La parola “lavoro” ha assunto, nel tempo, significati diversi rispetto a quanto oggi intendiamo.
Nelle società primitive fino alle pre-classiche il lavoro era legato alla necessità di soddisfare i bisogni primari, ovvero alla ricerca del cibo. Si lavorava per tutta la vita e non esisteva quello che consideriamo oggi il “tempo libero”. Non vi era la separazione tra vita e lavoro, ma coincidenza: tutta la vita era incentrata sul lavoro.
Successivamente, nell’età classica, ossia al tempo dei greci, la società, divisa in classi, era basata sullo sfruttamento degli schiavi a cui era riservato il lavoro, che era essenzialmente di tipo manuale, quindi disprezzato dagli uomini liberi. Questi erano dediti alle scienze matematiche, astronomiche, filosofiche e, come detto, il lavoro era appannaggio esclusivo degli schiavi, ai quali non veniva riconosciuto né lo status di cittadino, né alcuna libertà civile. Platone e Aristotele definivano il lavoro come “fatica”, “sforzo”, “pena” e quest’idea del lavoro si è protratta per secoli.
Infatti, i romani, apprezzato lo stile di vita dei greci, ne assimilarono gli aspetti che ritennero più piacevoli per loro. Introdussero la distinzione tra “negotium” e “otium”: il primo riguardava attività quali il guadagno, il commercio, gli affari, occupazioni considerate indegne e condannate dalla società; il secondo riguardava le attività dedite alla ricerca intellettuale, frutto di uno stile di vita elevato e lontano da occupazioni volgari e servili.
Con il trascorrere del tempo, però, iniziarono a nascere forme di specializzazione e di uso del tempo, senza però introdurre la giornata lavorativa: si lavorava tutti i giorni.
I primi cambiamenti arrivarono con il cristianesimo. Con il concetto di “buon cristiano” si iniziò a valorizzare il lavoro. Per il cristiano il lavoro era sì “fatica”, causata dal peccato originale, ma era anche segno della devozione verso Dio. Per Sant’Agostino l’otium diventava sinonimo di pigrizia, ovvero perdizione, quindi qualcosa da condannare. L’opus, termine usato sia riferendosi all’attività dell’uomo che a quella di Dio o verso Dio, veniva esaltato in quanto era il mezzo che l’uomo disponeva per avvicinarsi alla Sua grandezza. E per i successivi mille anni, ovvero per tutto il Medioevo, rimase valida la distinzione agostiniana tra lavori “leciti” e “illeciti”: i primi erano svolti dai contadini e dagli artigiani che, trasformando l’oggetto sul quale operavano, rendevano l’uomo simile ad un creatore; i secondi comprendevano qualsiasi attività tesa al guadagno e alla speculazione. Il secolo successivo, con San Benedetto e il suo “ora et labora”, si sancì l’equivalenza tra lavoro e preghiera.
Ma continuava ad essere sconosciuta la divisione tra giornata lavorativa e non lavorativa.
Successivamente, nel XII° secolo, per le sole attività agricole, sia in Francia che in Inghilterra, alla parola lavoro (labeur in francese e labour in inglese) si iniziò a dare un significato che si avvicinava a quello che oggi intendiamo.
A partire dalla fine del Medioevo la situazione cominciò a cambiare in modo evidente: si affermò la figura del mercante dovuta alla comparsa di nuove attività economiche, all’espansione dei mercati e all’intensificazione dei commerci. I mercanti possono essere considerati i primi capitalisti nell’accezione che oggi intendiamo. Nel XVI° secolo furono la riforma luterana e calvinista a riproporre il tema del lavoro e a imporre in modo decisivo e irreversibile, l’idea del lavoro come virtù. Da condanna universale, qual era nella Bibbia, il lavoro diventò attività da perseguire.
Max Weber, qualche secolo dopo, individuò nella riforma religiosa del XVI° secolo addirittura l’origine dello “spirito del capitalismoˮ.
Nel XVI° e XVII° secolo, le attività produttive preponderanti furono di tipo artigianale. Comparve la figura dell’apprendista, colui il quale andava a bottega per imparare un mestiere da una persona generalmente più grande di età, con anni di lavoro artigianale alle spalle che faceva da maestro. E l’apprendistato durava anche alcuni anni.
Nel XVII° secolo, a partire dall’Olanda e dall’Inghilterra, il sistema economico capitalistico prese definitivamente il sopravvento sul sistema medievale, stravolgendo i tradizionali rapporti sociali di produzione. Il concetto di “lavoro”, rimasto inalterato per lungo tempo, iniziò a cambiare.
Ma si era all’alba della Rivoluzione Industriale, con la comparsa delle prime macchine e dei primi timori che le accompagnavano: nel 1589, la regina Elisabetta I d’Inghilterra manifestò il suo scettiscismo al pastore William Lee quando questi fece richiesta di un brevetto reale per una macchina da maglieria: “Pensi alle conseguenze che avrà questa invenzione sui miei poveri sudditi” affermò la sovrana; “li porterebbe senza dubbio alla rovina privandoli di un lavoro”. E non poteva immaginare cosa stava per succedere.
Infatti, nel XVIII° secolo arrivò la Rivoluzione Industriale, che rappresentò un vero stravolgimento di quello che era il lavoro o il concetto che si era avuto fino ad allora, come vedremo. Rivoluzione non solo per come cambiò il lavoro, ma anche il modus vivendi delle persone. La produzione aumentò notevolmente e nacquero le prime industrie. La figura dell’apprendista venne sostituita dalla figura del lavoratore dipendente. Qualche studioso afferma che il mercato del lavoro sia nato in seguito alla Rivoluzione Industriale del 1700. Infatti, si formarono due classi sociali ben distinte: i capitalisti (o datori di lavoro o padroni) da un lato, ed i proletari (o lavoratori), dall’altro. L’incontro delle esigenze degli uni e degli altri fece nascere il mercato del lavoro. I capitalisti erano quei soggetti che possedevano grandi disponibilità di capitale, tali da poterli investire nelle industrie per generare nuove attività economiche. I proletari erano quei soggetti, appartenenti al basso ceto sociale, che fornivano la propria forza lavoro, al fine di percepire un salario che a stento bastava per far vivere la propria famiglia. La contrattazione veniva decisa dai datori di lavoro che avevano una posizione di forza, ovviamente a discapito dei lavoratori e delle loro famiglie. Questo perché vi era una elevata forza-lavoro disponibile a fronte di una domanda che non poteva soddisfare tutti. Di conseguenza i datori di lavoro facevano quel che volevano: molto spesso le condizioni di lavoro erano precarie ed i salari molto bassi. Lo sfruttamento del lavoro minorile e giornate di 14 ore lavorative, diventarono la norma, la quotidianità.
Ma il lavoro minorile non fu introdotto allora. Infatti, la realtà lavorativa che aveva contraddistinto l’uomo fino ad allora era essenzialmente rurale e i figli, da sempre, aiutavano i genitori nel lavoro dei campi. Durante la Rivoluzione Industriale, però, le loro condizioni lavorative peggiorarono come quelle dei loro genitori. I minori avevano il vantaggio di poter entrare in luoghi inaccessibili ai lavoratori adulti e di usare alcuni macchinari con maggiore precisione per via delle loro mani minute. Inoltre, non avevano la forza per ribellarsi agli ordini loro impartiti.
Tutti questi fattori facevano della forza lavoro minorile un bene altamente richiesto dagli industriali dell’epoca.
Nel lungo termine l’impiego di mano d’opera minorile fu devastante per la società dell’epoca perché contribuì a creare numerosi gruppi di individui che non possedevano alcuna capacità se non quella di eseguire una sequenza di azioni ben specifica, imparata durante la loro infanzia.
Una conseguenza di ciò fu l’aumento del degrado sociale e della criminalità.
Con la presenza di fabbriche i contesti urbani furono radicalmente modificati, cambiarono i rapporti tra le persone, ma non solo.
Con l’industrializzazione si passò da una società prettamente agricola, ad un sistema industriale moderno. Ciò comportò uno spostamento massiccio di persone dalla campagna verso i centri cittadini che, da piccoli aggregati urbani, si trasformarono in moderne metropoli.
Questo creò diversi problemi: i villaggi non avevano a disposizione spazio a sufficienza per accogliere i nuovi arrivati. Di conseguenza, vennero create delle strutture apposite dove gli operai potessero vivere. Queste strutture furono costruite senza pensare al benessere degli occupanti.
Schiere di abitazioni minuscole inserite in imponenti palazzi furono erette nelle periferie dei villaggi o delle piccole cittadine in prossimità delle neo-costituite fabbriche. Non solo, gli occupanti furono costretti ad abitare in spazi angusti e malsani e furono anche esposti all’inquinamento dovuto dalla prossimità delle fabbriche.
Tale situazione si protrasse per diverse decine di anni, fino a quando gli Stati iniziarono ad introdurre politiche di tutela dei lavoratori, di miglioramento delle loro vite con l’incremento del benessere. Nacquero i primi sindacati e associazioni di difesa dei lavoratori.
Il ceto medio ebbe per la prima volta la possibilità di acquistare a basso costo molti beni, con il miglioramento della propria vita. Ma per le classi meno abbienti non fu la stessa cosa, come già accennato.
In questo secolo due furono i fattori di novità. Il primo è politico, con la rivoluzione francese, ove si assistette alla definitiva affermazione della borghesia come classe dominante. Il secondo, economico: crebbero le manifatture che andarono a sostituirsi al lavoro artigianale. Fino a quel momento il capitalista era stato, dalla fine del Medioevo, il mercante. Da quel momento in poi il capitalista si trasformò in imprenditore. Iniziò a diffondersi l’idea – che sarà dominante nella scuola classica dell’economia – che la ricchezza non nascesse dalla compravendita, ma dalla produzione.
L’anno di svolta fu il 1776, quando fu pubblicata “Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni” di Adam Smith. Egli proponeva di individuare le leggi che determinano l’aumento delle ricchezze, in modo analogo a quanto avviene nel mondo con le leggi della fisica classica di Newton. Con la rappresentazione della fabbrica degli spilli, Smith introdusse la “divisione del lavoroˮ. Nel Settecento con l’elaborazione teorica dell’Illuminismo francese e scozzese terminò l’ostracismo del ceto nobiliare nei confronti del lavoro.
A fine Ottocento nacque una nuova figura, quella dell’impiegato. L’espansione delle imprese, degli affari, rese necessaria la creazione di una nuova figura capace di eseguire operazioni quale registrazione di dati di varia natura, contabilità, andamento dell’azienda, ecc… Era una figura diversa rispetto a quella vista fino a quel momento: non svolgeva un lavoro meccanico come quello dell’operaio, ma specializzato. Era sempre un dipendente, ma lavorava in un ambiente confortevole, veniva pagato a fine mese con retribuzione fissa, godeva di maggiori ferie e pause lavoro più lunghe. Rispetto all’operaio era un privilegiato, collaborava con l’imprenditore, mostrando nei suoi confronti fiducia e lealtà.
Nel XX° secolo, a partire dal primo dopoguerra, in seguito alla forte espansione della grande industria, la figura dell’impiegato crebbe di importanza e le sue caratteristiche iniziarono a subire delle trasformazioni. L’introduzione di nuovi strumenti di lavoro quali macchine da scrivere, calcolatrici, ecc… anche nel settore impiegatizio comportò un’alterazione dei suoi contenuti e delle modalità di esecuzione del lavoro, che diventarono sempre più ripetitive e standardizzate, tanto da parlare di una “officina dell’amministrazione”, rumorosa e meccanizzata.
In realtà nel XX° secolo ci furono altri cambiamenti che riguardarono il concetto del lavoro. Il primo fu con l’invenzione della catena di montaggio nell’industria automobilistica da parte di Henry Ford, nata per incrementare la produttività. Nacque il “fordismo” che fu adottato dall’industria manifatturiera. Da un punto di vista pratico si razionalizzò il ciclo produttivo: nelle forme più spinte si arrivò addirittura a calcolare con esattezza i minimi movimenti corporei del dipendente. In cambio il salario del dipendente aumentava. Ma questo ultimo punto non era dovuto ad un moto di generosità: Ford sosteneva che una classe operaia povera non si poteva permettere nemmeno l’acquisto di una utilitaria, neanche della più spartana. Quest’approccio, nato appunto negli Stati Uniti, prevede che la ricchezza e il profitto possono essere raggiunti solo con salari alti che consentono ai lavoratori di acquistare i beni da loro prodotti. Tutto ciò portò ad un incremento della produzione e ad una diminuzione del costo medio di produzione. Detroit diventò la capitale dell’automobilismo ed ebbe una forte espansione urbanistica, con stravolgimenti che ricordavano quelli in Gran Bretagna ai tempi della Rivoluzione Industriale. Il fordismo si estese in tutto il mondo, anche nell’Unione Sovietica di Stalin. Egli elaborò i primi piani quinquennali sulla teoria fordista del lavoro. Non solo, secondo Stalin l’efficienza americana era la base per ottenere un lavoro serio e costruttivo: sosteneva che la combinazione di rivoluzione russa con l'efficienza americana era l'essenza del leninismo (!). Ma sia i sovietici che gli americani non dissero mai del contributo delle idee dell'esperienza americana nello sviluppo e nella crescita di potere dell'Unione Sovietica, per motivi facilmente immaginabili! L’approccio fordista al lavoro fu predominante dalla fine della seconda guerra mondiale fino a fine anni ’70 del secolo scorso.
In Italia il boom economico degli anni Cinquanta segnò l’inizio di un trentennio di grande prosperità e ricchezza che gli storici definiscono dei “trenta anni gloriosi”. Il progresso industriale postbellico andò di pari passo con lo sviluppo altrettanto importante delle politiche sociali, orientate alla promozione del benessere dei cittadini e alla maggiore regolamentazione del lavoro. Dopo anni di grave crisi economica e dopo le due guerre mondiali nacque l’esigenza tutta naturale e spontanea di migliorare le proprie condizioni sociali ed economiche, di creare le condizioni per la pacifica convivenza sociale, di costruire una pace stabile, dato che si era usciti devastati dalle due guerre.
Seppur i primi importanti progetti di politica assistenziale e di regolamentazione giuridica delle relazioni industriali risalissero agli ultimi venti anni del XIX° secolo, la vera maturazione dei sistemi del welfare si ebbe nei primi tre decenni del XX° secolo, per poi raggiungere il massimo sviluppo nel periodo che va dal secondo dopoguerra agli anni Settanta.
Il viaggio nel tempo sull’evoluzione del “lavoro” si ferma ovviamente qui. Per guardare al futuro dobbiamo osservare che il mondo sta cambiando in tempi molto più rapidi rispetto al passato, per una serie di fattori: la globalizzazione dei mercati finanziari, l’aumento delle donne nella forza lavoro, l’incremento dei servizi rispetto al tradizionale lavoro di fabbrica, la specializzazione sempre più spinta dei lavoratori, l’incremento del terziario ma soprattutto la rapidità dell’evoluzione delle tecnologie. Tutto ciò sta determinando evoluzioni culturali, sociali, economiche e giuridiche che saranno approfondite in un successivo articolo.
[*] Ingegnere, Ispettore del lavoro in servizio presso l’Ispettorato Nazionale del Lavoro. Le considerazioni contenute nel presente scritto sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno in alcun modo carattere impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.
Seguiteci su Facebook
>