbia. Parlando ho capito il perché.
Ho letto la notizia, mi ha detto, che i due terzi dei vincitori del recente concorso per ispettore del lavoro, quasi tutti meridionali, hanno rinunciato all’assunzione non solo negli uffici delle città del nord, ma addirittura in quelle del sud, Napoli, Bari, Catanzaro, tanto per citarne qualcuna. Una notizia incredibile dopo che la stessa stampa ci ha riempito la testa della grande disoccupazione intellettuale del meridione che spinge tanti giovani a tagliare le proprie radici per andare a cercare fortuna all’estero. Qualche autorevole burocrate ha individuato la causa nella lontananza della sede di servizio dalla loro residenza con tutte le difficoltà che ciò comporterebbe. Se è questa la causa della rinuncia allora la denuncia della stampa sulla fuga all’estero è una grossa balla; se questi non hanno voglia di fare qualche centinaio di chilometri, figuriamoci se si avventurano verso l’ignoto dopo un percorso tante volte più lungo.
Come tu sai anch’io ho lavorato in quella struttura, iniziando tanti anni fa. Ricordo quando il postino mi consegnò una raccomandata, un foglio piegato in tre, chiuso da un punto metallico. Nel leggere il contenuto ho fatto un salto di gioia e sono corso ad abbracciare mia madre per darle la notizia che avevo vinto un concorso pubblico; finalmente uno stipendio, seppur modesto, perché a quei tempi era da fame e uno status di cui fregiarmi. Era soprattutto la fine della dipendenza dai miei che mi avevano fatto studiare e tenuto in carico, stringendo, come si usava dire allora, la cinta che era arrivata all’ultima asola.
Ero stato fortunato rispetto a tanti altri diretti al nord perchè la destinazione era Terni, una sede non troppo distante che mi aveva messo in condizione di scegliere se trasferirmi o fare il pendolare. Per i tanti interessi che avevo nella mia città, scelsi la seconda opzione, così per due anni ho fatto avanti e indietro, per sei giorni la settimana. Mi alzavo alle cinque e dopo mezz’ora uscivo da casa. L’autobus carico di un’umanità dolente mi portava alla stazione poco prima della partenza del treno in attesa sempre allo stesso binario che mi conduceva a destinazione dieci minuti prima dell’inizio dell’orario d’ufficio. Tornavo a casa intorno alle sei pomeridiane, tranne due giorni in cui c’era lo straordinario obbligatorio. Allora il mio rientro era intorno alle nove di sera.
Il viaggio all’inizio è stato veramente duro perché non conoscevo nessuno e il tempo lo passavo cercando di dormire; un modo non tanto per riposare quanto per cercare di evadere da quella realtà, almeno un poco. Una volta ho pagato caro quest'assuefazione incontrollata perché per chissà quale motivo allo stesso binario non c’era il treno giusto ma quello diretto a Genova. Salii senza rendermene conto, seguendo l’abitudine acquisita; come il solito mi sono appisolato e quando, dopo circa un’ora, mi sono svegliato per i riflessi condizionati acquisiti, stava entrando nella stazione di Civitavecchia.
L’isolamento era durato poco; mi ero accorto, infatti, che c’erano tanti altri pendolari, per lo più impiegati e insegnanti, che scendevano lungo il percorso ferroviario per andare al lavoro a Spoleto, Orvieto, addirittura ad Ancona. Pian piano abbiamo fatto gruppo rendendo più piacevole il viaggio. Sono nate tante amicizie durevoli e anche rapporti sentimentali perché l’uomo ha la capacità di adattarsi anche alle situazioni più difficili. Quando ho preso servizio, ho liberato il posto a un collega che mi ha accolto con grande entusiasmo. Il mio arrivo, infatti, significava il suo rientro a casa poiché in quel periodo c’erano concorsi a raffica e i ricambi avvenivano in media ogni paio d’anni. Sarei potuto tornare nella mia città anche sei mesi prima, quando erano arrivati i nuovi, ma per spirito cavalleresco, come allora si usava, ho ceduto il mio posto a una collega che aveva appena preso servizio perché a Roma aveva lasciato due bambine.
È vero che negli ultimi tempi nei miei sogni o incubi sentivo il rumore delle ruote del treno sui binari come un’ossessione, ma alla fine non ho mai disprezzato quell’esperienza e come avviene per noi umani, col passare del tempo sono svaniti gli aspetti negativi lasciando nella mia memoria solo ricordi piacevoli. Devo ribadire che sono stato più fortunato di tanti altri che nel corso dei decenni sono andati in sedi molto più lontane e ci sono rimasti più a lungo. E questi, oggi, rifiutano in massa un posto che dà una retribuzione, tutto compreso, meno disprezzabile di quella da me percepita all’epoca, un posto stabile e una pensione assicurata. Poi, vieni a dirmi se non c’è da essere incazzato.
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