Anno XI - n° 57

Rivista on-Line della Fondazione Prof. Massimo D'Antona

Maggio/Giugno 2023

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Anno XI - n° 57

Maggio/Giugno 2023

Il dibattito sull'orario di lavoro

Il peso degli orari: flessibilità tra richieste aziendali ed esigenze di conciliazione


di Valentina Menegatti e Francesca della Ratta  [*]

Menegatti Della Ratta 57

Nel dibattito sugli elementi che rendono più o meno appetibile un posto di lavoro (Orioli, Bottino, 2023) gli orari e la possibilità di adattarli alla vita personale di lavoratrici e lavoratori assumono un ruolo sempre più centrale. Una fotografia molto interessante, seppur riferita alla fase pre-pandemica, è stata scattata da Eurostat nel 2019 attraverso un modulo ad hoc inserito nella rilevazione sulle forze di lavoro (Eurostat 2020) che ha mostrato come il mercato del lavoro italiano si caratterizzasse per una situazione di maggiore rigidità, insieme alle minori opportunità di flessibilità diffuse in generale tra le donne (fig. 1).


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Il 76,3% delle occupate italiane (e il 67,6% degli uomini) dichiarava di avere un orario di ingresso e uscita dal lavoro rigidamente determinato dal datore di lavoro (nella media Ue27 rispettivamente il 56,6 e il 62,3%) mentre soltanto il 12% delle occupate contava sulla massima autonomia (19,3% tra gli uomini). Poco più di una donna occupata su dieci affermava di poter adattare l’orario alle proprie esigenze seppur con alcune restrizioni, una condizione che in Europa riguardava circa il 20% degli occupati, senza differenze di rilievo tra dipendenti e indipendenti e uomini e donne. In generale, a godere di maggiore flessibilità risultavano le persone con titolo di studio elevato, occupate in professioni qualificate, e, tra i dipendenti gli occupati a tempo indeterminato. Tra i settori con maggiore flessibilità le attività finanziarie e assicurative e l’informazione e comunicazione.

Tuttavia, mentre nei dati europei le differenze tra uomini e donne all’interno delle categorie con maggiore flessibilità erano meno marcate, le donne italiane presentavano margini di flessibilità più ristretti rispetto agli uomini, anche a parità di condizioni (titolo di studio e professione svolta), probabilmente anche per via della segregazione occupazionale cui sono esposte (Cardinali, 2022).

La maggiore rigidità degli orari di ingresso e uscita sembra compensata, nei dati italiani, da una minore difficoltà nel prendere ore di permesso o giorni di ferie con poco preavviso: il 35,1% delle occupate europee valutava difficile prendere permessi a fronte del 27,8% delle italiane, e il 46,2% delle europee reputava difficile prendere giorni di ferie senza preavviso a fronte del 44,2% tra le italiane.

Anche in questo caso titoli di studio elevati e maggiore qualificazione risultano associati alla maggiore facilità nel disporre di ore o giorni per la propria vita personale. Tuttavia, mentre tra gli uomini (sia italiani che europei) la quota di quanti dichiaravano di avere difficoltà a prendere permessi diminuiva tra i laureati, tra le donne, sia in Italia che in Europa il titolo di studio elevato non favoriva l’abbattimento delle difficoltà nella fruizione della flessibilità; anzi in Italia la quota di laureate che dichiaravano difficile o molto difficile prendere permessi o giorni senza preavviso era addirittura superiore al dato medio (28,4% rispetto al 27,8% per i permessi e 46,7% rispetto a 44,2% per i giorni di ferie), probabilmente anche in ragione del peso maggiore di alcune professioni che prevedono maggiore rigidità (come nel caso delle insegnanti).

D’altro canto, gli uomini hanno dichiarato più spesso di dover rispondere alle richieste di flessibilità dei datori di lavoro, adattando i propri orari a improvvise richieste aziendali o rendendosi disponibili a essere contattati fuori orario. La necessità di adattare gli orari alle esigenze di lavoro almeno una volta a settimana ha coinvolto nel 2019 quasi la metà (49,3%) degli autonomi e poco più di un quinto dei dipendenti italiani (il 40,3% e il 18,3 tra gli europei) a fronte del 38,9% delle indipendenti e 18% delle dipendenti italiane (33,4 e 14,7% tra le europee). A maggiori responsabilità corrispondono maggiori richieste di flessibilità oraria: la quota di quanti hanno dichiarato di aver adattato gli orari era più elevata tra i più istruiti, al crescere delle dimensioni aziendali, e tra le professioni qualificate. Inoltre tra gli uomini (specie in Italia) al crescere dell’età aumentava la frequenza con cui è necessario adattare gli orari ai carichi di lavoro, mentre tra le donne italiane erano le giovani tra 15 e 34 anni ad aver ricevuto maggiori richieste in tal senso, suggerendo che mentre per gli uomini la richiesta di flessibilità oraria va di pari passo con maggiori responsabilità, tra e donne questa richiesta dipende soprattutto dalle condizioni contrattuali (le donne giovani sono più spesso occupate con contratti precari).

Gli uomini hanno inoltre dichiarato più spesso delle donne di essere stati contattati per motivi di lavoro al di fuori dell’orario di lavoro. Anche in questo caso sono soprattutto i lavoratori indipendenti a essere soggetti alle intrusioni del lavoro nella vita privata, mentre tra i dipendenti, il contatto al di fuori dell’orario era una pratica più diffusa nella media europea. Come per le richieste di flessibilità oraria, anche il contatto fuori dall’orario di lavoro era più frequente tra i più istruiti e le professioni qualificate. Servizi alle imprese, attività scientifiche e professionali e informazione e comunicazione i comparti con maggiori richieste di contatto fuori orario, senza differenze di rilievo per genere e paese.

Nel complesso, la disparità a sfavore degli uomini in termini di intrusività del lavoro nella vita privata, oltre che dipendere dalle differenze nello status occupazionale e dalla composizione dell’occupazione può essere interpretata anche come maggiore disponibilità (o possibilità) a investire nella sfera lavorativa, evidenziando un’ulteriore sfumatura delle differenze di genere del nostro mercato del lavoro. I dati del 2019 restituiscono pertanto un quadro di maggiore rigidità dell’orario di lavoro in Italia, in cui soprattutto le donne devono confrontarsi con un’organizzazione del lavoro rigida, a fronte di maggiori intrusioni del lavoro nella vita privata tra gli uomini.

Gli stravolgimenti intervenuti a seguito della pandemia hanno probabilmente modificato in parte la situazione, grazie soprattutto alla diffusione del lavoro da remoto (Istat, 2020), che ha visto un incremento notevole proprio tra gli occupati che avevano maggiori rigidità oraria, le donne e i dipendenti (tab. 1). Tuttavia, nel 2022 le quote dei dipendenti coinvolti nel lavoro da remoto nel nostro Paese (9,4% uomini e 12,3% donne) continuano a essere inferiori a quelle della media europea (rispettivamente 18,9 e 21,1%), con una tendenza alla riduzione rispetto al 2021.


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Una variabile che è necessario considerare nell’analisi della flessibilità oraria in ottica di genere è naturalmente la quota di part time, una forma di lavoro scelta specialmente dalle donne, sia in Europa che in Italia, con tutte le conseguenze sui salari e le carriere delle donne, come sottolineato recentemente anche dalla Banca d’Italia (2023). Nel 2022 l’incidenza di donne in part time è superiore a quella degli uomini di poco meno di 20 punti percentuali in Europa e di circa 24 in Italia (fig. 2).


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In Italia, tuttavia, assume un peso rilevante anche il fenomeno del part time involontario, che riguarda oltre i due terzi e poco più della metà di uomini e donne in part time (anche se in valore assoluto le part timers involontarie donne sono più numerose). Nella media europea il fenomeno è più contenuto e riguarda rispettivamente il 22,8% e il 18,5% di uomini e donne con contratto part time.

Quando la flessibilità è richiesta dal datore di lavoro può essere necessario lavorare in orari antisociali, particolarmente onerosi soprattutto per chi deve far fronte a carichi di cura (Sabbadini et al, 2015). Proprio in considerazione di tali aspetti sono generalmente previste norme specifiche volte a tutelare i lavoratori sia dal punto di vista dei riposi che della retribuzione[1]. In linea con quanto si riscontra a livello europeo, in Italia sono gli uomini a svolgere più spesso orari antisociali, con l’eccezione del lavoro domenicale che coinvolge in pari misura i due generi (fig. 3). Il sabato è la giornata con quote più elevate di lavoratori (45,0%, di cui 34,8% abitualmente) e di lavoratrici (40,4, di cui 33,5% abitualmente); poco più di un quinto degli uomini e il 16,7% delle donne lavora di sera (cui rispettivamente il 13,4% e 10,5% abitualmente).

Sia tra le donne sia tra gli uomini sono i più giovani (15-39 anni) ad essere occupati più spesso in orari antisociali,; inoltre, mentre i dipendenti sono più spesso interessati dal lavoro notturno, gli autonomi sono coinvolti nel lavoro nel fine settimana: il 61,9% e il 58,4% di autonomi e autonome lavorano al sabato a fronte del 39,1 e 37% di uomini e donne con un contratto alle dipendenze.


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Per concludere il quadro sulla flessibilità degli orari e la loro influenza sul benessere di lavoratori e lavoratrici è utile utilizzare i dati dell’indagine Inapp sulla qualità del lavoro riferiti al 2021[2] (Canal et al 2023), che forniscono alcuni dati più aggiornati sulla flessibilità oraria, specie in riferimento ai dipendenti. Nonostante il lavoro da remoto, quasi la metà delle dipendenti e il 43,7% dei dipendenti dichiara di non poter contare su alcuna forma di flessibilità. Nei dati dell’indagine, oltre sette dipendenti su 10 dichiarano di avere orari rigidamente determinati dai datori di lavoro, con minime differenze di genere, una situazione non troppo diversa da quella registrata nel 2019 da Eurostat. Riguardo i permessi la metà dei dipendenti e il 45,2% delle dipendenti dichiara di poter prendere facilmente permessi con breve preavviso, mentre la quota di quanti escludono di poterne fruire si attesta nel complesso attorno all’8%. La pervasività del lavoro si conferma leggermente più accentuata tra gli uomini: il 18% dei dipendenti e il 16,8% delle dipendenti dichiara di trovarsi spesso a lavorare fuori orario.

La possibilità di fruire della flessibilità oraria condiziona fortemente la soddisfazione verso il lavoro, , così come influenza positivamente la percezione sul work life balance (fig. 4). In particolare, tra le donne emerge una quota più elevata di dipendenti che assegnano punteggi elevati (9 o 10) alla possibilità di conciliare vita e lavoro rispetto agli uomini, probabilmente in ragione della quota più elevata di dipendenti in part time, tra cui la soddisfazione per il work-life balance è più elevata (tra le dipendenti i punteggi elevati riguardano il 30,7 delle part timers volontarie e il 21,9% delle part timers involontarie, rispetto al 14,6% di chi lavora a tempo pieno).


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I dati fin qui analizzati mostrano la necessità di garantire un maggiore equilibrio tra tempi di vita e di lavoro, favorendo le misure di conciliazione, anche attraverso strumenti come il lavoro da remoto o la settimana corta.

Tali interventi sembrano necessari sia per aumentare la quota di occupazione femminile del nostro Paese, che si attesta come noto su livelli decisamente più bassi della media europea, sia per superare quella che sembra una polarizzazione crescente tra gruppi di lavoratrici e lavoratrici che, in funzione di più elevati livelli di qualificazione possono contare su forme di flessibilità e conciliazione che favoriscono il benessere individuale cui invece larghi gruppi di occupati non hanno avere accesso. Quadrato Rosso

Note

[1] Si veda in proposito il commento alla decisione del Tribunale di Bologna Sez. Lav. 31.12.2021 n. 862 R.G., di S. Scarponi (2022) “Discriminazione e cura genitoriale: la modifica dell’orario imposta dal datore di lavoro è rilevante?”, in Italian Equality Network, 4 maggio 2022, in cui In linea con l’orientamento della giurisprudenza sovranazionale, si ribadisce il divieto di discriminazione nei confronti dei genitori lavoratori, anche in riferimento alle modifiche apportate all’orario di lavoro quando questo determina uno svantaggio nella cura deli figli.

[2] La quinta Indagine Inapp sulla Qualità del Lavoro in Italia ha coinvolto nel 2021 un campione di 15.000lavoratori e lavoratrici rappresentativi della popolazione occupata. Tramite l’indagine sono rilevate una serie di informazioni che permettono di misurare i principali ambiti della qualità del lavoro.

Riferimenti bibliografici

Banca d’Italia, “Le donne nel mercato del lavoro”, Relazione annuale 2022, Roma, 31 maggio 2023.

Bavaro V. (2009), Tesi sullo statuto giuridico del tempo nel rapporto di lavoro subordinato, in Veneziani B., Bavaro V. (a cura di), Le dimensioni giuridiche dei tempi del lavoro, Bari, Cacucci.

Bellomo S., Maresca M. (a cura di), (2022), Tempi di lavoro e di riposo. Leggi nazionali, norme europee e interventi della Corte di Giustizia, Editricesapienza.it.

Canal T., Gualtieri V., Luppi M. (2023), Le determinanti di un buon lavoro durante l’emergenza sanitaria, INAPP Working Paper n. 97.

Cardinali V. (2022), PNRR. “Condizionalità all'occupazione di giovani e donne: azione positiva o azione mancata?”, INAPP Working Paper, n. 92.

della Ratta-Rinaldi F., Luppi M. (2023), “Part time inflessibili”, Ingenere, marzo 2023.

della Ratta-Rinaldi F., Luppi M., Menegatti V. (2022), “La flessibilità degli orari di lavoro tra richieste aziendali e esigenze di conciliazione: un confronto con l’Europa”, in: Esposito M. (a cura di), Gender policies report 2022, Cap. 2, Roma, Inapp.

Eurostat (2020), EU Labour Force Survey ad hoc module 2019 on work organisation and working time arrangements, Luxembourg: Publications Office of the European Union.

In Genere 2009, La flessibilità dell’orario di lavoro e l’uguaglianza di genere, 11/2009.

Istat, (2020), “L'organizzazione del lavoro in Italia: orari, luoghi, grado di autonomia”. Statistiche focus, 29 settembre.

L.L. Sabbadini, R. Fraboni, S. Demofonti (a cura di) (2015), Come cambia la vita delle donne. 2004-2014, Roma, Istat.

Orioli A., Bottino A. (2023), Il lavoro del lavoro. Il sole 24 ore. Roma.

[* ] Ricercatrici INAPP, Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche. Le opinioni delle autrici sono espresse a titolo personale e non impegnano l’istituto di appartenenza.

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