Il “panopticon” (dal greco Πᾶν, “tutto” e ὀπτικός, “visivo”, letteralmente “tutto visibile”) indica una realtà carceraria all’interno della quale un unico sorvegliante, posto al centro di una struttura circolare, riesce a vedere e quindi a controllare tutte le celle che gli sono disposte attorno. Un esempio importante di “panopticon” tuttora esistente è il carcere borbonico dell’isola di Santo Stefano, posto accanto all’isola di Ventotene, dove durante il ventennio fascista furono imprigionati antifascisti come Sandro Pertini e Umberto Terracini.
Tuttavia, questa realtà distopica in cui un solo soggetto è in grado di controllarne molti altri non è confinata in importanti testimonianze storiche dei secoli passati, ma sembra continuare a sopravvivere in alcuni modelli organizzativi presenti a livello aziendale.
“The Amazon panopticon”, infatti, è il titolo di un rapporto elaborato da “UNI Global Union”, federazione internazionale cui aderiscono più di 900 sindacati in 140 Paesi del mondo, che unisce i sindacati di vari settori, tra cui il commercio, servizi bancari, assicurativi, media e spettacolo. Nel 2021 fu pubblicato un primo rapporto, dedicato al controllo pervasivo che la società “Amazon” attua nei confronti dei propri dipendenti.
Nel 2022 è stato pubblicato un nuovo rapporto[1] che si basa su oltre duemila risposte date in otto Paesi diversi da magazzinieri, autisti e impiegati della società, tutti coperti da totale anonimato a loro tutela. Si tratta della più grande indagine indipendente finora condotta all’interno di questa società.
Vediamo meglio alcuni dei dati emersi, partendo dall’uso degli strumenti di controllo: i magazzinieri hanno con sé scanner portatili che ne controllano il tempo delle pause; gli autisti di consegna hanno dispositivi di geolocalizzazione e telecamere a bordo dei furgoni; gli impiegati sono controllati attraverso software di tracciamento delle attività, ma anche con possibile lettura delle mail e attraverso un dispositivo di chat interna che deve essere sempre lasciato attivo, per poter essere continuamente contattati.
Ai lavoratori intervistati è stato chiesto di indicare quali dispositivi ritenessero fossero specificamente utilizzati per controllare le loro prestazioni sul lavoro. Il 71,4% dei magazzinieri ha risposto di sentirsi controllato dagli scanner portatili; l’88,7% degli autisti ha fatto riferimento alle app aziendali, che assegnano un punteggio alle consegne e al tempo di viaggio; il 55,3% degli impiegati si sente controllato dai software di tracciamento delle attività, in quanto questi ne controllano i tempi di inattività.
I dispositivi consentono alla società di monitorare costantemente la produttività di ogni singolo lavoratore, mettendo costante pressione per il mancato rispetto degli obiettivi, aggiungendovi logiche stressogene. Due esempi potranno essere utili per comprendere meglio ciò che s’intende: per gli autisti, nel caso di consegne vicine tra loro, i dispositivi a bordo del furgone accorpano tali consegne facendole risultare come fossero una sola, costringendo l’autista a doverne fare altre per raggiungere i suoi obiettivi giornalieri. Nel caso dei magazzinieri, invece, i tempi di pausa previsti sono solo formalmente di venti minuti ma, essendo calcolati dal momento in cui si effettua l’ultima scansione del prodotto, questo va a danno del lavoratore, perché non contempla il tempo necessario per raggiungere ad esempio il bagno o la sala pausa, così da erodere i minuti necessari per uscire dal magazzino. Un magazziniere italiano riferisce perfino di una telecamera installata davanti alla porta del bagno, con l’obiettivo – a parere di chi scrive – sia di controllare le entrate e le uscite, ma anche i minuti di permanenza.
Gli impatti di questo controllo così pervasivo e ficcante sulla salute psico-fisica dei lavoratori sono molto pesanti, con alti tassi di infortuni e lavoratori costretti a ritmi disumani, per raggiungere obiettivi che non considerano fattori come l’età (si pretendono gli stessi ritmi di lavoro da un sessantenne o da un ventenne), le possibili patologie individuali (nel report si cita il caso di un lavoratore britannico che, operato ai polsi per gli sforzi compiuti sul lavoro, ritornato in magazzino, è stato sottoposto a ulteriori sforzi, al punto di doversi operare nuovamente con una situazione clinica più grave della precedente) o situazioni personali (è il caso di un magazziniere statunitense recatosi al lavoro il giorno dopo la morte del figlio e segnalato per mancato rispetto degli standard, senza tener conto dello stress legato al grave lutto).
Proprio per questo, il ricambio di lavoratori all’interno di questa società è molto alto e, stando ai dati contenuti nel report, il 46,2% degli ex lavoratori di “Amazon” ritiene che gli alti tassi di produttività richiesti, praticamente irraggiungibili e quindi demotivanti, siano una delle cause per cui non lavorano più in quella società. In un contesto simile, i lavoratori sono trasformati essi stessi in una merce da usare, gettar via e cambiare con una nuova, in un ciclo continuo. Questo sistema è ben chiaro agli intervistati, che nel descriverne gli effetti sulla propria salute mentale dichiarano di sentirsi “stressati”, “ansiosi”, ovvero di sentirsi trattati “come un robot”, “come un numero”, “come uno schiavo”.
Tutto ciò è il frutto di una precisa scelta aziendale: l’aver affidato completamente il monitoraggio della produttività agli algoritmi, impostati per non ammettere eccezioni di alcun tipo. Vittime di questo sistema, peraltro, sono gli stessi responsabili di magazzino, che si sono dichiarati frustrati e impotenti “di fronte a sistemi disumani di cui si sentono obbligati a eseguire le istruzioni” [2]. D’altra parte, essi sono al tempo stesso “carnefici” degli altri lavoratori e – come riporta un responsabile in un’intervista – sono obbligati a intervenire sulla base dei report generati automaticamente dal sistema informatico dell’azienda.
Il clima disumano e di paura che si crea (richiamato in una lettera di Jeff Bezos agli azionisti, ripresa nel report[3]) produce effetti di cui è solo l’azienda con i suoi azionisti a giovarsi, non certo i lavoratori. È tuttavia molto importante che simili report siano realizzati e diffusi in tutto il mondo, per far prendere coscienza ai cittadini consumatori della disumanità del modello organizzativo di aziende come “Amazon” che, al di là delle pubblicità patinate, badano molto più ai propri profitti che al ben-essere di chi quei profitti permette di ottenere.
Il vantaggio su cui spesso si fa leva sul consumatore per invogliarlo all’acquisto è il risparmio: sarebbe utile ricordarsi che un prodotto troppo scontato, troppo conveniente, quasi regalato, molto spesso nasconde storie di sfruttamento lavorativo di cui è importante prendere coscienza, per effettuare scelte consapevoli che vadano nella direzione del rispetto dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente, elementi molto spesso legati tra loro.
[1] “Life in the Amazon panopticon: an international survey of Amazon workers”, disponibile online in sette lingue, tra cui anche l’italiano. Il rapporto si può scaricare al seguente indirizzo: https://uniglobalunion.org/report/amazon-panopticon-survey
[2] Cfr. pag. 22 del report.
[3] “Ricordo costantemente ai nostri dipendenti di avere paura, di svegliarsi ogni mattina terrorizzati”, questo il pezzo della lettera di Bezos agli azionisti nel 1998, disponibile sul report.
[*] Presidente della Fondazione Prof. Massimo D’Antona Onlus
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