Effemeridi • Pillole di satira e costume
Nel nostro Paese il calo demografico è un problema ormai annoso e sempre più preoccupante. Né a parer mio le misure economiche e sociali di sostegno, adottate o previste dalla politica, possono bloccare o invertire tale tendenza, ma solo, nel migliore dei casi, rallentarla. Ciò perché tale fenomeno non ha implicazioni solo di carattere economico; investe, infatti, anche la sfera culturale delle generazioni che si sono succedute negli ultimi decenni.
Un tempo le donne, prive di ogni diritto, erano le principali vittime sacrificali per lo sviluppo demografico. Nella società contadina, ancora nella prima metà del secolo scorso, contavano meno che zero e avevano solo doveri da adempiere come quelli di fare figli (da cinque a dieci e in qualche caso anche oltre), accudirli e svolgere i lavori più pesanti e degradanti nell’ambito familiare. Oggi, fortunatamente, il genere femminile ha conquistato dignità e parità di diritti ed è inserito in massa nel mondo del lavoro, anche se non ancora con le stesse percentuali degli uomini. Ha, quindi, meno tempo da dedicare alla gestione domestica che sempre più spesso condivide col marito o compagno. Mettere al mondo dei figli, gestirli ed educarli come si deve, rappresenta, dunque, uno sforzo notevole che si unisce a quello lavorativo e al desiderio sempre più sentito di ampi spazi di libertà.
Anche se ci fossero da noi le strutture di supporto create nei paesi dell’Europa del nord, rimane sempre un ampio spazio della giornata, quella oltretutto in cui la stanchezza è prevalente, in cui i genitori devono cavarsela da soli. E la doppia faticosità, lavoro e gestione familiare, per le coppie odierne influisce negativamente sul desiderio della procreazione. È, d’altra parte, un fenomeno generalizzato, un poco ovunque nelle società evolute. Un figlio a coppia, da noi anche meno, è la norma cosicché l’estinzione di una comunità nel lungo periodo è assicurata. Per invertire la tendenza, dunque, non c’è altra soluzione che l’immissione di sangue giovane rappresentato dagli emigranti che lasciano i loro paesi in cerca di condizioni migliori, come si fa con l’innesto di un virgulto fresco in un vecchio tronco per creare nuova linfa vitale, Un’accoglienza, naturalmente, controllata e programmata per evitare un’invasione che, come un’alluvione, distruggerebbe tutto e tutti. Ci sono tutte le condizioni nel nostro Paese per realizzare un tale progetto con un investimento neanche eccessivamente costoso perché alcuni elementi di base sono già in larga parte disponibili.
Lo scorso anno ho fatto un giro nella mia regione d’origine, il Molise, dopo un’assenza di oltre mezzo secolo, e ho visitato decine di centri abitati delle zone interne. Paesi che prima della grande emigrazione del secolo scorso avevano migliaia di abitanti oggi sono ridotti a qualche centinaio di anime quasi tutte in età avanzata. Ho passeggiato per le strade deserte di un centro che ospita poco più di cinquanta residenti, mentre tornando indietro nel tempo, ne ha avuti anche tremila, Ho trovato un unico, modesto negozio di generi alimentari gestito da una signora anziana la cui fonte principale di reddito è la pensione. Null’altro se non un ufficio postale lillipuziano per la riscossione delle pensioni. Lungo il corso principale ho fatto fatica a individuare abitazioni con le finestre aperte e ho avuto una stretta al cuore nel vedere la scuola elementare dove un tempo risuonavano le voci gioiose dei bambini, completamente diroccata. Persino le due chiese, un tempo affollate di fedeli, erano chiuse.
Ho saputo che per la celebrazione della messa c’è un prete che con la sua auto gira nei vari paesi per celebrarla. In tanti centri ridotti in tali condizioni, le attività economiche sono limitate all’essenziale; è praticamente scomparsa anche quella agricola che un tempo la faceva da padrona. Migliaia sono gli immobili abbandonati a se stessi per il decesso dei proprietari e per il disinteresse degli eredi sparsi in varie parti del mondo dove, fuggendo dalla povertà del nostro Paese, hanno fatto fortuna e hanno reso grandi le nazioni ospitanti come gli Stati Uniti, il Canada o l’Australia. Non si vendono perché mancano gli acquirenti né si trova gente disposta a prenderli gratis. E pensare che gran parte di questo immenso patrimonio immobiliare, come ho appurato, è ancora in ottime condizioni. Poi ci sono migliaia, decine di migliaia, di terreni abbandonati per lo stesso motivo che versano in condizioni penose. Ora se si allarga lo sguardo verso un orizzonte più vasto, tale stato desolante è molto diffuso soprattutto nelle regioni meridionali, spopolate per la grande emigrazione dentro e fuori l’Italia nel novecento.
Questa situazione, con i dovuti investimenti e l’adozione di strumenti di cooperazione, potrebbe essere la base per la programmazione di un ripopolamento con famiglie di emigranti, un affare non solo per loro ma anche per il nostro Paese e grazie alla loro prolificità, con una rapida attribuzione della cittadinanza, l’indice delle nascite subirebbe un’inversione di tendenza. Tante comunità riprenderebbero vita, rifiorirebbero i commerci e le attività economiche. Non dobbiamo dimenticare che gli emigranti, per coraggio, capacità e intraprendenza sono sempre la parte migliore del paese di provenienza. Sembra tutto così logico e fattibile che solo una classe politica modesta come quella attuale non riesce a comprendere e realizzare.
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