Nel 2023 ricorre il decimo anniversario del crollo del Rana Plaza, l’edificio di 8 piani che ospitava cinque fabbriche tessili fornitrici dei principali marchi internazionali della fast fashion. Il 24 aprile del 2013 vi persero la vita almeno 1.138 lavoratori, in maggioranza donne e più di 2mila rimasero ferite, in quello che è considerato come il più grave disastro industriale avvenuto in una fabbrica tessile nella storia. Si tratta di un anniversario tragico che vogliamo ricordare lontano dalla retorica e dalla sterile celebrazione, per cercare di tracciare cosa quella vicenda ha prodotto e cambiato in 10 anni. Rana Plaza Never Again, oltre al nome del blog creato dai sindacati e dagli attivisti della Clean Clothes Campaign per non dimenticare, è divenuto il monito che ha guidato l’attività di denuncia e pressione pubblica di Ong e sindacati per ottenere cambiamenti strutturali in uno dei settori industriali più a rischio per la violazione dei diritti umani e del lavoro, oltre che per gli impatti ambientali. La tragedia del Rana Plaza doveva e poteva essere evitata, se la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori fosse stata una priorità del governo e delle imprese, che tramite una accurata due diligence avrebbero potuto intercettare per tempo rischi evidenti ai lavoratori. Infatti le operaie del Rana Plaza avevano paura e non volevano entrare in fabbrica quel maledetto 24 aprile, perché avevano visto le crepe nei muri e presagivano il disastro. Ma non erano nelle condizioni di esercitare il loro diritto a rifiutare un lavoro insicuro, ricattate dai boss delle fabbriche che minacciavano di non pagarle, se non fossero entrate. Le lavoratrici e i lavoratori del Rana Plaza hanno barattato/perso la vita per paura di perdere un salario di povertà, perché quando si è poveri pur lavorando, si è sotto costante ricatto e non resta altra scelta che rischiare, per sopravvivere, mantenere i figli e provare a garantire loro un destino diverso e migliore.
La scala del disastro ha consentito di non spegnere rapidamente i riflettori sull’ennesimo incidente sul lavoro cui normalmente dedicare qualche rigo di circostanza nelle pagine di cronaca. Dalle macerie del Rana Plaza invece è nata una imponente campagna pubblica internazionale che la Clean Clothes Campaign insieme a numerose ong e sindacati hanno saputo promuovere per inaugurare una stagione contrattuale inedita e innovativa. I grandi marchi della moda internazionale, stretti nella morsa del danno reputazionale causato dall’enorme eco mediatica, non hanno potuto ignorare le richieste dei difensori dei diritti umani e pochi mesi dopo il crollo hanno accettato di firmare l’accordo sulla sicurezza e la prevenzione degli incendi nelle fabbriche tessili in Bangladesh.
Primo nel suo genere grazie alla natura vincolante, l’Accord for Fire and Building Safety in Bangladesh viene firmato da più di 200 marchi e distributori, i sindacati IndustriALL e UNI Global Union con le Ong Clean Clothes Campaign, Global Labor Justice, Maquila Solidarity Network e Worker Rights Consortium in veste di osservatrici. Nel nuovo programma di ispezione entrano più di 1.600 fabbriche che impiegano 2,5 milioni di lavoratori. L’Accordo fornisce meccanismi unici di responsabilità perché: (i) è legalmente vincolante per i marchi firmatari; (ii) dopo ispezioni accurate sulla sicurezza degli edifici, impone piani di ristrutturazione con scadenze precise per eliminare i rischi rilevati; (iii) garantisce che i fornitori abbiano le risorse per pagare i lavori di risanamento; (iv) fornisce ai lavoratori formazione, una via confidenziale per denunciare inadempienze in materia di sicurezza e salute e garantire una rapida azione correttiva; (vi) documenta le sue prestazioni attraverso una straordinaria trasparenza pubblica.
Accanto all’Accordo sulla sicurezza, nel 2013 viene stipulato anche il Rana Plaza Arrangement [1] per il risarcimento delle famiglie delle vittime e dei lavoratori rimasti inabili al lavoro. L’Arrangement, stipulato diversi mesi dopo il crollo, incontrerà molte più difficoltà a fare aderire le imprese, richiedendo agli attivisti della società civile internazionale un intenso lavoro di pressione pubblica. La grande novità dell’Arrangement, che conclude il suo iter risarcitorio nel 2015, consiste di un meccanismo trasparente per la valutazione del danno economico occorso ad ogni lavoratore rimasto ucciso o ferito, parametrato sui salari persi per il ciclo di vita lavorativa atteso, secondo la Convenzione ILO 121 sugli infortuni sul lavoro, oltre alle spese mediche sostenute. Grazie ad un lavoro accurato presieduto dall’ILO, due anni dopo l’incidente le famiglie delle vittime e i lavoratori sopravvissuti hanno ricevuto un risarcimento, seppur imperfetto e parziale, per un valore complessivo di 30 milioni di dollari[2]. Due intensi anni di negoziati e di campagna internazionale sono stati necessari a raggiungere un risultato molto importante, la cui eredità è uno schema di risarcimento basato sulle convenzioni ILO con il coinvolgimento di tutti gli stakeholder, modello poi utilizzato per altri casi analoghi. I limiti del Rana Plaza Arrangement sono costituiti dalla inadeguata base salariale su cui è stato calcolato l’indennizzo, dato lo scarto tra i minimi salariali e il livello considerato dignitoso[3] secondo benchmark credibili e l’esclusione dei danni psicologici per dolore e sofferenza, non ricompresi nella convenzione ILO 121. Una aporia del sistema tuttora irrisolta e che costituisce una delle principali sfide dell’attuale dibattito sull’accesso alla giustizia nella imminente direttiva europea sulla Due Diligence Aziendale Sostenibile[4].
I due accordi siglati all’indomani del Rana Plaza hanno segnato un punto a favore del movimento dei lavoratori, riuscendo a tracciare la rotta per una modifica sistemica dei rapporti di forza nelle catene del valore del settore tessile mondiale. Attraverso la previsione di obblighi per le imprese committenti, chiamate ad assicurare anche finanziariamente la messa in sicurezza dei propri fornitori e la minaccia di espellere questi ultimi dal mercato internazionale in caso di inadempienza, si è dato vita ad un meccanismo virtuoso che ha finalmente riportato in auge il valore insostituibile di regole vincolanti per governare la catene di fornitura globali, per decenni offuscate dalla predominante e malriposta fiducia in approcci volontari accreditati dalle certificazioni sociali e da iniziative Multistakeholder di scarsa efficacia, come la stessa tragedia del Rana Plaza ha dimostrato[5].
Il rinnovo dell’Accordo sulla sicurezza nel 2018 e poi nel 2021 non è stato facile. Nonostante i successi indiscutibili riportarti in Bangladesh, dove migliaia di fabbriche sono state ispezionate e centinaia risanate, grazie ad un team di ispettori qualificato e indipendente, è stata nuovamente necessaria una campagna internazionale affinché i marchi confermassero il loro impegno per fabbriche sicure in Bangladesh. Sappiamo bene che garantire salute e sicurezza nei luoghi di lavoro è un processo continuo, mai da considerarsi terminato. Come si può evincere dalla mole dei dati pubblici prodotti nel ciclo di vita dell’Accordo, riqualificare dal punto di vista impiantistico le fabbriche richiede non solo soluzioni tecniche la cui tenuta va verificata nel tempo ma anche un cambio di cultura aziendale, dei marchi committenti le cui pratiche commerciali sono alla base del deterioramento delle condizioni di lavoro lungo la catena di fornitura e dei loro fornitori. Con il rinnovo del 2018 arrivano due importanti novità: l’estensione delle ispezioni a tutti i fornitori dei marchi firmatari, quindi non soltanto a quelli del c.d. Ready Made Garment[6] e l’inclusione della tutela della libertà di associazione sindacale, diritto fondamentale abilitante che rinforza la possibilità di denunciare in maniera protetta i rischi per la salute e la sicurezza sul lavoro e di risolverli tramite una procedura interna di gestione delle controversie. In 10 anni, oltre il 90% di tutti i rischi per la sicurezza riscontrati nelle fabbriche coinvolte nel programma sono stati risolti, rendendo gli edifici più sicuri per oltre 2 milioni di lavoratori e lavoratrici del settore. Inoltre 1,8 milioni di lavoratori hanno usufruito di corsi di formazione sulla sicurezza e oltre 1.700 reclami in materia di salute e sicurezza sono stati trattati tramite il meccanismo interno per la gestione delle controversie. Numeri importanti che testimoniano la validità del meccanismo, nonostante i diversi aspetti da migliorare nella sua implementazione nazionale.
L’Accordo sulla Sicurezza non ha avuto vita facile. Fin dall’inizio è stato mal digerito dalle associazioni datoriali e dalle imprese locali, poste sotto i riflettori internazionali e di fatto escluse dalla stipula dell’accordo.
Complesse vicende giudiziarie nate dalla denuncia di una azienda esclusa dalle forniture per avere falsificato i test di sicurezza, hanno determinato un difficile e anticipato avvicendamento dallo Steering Committee dell’accordo al nuovo organismo nazionale denominato RMG Sustainability Council (RSC), che dal maggio del 2019 ha ereditato tutte le funzioni operative dell’Accordo. Formato da rappresentati dei marchi, dell’associazione delle imprese locali BGMEA e dai sindacati, l’RSC ha da subito sollevato dubbi sulla effettiva capacità di mantenere lo stesso rigore operativo e trasparenza, data la governance non paritaria tra le parti sociali[7]. Dubbi che potranno essere fugati solo attraverso una attenta valutazione del lavoro svolto sul campo.
Con il rinnovo nel 2021 l’accordo cambia pelle e diventa internazionale. Il nuovo International Accord for Health and Safety in the Textile and Garment Industry include finalmente la possibilità di estendere il meccanismo ad altri paesi, tramite Country Specific Safety Programs. L’ultimo tassello di questo breve bilancio sul decennale del crollo del Rana Plaza riguarda la nascita del Pakistan Accord. Siglato il 14 dicembre 2022, ancora una volta grazie alla costante attività di sensibilizzazione pubblica svolta dalla Clean Clothes Campaign, è entrata nel vivo la fase di sottoscrizione da parte dei marchi[8], necessaria a rendere operativo il programma. Una grande soddisfazione per i sindacati in Pakistan, che attendono questo accordo da dieci anni, e dove solo pochi mesi prima del Rana Plaza, l’11 settembre 2012, oltre 250 lavoratori morirono nell’incendio della Ali Enterprises, azienda certificata SA8000 dal RINA poche settimane prima della tragedia[9]. Le ultime vittime risalgono ad un anno fa, quando 4 operai sono morti in una fabbrica fornitrice di Levi’s la quale non ha ancora sottoscritto nemmeno l’Accordo su Bangladesh[10].
Fare un bilancio di quanto il Rana Plaza abbia cambiato l’industria della moda non è una operazione facile. Se circoscriviamo la questione alla salute e sicurezza per i lavoratori e le lavoratrici tessili del Bangladesh, sicuramente il bilancio è positivo, senza sottovalutare i limiti e le domande sollevate dagli accordi raggiunti dopo quella immane tragedia, per esempio: i. il delicato rapporto tra accordi internazionali e la loro applicazione nei contesti nazionali, rischiando i primi di calare dall’alto senza che sia stata raggiunta un’effettiva maturazione e appropriazione del processo da parte degli attori locali; ii. la effettiva capacità dell’RSC, di garantire lo stesso rigore e livello trasparenza, data la nuova governance tra imprese e sindacato; iii. l’ambito di applicazione ristretto, che non incorpora la vigilanza su altri aspetti altrettanto cruciali come i salari, la violenza di genere, la precarietà contrattuale; iv. i bassi livelli salariali causati in primis dalle pratiche commerciali sleali dei marchi alla base del calcolo del danno per mancato reddito, che non hanno assicurato un risarcimento adeguato, oltre alla esclusione dal computo dei danni per dolore e sofferenza psicologica; v. il ritardo nell’adozione di un sistema nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro.
Nonostante i limiti e le domande tuttora aperte, la stagione contrattuale inaugurata dopo il Rana Plaza rappresenta un elemento di rottura con il business as usual che per decenni ha protetto l’impunità delle imprese attraverso la negazione di qualunque responsabilità dei marchi nei confronti dei fornitori. L’Accordo sulla sicurezza, con le sue evoluzioni e i diversi attori coinvolti, è un processo vivente che rinnova la sua materialità giorno dopo giorno, attraverso il radicamento dei meccanismi e delle procedure nella cultura giuridica e politica nazionale[11]. Nel decennale del Rana Plaza, fatto forse non del tutto casuale, vedrà la luce la direttiva europea sulla Corporate Sustainability Due Diligence, ormai al termine del lungo processo negoziale. Senza cedere a sin troppo facili valutazioni, non può sfuggire il fatto che la natura vincolante dell’Accordo sulla sicurezza, nella sua originale articolazione tra obblighi per le imprese, meccanismi rimediali, apparato sanzionatorio e trasparenza, rappresenti il più efficace esempio di due diligence applicata ante litteram.
In tal senso non appare eccessivo sostenere che tragedia del Rana Plaza, oltre a produrre soluzioni inedite ed efficaci per affrontare il problema strutturale della salute e della sicurezza delle fabbriche in Bangladesh, abbia funzionato da acceleratore a favore della produzione di norme vincolanti per regolare le catene globali del valore per l’intero settore. Gli effetti di questa nuova stagione regolatoria, a lungo attesa dai difensori dei diritti umani e da sempre osteggiata dalle imprese, dovranno essere valutati nel tempo ma è certo che, se questo percorso normativo potrà evolvere e dispiegare le sue potenzialità trasformative, la tragedia del Rana Plaza non sarà accaduta invano.
[1] https://ranaplaza-arrangement.org/
[3] All’epoca del calcolo venne utilizzato il salario minimo legale, molto al di sotto di quanto ritenuto dignitoso secondo le stime dell’Asia Floor Wage Alliance, https://asia.floorwage.org/
[6] Si tratta dell’industria manifatturiera del tessile orientata all’esportazione a favore di grandi marchi di moda che conta più di 3 milioni di lavoratori e 7mila fabbriche
[7] https://cleanclothes.org/file-repository/accord_witness_signatory_response_to_bgmea.pdf/view
[8] Al 16 febbraio già 33 marchi hanno firmato il nuovo accordo, tra questi figurano H&M, Inditex (Zara), Primark, Asos, C&A, Next e PVH (Calvin Klein), i marchi che hanno i principali interessi commerciali in Pakistan
[10] Oltre a Levi’s, anche colossi come IKEA e Amazon non hanno mai sottoscritto gli Accordi sulla sicurezza
[11] G. FROSECCHI “L’Accordo internazionale per la tutela della salute e della sicurezza nell’industria della moda: successi, difficoltà e prospettive di un innovativo strumento di tutela dei lavoratori della catena globale del valore”
[*] Coordinatrice nazionale Campagna Abiti Puliti
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