Il contratto di rete compie quasi tre lustri di vita e, come spesso accade, non sono mancate devianze rispetto alle finalità, indubbiamente meritevoli, che il legislatore aveva posto. Proprio per questo motivo possiamo annoverare il contratto di rete nell’ambito delle esternalizzazioni riferendo l’attenzione sulle forme patologiche che possono investire anche le imprese che aderiscono a questo tipo di contratto.
La disposizione contenuta nell’art. 3 del Decreto Legge 10 febbraio 2009 n. 5, convertito dalla legge 9 aprile 2009 n. 33, è molto eloquente nel dire cosa è il contratto di rete: “... un accordo nel quale più imprese si impegnano a collaborare al fine di accrescere la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato…”. Ecco, questo è il fine economico-sociale del contratto: innovarsi, accedendo alla promozione e allo sviluppo di nuove opportunità tecnologiche; ed essere competitivi, incrementando la capacità concorrenziale nel mercato nazionale ed internazionale. Questa, volendo usare il termine giuridico puntuale, è la “causa” del contratto.
Quindi, una forma aggregativa nuova tra imprese che rende più flessibili alcuni aspetti organizzativi delle loro attività consentendo di perseguire più agevolmente le finalità che il legislatore ha prefigurato.
Dunque, tutto questo facendo “rete”, attraverso la collaborazione che può concretizzarsi in attività di coordinamento, per esempio nei meccanismi di controllo sulla qualità dei beni prodotti, sulla condivisione dei prezzi dei beni o dei servizi prodotti; ma può concretizzarsi anche nella condivisione di attività strumentali, quali la gestione della logistica, del magazzino, laboratori e centri di ricerca comuni, ecc.; e poi ancora la partecipazione ad appalti o gare organizzando una sorta di centrale unica di committenza della rete. E poi ancora, scambiandosi informazioni, prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnologica, esercitare in comune una o più attività.
Il contratto di rete, secondo quanto disposto dalla legge, deve avere dei contenuti obbligatori mentre altri possono essere facoltativi, lasciando alla discrezionalità dei contraenti le valutazioni sulla opportunità di prevederli nel contratto.
Quali sono i contenuti obbligatori.
Intanto, la ragione sociale, il nome, la ditta, di ogni impresa partecipante; la definizione di un programma di rete; gli obiettivi strategici finalizzati alla innovazione e il miglioramento delle capacità competitive; naturalmente la durata del contratto e tutte le modalità con cui poter aderire o uscire dalla rete.
Poi ci sono i contenuti facoltativi, che sono l’organo comune e il fondo patrimoniale comune, che in realtà, una volta inseriti diventano molto importanti e conferiscono alla rete una certa autonomia ed una soggettività giuridica qualora gli imprenditori retisti scelgano in tal senso iscrivendo la rete d’imprese con una propria posizione autonoma nel registro delle imprese (comma quater art. 3 D.L 5/09).
Se si istituisce il fondo patrimoniale, i conferimenti possono essere in denaro o in beni e servizi prevedendo la possibilità di successivi conferimenti economici.
Dunque, quando nel contratto sono previsti il fondo patrimoniale comune e l’organo comune ci sono delle conseguenze in merito all’applicazione degli articoli del codice civile in tema di obbligazioni e relative responsabilità. Intanto diciamo subito che i creditori delle singole imprese non possono aggredire il fondo e per le obbligazioni assunte dall’organo comune la responsabilità patrimoniale è limitata al solo fondo patrimoniale comune a meno che l’organo non abbia agito con eccesso di potere o in conflitto di interessi.
Questo ci porta al regime delle responsabilità nel contratto di rete.
Intanto nei rapporti interni, tra le imprese retiste, quando si verifica l’inadempimento di una impresa sugli obblighi legati al contratto di rete, le altre possono chiedere la risoluzione del contratto con quella impresa e l’eventuale richiesta di risarcimento danni, a meno che l’inadempimento sia pregiudizievole per l’intera rete, allora in questo caso può essere chiesta la risoluzione del contratto di rete.
Per quanto riguarda la responsabilità verso terzi, in questo caso c’è l’organo comune che agisce in forza di un mandato con rappresentanza o anche senza rappresentanza. Quando l’organo stipula un contratto con i terzi e la rete non ha soggettività giuridica – in quanto non si è proceduto ai sensi del citato comma quater art. 3 – tutte le imprese rispondono in solido quando l’oggetto della prestazione non è suscettibile di divisione – esempio l’acquisto di un immobile destinato a laboratorio –; al contrario, quando l’oggetto della prestazione è suscettibile di divisione allora ciascuna impresa risponde per il suo specifico obbligo assunto – esempio, è stato acquistato un immobile diviso in appartamenti –. Tuttavia, in presenza di un fondo patrimoniale comune, il regime di responsabilità verso i terzi andrebbe in altra direzione, posto che la rete integri un autonomo centro d’imputazione di rapporti e di effetti giuridici e, come sopra accennato, quando i retisti iscrivono nel registro delle imprese la rete con una posizione autonoma propria, conferendo così una soggettività giuridica alla rete stessa, in tal caso sarebbe la rete stessa chiamata a rispondere con il proprio fondo patrimoniale per le obbligazioni assunte dall’organo comune che ha agito in nome della rete. Al limite, si può ipotizzare una responsabilità sussidiaria delle imprese, nel senso che i terzi potrebbero far valere i loro diritti sul fondo patrimoniale comune e solo in caso di infruttuosa o insufficiente escussione, sarebbero chiamate a rispondere le imprese aderenti.
Poi abbiamo la responsabilità dell’organo comune, quando questo agisce con eccesso di potere o in una situazione di conflitto di interessi.
Sin qui abbiamo visto sinteticamente cosa è e come si articola il contratto di rete. Ora andiamo a vederlo per ciò che più rileva per l’attività ispettiva, approfondendo due elementi che si prestano ad aggiramenti della legge generando delle criticità che si riversano a danno dei lavoratori. Questi elementi sono la codatorialità e il distacco.
Per quanto riguarda il distacco, sappiamo che affinché questo sia genuino devono ricorrere due presupposti: la temporaneità e l’interesse del distaccante. Ora, nel contratto di rete l’interesse del distaccante sorge automaticamente, cioè è assunto come dato e, pertanto, si configura una latente potenzialità di strumentalizzazione dell’istituto per finalità diverse da quelle indicate dal legislatore e formalmente dedotte in contratto.
L’altro elemento che rileva esaminare per meglio capire le potenziali forme devianti del contratto di rete verso condotte illecite, è la codatorialità, prevista dal comma 4 ter dell’art. 30 D. Lgs. 276/03, a mente del quale “…tra aziende che abbiano sottoscritto un contratto di rete di impresa è ammessa la codatorialità dei dipendenti ingaggiati con regole stabilite attraverso lo stesso contratto...”.
Ciò significa che l’esercizio del potere direttivo, organizzativo, disciplinare e formativo, può essere condiviso dalle imprese che hanno aderito alla codatorialità. Naturalmente tale esercizio è sottoposto a limiti che sono stati puntualizzati da varie circolari ministeriali e dell’INL.
Ma proprio la codatorialità nell’ambito di un contratto di rete, si presta a forme patologiche che sfociano nel fenomeno della interposizione illecita di manodopera.
Cosa può succedere, e di fatto sempre più spesso succede: che sotto le mentite spoglie del contratto di rete si nascondono forme di interposizione illecita di manodopera. Anzi, vi è di più, perché a volte si costituiscono appositamente contratti di rete al solo fine dello scambio o della fornitura di manodopera.
Dunque, sono questi due elementi del contratto di rete che facilitano questa eventuale cattiva pratica: l’interesse del distaccante e la codatorialità: l’interesse del distaccante, come detto, sorge automaticamente. e se è stata prevista la codatorialità, c’è la messa a “fattor comune” dei lavoratori, vale a dire che i lavoratori possono rendere le proprie prestazioni da un’impresa all’altra.
Naturalmente tutto è lecito se i retisti perseguono i fini stabiliti dalla legge e dedotti in contratto, cioè miglioramenti in termini di innovazione di competitività, mettendo in comune risorse strumentali ed organizzative tra cui possono figurare anche lo scambio di manodopera attraverso distacchi e/o messa a fattor comune.
Problemi sorgono quando i fini che i retisti perseguono non sono questi o non sono chiari o a volte è palese che il tutto si riduce ad una mera fornitura di manodopera, come peraltro è emerso in non pochi casi messi in luce dall’attività ispettiva; o ancora peggio quando si alimentano campagne promozionali sui contratti di rete evidenziando i vantaggi che scaturiscono dall’utilizzo del distacco e della codatorialità, con abbattimento dei costi di personale, maggiore flessibilità nella gestione dei rapporti di lavoro, ecc.
Allora cosa fare. A questo riguardo l’INL con la circolare n. 7/2018 ha fornito preziosi chiarimenti ed indicazioni operative al personale ispettivo.
Intanto, la prima cosa da fare è verificare l’esistenza di un contratto di rete tra le imprese coinvolte alla movimentazione di manodopera – distacco o codatorialità – e vedere se lo stesso sia stato registrato nel Registro delle imprese.
Una seconda verifica riguarderà se nel contratto di rete è contemplata la “codatorialità” e su quali lavoratori di ciascuna impresa essa opera; e poi la platea dei lavoratori messi a fattor comune al fine di collaborare agli obiettivi comuni.
I lavoratori sui cui opera la codatorialità devono risultare regolarmente assunti da una delle imprese retiste.
Sia in relazione alla codatorialità che al distacco, il lavoratore ha diritto al trattamento economico e normativo previsto dal contratto collettivo applicato dal datore di lavoro che ha proceduto all’assunzione.
Poi cosa importante, trova applicazione la disposizione contenuta nell’art. 29 comma 2 del D. Lgs. 276/03, tutti i codatori sono responsabili in solido per i trattamenti retributivi e contributivi dei lavoratori interessati al distacco o alla messa a fattor comune.
Infine, assumono rilevanza anche le omissioni contributive che derivano dall’applicazione di un contratto collettivo che non abbia i caratteri della maggiore rappresentatività comparativa sulle cui retribuzioni imponibili devono essere calcolati i contributi.
In conclusione, appalto, distacco ed ora contratto di rete, non genuini, sono tutte forme di fornitura illecita di manodopera che sfociano nella fattispecie di somministrazione abusiva di manodopera. Un fenomeno in espansione che può essere contrastato certamente con maggiori controlli possibilmente mirati, ma resta in piedi il problema culturale, quella forma mentis abituata a cercare le scorciatoie elaborando artifizi giuridici per aggirare le regole di buona e sana condotta.
[*] Responsabile del “Team 12 Vigilanza” dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Roma. Vincitore del Premio Massimo D’Antona 2016. Nel mese di Giugno 2018. Le considerazioni contenute nel presente scritto sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno in alcun modo carattere impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.
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