Il diritto delle imprese in crisi [1] nasce sul piano economico dai problemi connessi all’azione collettiva. Invero, nel caso di insolvenza del debitore, l’azione disordinata e diversa dei molteplici creditori al fine di aggredire i beni del debitore, ingenera un depauperamento del suo patrimonio, con la conseguenza inevitabile di penalizzare i creditori che hanno minori capacità di monitoraggio circa i beni da aggredire e minore capacità di autotutela[2].
Scopo delle procedure fallimentari è quindi quello di selezionare e ordinare i vari interessi coinvolti e contrapposti nella crisi d’impresa ed assicurare che la liquidazione avvenga in modo ordinato attraverso una procedura collettiva che coordini le singole rivendicazioni dei creditori, imponendo un criterio di distribuzione proporzionale all’entità della pretesa. Una regola uguale in tutti i diritti d’impresa al mondo, è una regola aurea che veniva già garantita dalla legge fallimentare, è il divieto di azione esecutiva individuale. Nell’ordinamento italiano e sulla base dell’attuale normativa, il primo interesse da esaminare e prendere in considerazione nell’ambito della procedura fallimentare è, l’interesse dei creditori accanto al quale si pone quello del debitore ad ottenere, tramite una procedura di composizione della crisi, la liberazione dai propri debiti pregressi ed il cd. fresh start [3].
La coabitazione dei diversi interessi tutelati è la ratio sottesa ad alcune norme che potrebbero apparire prive di giustificazione (es. natura volontaria di alcune procedure, assenza di una fase di approvazione da parte dei creditori nella procedura del “piano del consumatore” etc.). Su questo scenario nasce il “Codice della crisi e dell’insolvenza” (nel seguito, per brevità, “c.c.i.i.”) attuato con il d.lgs. 12 gennaio 2019 n. 14 e le cui norme dovevano entrare in vigore decorsi diciotto mesi dalla pubblicazione, avvenuta il 14 febbraio 2019, quindi ad agosto 2020. Invece, il Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza, sebbene giovane, ha subito numerosi interventi legislativi che ne hanno ritardato la sua entrata in vigore, infatti, successivamente fissata per il 15 agosto 2020 (salvo alcune norme già entrate in vigore il 16/03/2020, in genere quelle che hanno modificato le norme del Codice civile) è slittata al 15/07/2022. Lo slittamento causato dall’emergenza pandemica ha, tuttavia, consentito di adeguare il Codice alla cd. Direttiva Europea Insolvency (già prorogata di un anno e scadente il 17 luglio 2022).
Il legislatore del Codice della Crisi presta attenzione da un lato alle ragioni dei creditori dall’altro all’interesse alla salvaguardia delle risorse delle imprese; pertanto, le procedure concorsuali pur rappresentando ancor oggi un tentativo di regolamentazione delle varie situazioni di crisi d’impresa, cercano di operare un giusto equilibrio tra le ragioni creditorie e la sopravvivenza delle imprese, che si ritiene ormai indispensabile preservare, piuttosto che dissolvere o liquidare. In altri termini, non operano necessariamente come fattispecie estintive di essa. Cambia quindi l’ottica del legislatore della nuova disciplina; infatti, mentre il legislatore del 1942 (r. d. 16 marzo 1942 n. 267 legge fallimentare) sposa una concezione pubblicistica[4] delle procedure concorsuali essendo prioritario da un lato tutelare i creditori dall’altro preservare, per quanto possibile, l’impresa.
Diverso è l’atteggiamento, dinanzi al fenomeno della crisi di impresa, del legislatore del 2019 fino al punto di considerare il trasferimento dell’azienda in crisi o insolvente lo strumento più efficace di risoluzione totale o parziale, della crisi medesima. Non è insolito assistere, infatti, a fenomeni di ripresa delle aziende in crisi attraverso processi di ristrutturazione, riorganizzazione o conversione al fine di ritrovare i necessari equilibri gestionali i cd. “adeguati assetti” ex art. 2086 c.c., e, una volta ripresi, attraverso strategie di interventi tempestivi ed efficaci, diventano oggetto di una vicenda circolatoria al fine di permettere il mantenimento di una organizzazione imprenditoriale e la salvaguardia dei livelli occupazionali. Ebbene, in quest’ottica si è mosso il legislatore della riforma, consentendo alle imprese realmente sane, ancorché afflitte da crisi temporanee, di trovare nuovamente il necessario equilibrio, eliminando, a contrario, quelle che sono destinate a rimanere insensibili a qualsiasi procedimento di virtualizzazione che fosse operato, quelle che rimanendo sul mercato potrebbero “contagiare” le altre imprese sane.
Si può osservare che il legislatore del CCII ha fatte proprie le indicazioni dei “principi e criteri direttivi generali” già indicate dalla Commissione istituita per il riordino delle procedure concorsuali[5] e cioè l’eliminazione del termine “fallimento”
di cui è stata proposta la sostituzione con “insolvenza o liquidazione giudiziale”;
con l’introduzione di una specifica definizione della “crisi”
– distinta dall’insolvenza.
Chiaramente prima dell’attuale modifica normativa, dal 1942 al 2016 ci sono state una serie di riforme che hanno in parte rivisitato l’impianto normativo della legge fallimentare.
Ed invero, l’impulso decisivo in direzione della riforma della legge fallimentare, fu dato per un verso dall’influenza dei modelli normativi stranieri e dall’altro, dalla riforma del diritto societario intervenuta tra il 2002-2003, con l’esigenza di “riallineamento” dei due corpi legislativi. In base poi alla legge n. 80/2005 fu ulteriormente conferita delega al Governo per una riforma più vasta della normativa concorsuale. Ebbene, in attuazione di tale delega è stato emanato il D. Lgs. 9 gennaio 2006 n. 5 con cui sono state apportate modifiche alla disciplina in vigore (r. d. 16 marzo 1942 n. 267) al fine di velocizzare e rendere più efficiente l’intera procedura del dissesto.
In estrema sintesi, i tratti più significativi degli interventi di riforma succedutosi fino al 2016 che preludono poi la grande riforma del 2017 n. 155 (legge-delega), sono da annoverare in: venir meno dell’impostazione marcatamente sanzionatoria ed afflittiva del fallimento; attenuazione degli effetti negativi, destinati ad operare sulla persona dell’imprenditore insolvente, e, la circostanza che il fallito, nel concorso di determinati presupposti, possa beneficiare dell’esdebitazione, affrancandosi definitivamente dal peso dei debiti pregressi (compresi quelli di natura tributaria) con la possibilità di ripartire da zero ( di qui l’espressione “fresh start” adoperata in tali ipotesi) e riprendere, sulla falsariga dei modelli anglosassoni, senza subire il condizionamento delle preesistenti passività.
Si può osservare come la nuova disciplina si connoti per un netto “favor” nei confronti delle soluzioni concordate delle crisi d’impresa. Si abbandona la logica meramente liquidatoria della legge fallimentare del 1942, subentrando ad essa quella di conservazione dell’attività anche attraverso l’affitto d’azienda [6] e la vendita in blocco dei complessi aziendali.
Da una lettura del CCII si può notare che il testo si apre con l’indicazione dei soggetti
verso cui può essere applicato; invero, l’art. 1 fornisce una definizione di debitore
nelle disposizioni generali (artt.1-11) molto ampia essendo tale: il consumatore
[7], il professionista
[8], l’imprenditore che eserciti, anche senza fine di lucro, un’attività commerciale, artigiana, agricola. Non si applica, per espresso dictum normativo, solo allo Stato e agli Enti Pubblici. Tuttavia, la norma non fa sorgere dubbi sull’applicabilità delle disposizioni del CCII alle società pubbliche[9] intendendo per tali: le società a controllo pubblico, le società a partecipazione pubblica e le società in house. Tale disposizione, del resto, si pone in sintonia con l’anticipata previsione dell’art. 14 del T.U.S.P. (D. Lgs. 175/2016). Il Codice della crisi ha quindi riorganizzato le procedure concorsuali, includendo in un unico corpo normativo, anche le procedure dedicate agli imprenditori non fallibili,
le cd. procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, disciplinate dalla Legge 3/2012. Esclusa dalla riforma è la procedura di amministrazione straordinaria
che continua ad essere disciplinata dal D. Lgs. 270/1999. La riforma del Codice della crisi ha modificato anche il capo IV del regio decreto del 1942 dedicandolo alle fattispecie di reato commesse nella procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento.
Viceversa, il capo V che disciplina i profili processuali della materia, alcuna modifica è stata apportata dalla riforma in esame.
Il Codice della crisi si compone di 391 articoli e segue una tecnica per così dire ascendente in quanto la disciplina degli strumenti di regolazione della crisi che assicurino una continuità all’impresa in crisi vengono collocati prima e poi solo infine si rinviene la disciplina la liquidazione giudiziale. Anche la struttura è espressione della volontà del legislatore di considerare la liquidazione giudiziale come ultima ratio e ciò diversamente dalla vecchia legge fallimentare che disciplinava prima il fallimento e poi le altre procedure meno rigorose.
Definita la categoria dei debitori, il testo non affronta la nozione di debitore in senso stretto ma quella di crisi, insolvenza e sovraindebitamento definiti come stati in cui il soggetto che viene a trovarsi acquisisce la qualifica di debitore. Nell’ambito delle disposizioni generali e, precisamente, nell’art. 2 poi il legislatore da una serie di definizioni tra cui ad es. quella di crisi identificata nello stato antecedente all’insolvenza, in cui il soggetto non ha ancora iniziato a non far fronte ai propri impegni, ma è “probabile” che non onorerà i debiti nei prossimi 12 mesi. Testualmente viene definita come “l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi 12 mesi”. Questa definizione è stata modificata proprio dalla novella di luglio (D.lgs. 83/2022) eliminando il preesistente riferimento allo squilibrio finanziario e introducendo un arco temporale (non presente nell’originario testo) di 12 mesi. Viceversa, non subisce modifiche il concetto di insolvenza rimanendo ancorato all’inadempimento. Invero l’insolvenza si identifica “nello stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni.”
Il ruolo dello Stato nella gestione delle situazioni di crisi si presenta in genere ambivalente. Invero, oltre alla funzione di arbitro e regolatore,
funzione demandata al potere legislativo, l’altra è quella di arbitro/stabilizzatore
nella gestione delle risorse pubbliche, sia direttamente sia attraverso l’ampio sistema delle partecipazioni statali. Certamente in periodi di crisi congiunturale si è assistito ad un più ampio intervento dello Stato nell’economia fino ad arrivare ad una revisione delle regole vigenti, con incentivo a sistemi proiettati verso la conservazione dell’impresa e al suo risanamento. L’insieme di norme con cui si regola la gestione delle crisi va sotto il nome di procedure concorsuali che per gestire l’atavica asimmetria esistente tra una pluralità di creditori e il singolo debitore, prescrive il principio fondamentale della par condicio creditorum. Nella quasi totalità degli ordinamenti è previsto un sistema di gestione della crisi e dell’insolvenza ed inevitabilmente ogni sistema stabilisce una gerarchia di soddisfacimento per contemperare le diverse esigenze degli stakeholder coinvolti. Si può dire, quindi, che le procedure concorsuali sono finalizzate a: regolamentare il diritto dei creditori ad ottenere il rimborso dei loro crediti; a regolamentare l’interesse di molti stakeholder alla continuazione dell’impresa; a tutelare l’interesse della collettività a una corretta allocazione delle risorse con il risanamento delle imprese “risanabili” e l’eliminazione delle altre; ad assicurare l’economicità della gestione della crisi; ad evitare i comportamenti opportunistici degli azionisti di maggioranza o del top management a danno dei creditori e delle minoranze; ad incentivare i comportamenti virtuosi. A tutti questi principi si è ispirato il legislatore del Codice della crisi e dell’insolvenza.
[1] Il diritto fallimentare che oggi chiamiamo diritto delle imprese in crisi era una materia insegnata dai professori di diritto processuale civile. Quello che in molti paesi già veniva percepito un secolo fa come un “diritto commerciale” legato ad una fase particolare dell’impresa, per molti anni nel nostro ordinamento fu etichettato come “diritto dell’esecuzione collettiva”; ciò significava che, accanto al pignoramento, all’espropriazione, c’era una forma di esecuzione collettiva, cioè fatta da più creditori.
[2] I creditori chirografari (sono tali i creditori che non hanno niente, solo la carta, il cui credito non è assistito da cause legittime di prelazione, il termine chirografario deriva, dal greco “cheirógraphon”, che significa manoscritto), avrebbero, ad esempio l’interesse a trovare un accordo a non ingaggiare una gara tra loro, ma in virtù del loro numero e del fatto che essi diventano creditori in momenti successivi, sono indotti ad anticiparsi a vicenda. In tal senso Santella P., “Alcune considerazioni su soluzioni alternative in materia di fallimento”, in Riv. Dir. comm. E del dir. gen. dell’obblig., 2002, II, 383.
[3] Stanghellini L., “Fresh Start”: implicazioni di «policy», in Anal. Giur. ec., 2004, 443.
[4] Essa si contrappone alla tradizionale concezione privatistica delle procedure concorsuali. I vantaggi della gestione privatistica possono annoverarsi in: 1. Elasticità e adattabilità al caso; 2. Scarsa efficacia delle procedure pubbliche; 3. Il contratto vincola solo le parti; 4. Non c’è il blocco delle azioni esecutive e cautelari sul patrimonio del debitore; 5. Minor impatto sulla credibilità dell’impresa.
[5] Con decreto del Ministero della Giustizia del 24 febbraio 2015, è stata istituita la Commissione per il riordino delle procedure concorsuali. Compito primario della Commissione era: analizzare il complesso delle disposizioni normative in tema di procedure concorsuali e crisi d’impresa, valutare la necessità di ulteriori eventuali interventi di riordino, sintonia con l’esigenza di semplificazione dei procedimenti, in accordo con la disciplina del processo civile telematico (PCT).
[6] Recentemente la Corte di Cassazione con ordinanza n. 32280/’22 è intervenuta in tema d’affitto dell’azienda a terzi ed afferma che l’affitto di azienda non è qualificabile come volontà dell’imprenditore di essere in liquidazione ma anzi integra un atto di gestione della società mediante “un utilizzo indiretto” dei propri beni strumentali per il periodo di vigenza del contratto.
[7] Si pensi, ad esempio, ad un proprietario che viva con le rendite dei suoi beni e un incidente danneggi i beni di sua proprietà.
[8] Ad es. un avvocato che viva con i ricavi della sua professione può trovarsi per le più svariate circostanze, nell’impossibilità attuale o probabile, in futuro, di far fronte alle sue obbligazioni; una malattia che paralizzi l’attività professionale, un tenore di vita eccedente le possibilità, possono determinare creare le premesse perché si determini, anche in chi non è imprenditore, un’incapacità di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni, una situazione di insolvenza o almeno di crisi.
[9] La circostanza che il legislatore della riforma del diritto della crisi d’impresa abbia considerato il fenomeno dell’azionariato di Stato o in genere delle PP.AA. in enti di tipo societario non può che essere accolta con favore atteso il silenzio in proposito del regio decreto.
[*] Docente Coni Campania e cultore della materia in economia aziendale presso l’Università degli Studi di Napoli Parthenope. Funzionario Ispettivo dell'Ispettorato Nazionale del Lavoro, in servizio presso la Sede dell'ITL di Napoli. Le considerazioni contenute nel presente articolo sono frutto esclusivo del pensiero dell’autrice e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.
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