Il Potere Disciplinare nel pubblico impiego dopo il Decreto Legislativo n.150/2009
di Fabio Martino [*]
In un momento storico caratterizzato da una notevole attenzione mediatica, scientifica e politica verso alcune manifestazioni di “fannullonismo”[1], assenteismo[2] o di vera e propria illegalità all’interno della pubblica amministrazione (non andata di pari passo con una speculare attenzione ad analoghi, e ben diffusi, fenomeni di illegalità nel lavoro privato e nelle libere professioni), la legge delega 4 marzo 2009 n.15 (c.d legge Brunetta) ha fissato, sulla scorta delle critiche mosse dalla dottrina all’attuale regime disciplinare[3] e sulla base di rilevanti interventi della magistratura (ordinaria e contabile, autrice, quest’ultima, di attenti referti sul tema) su punti nevralgici dell’iter punitivo interno, alcune direttive fondamentali che, attraverso il decreto delegato attuativo 27 ottobre 2009 n. 150, hanno inciso sensibilmente sull’attuale assetto normativo in materia.
Il fine ultimo di tale intervento legislativo non è solo repressivo nei confronti dei suddetti fenomeni patologici, ma è costruttivo: esso viene indicato nel primo comma dell’art.7, L.n. 15 come un ordinario mezzo per “potenziare il livello di efficienza degli uffici pubblici contrastando i fenomeni di scarsa produttività ed assenteismo”.
Per perseguire tale obiettivo, l’intervento “brunettiano”, ispirato al rigorismo ed al recupero dell’efficienza e dell’etica pubblica, è stato rafforzato e “blindato”, al fine di prevenire “reazioni o annacquamenti” sindacali in sede di contrattazione collettiva: pertanto, nell’ambito delle suddette norme, sono individuate dall’art. 55 co. 1, d.lgs n. 165 (introdotto dal d.lgs n. 150) le disposizioni inderogabili (dall’art. 55 all’art. 55-octies) inserite di diritto nel contratto collettivo ai sensi e per gli effetti degli artt. 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile. A tale previsione si affianca il ripristino della centralità e supremazia gerarchica della legge sul contratto collettivo (in generale e non solo nella materia disciplinare) ad opera del riformulato art. 2 co. 2, d.lgs. n. 165 introdotto dal d.lgs n. 150, che non consente più deroghe contrattuali a leggi primarie, salvo espressa “autorizzazione” legislativa.
La portata soggettiva della riforma Brunetta riguarda tutto il personale privatizzato (ivi compreso quello dirigenziale) di cui all’art. 1, co. 2, d.lgs. n. 165, espressamente richiamato dal novellato art. 55, d.lgs. n. 165: pertanto la nuova normativa trova applicazione anche per il personale di Regioni ed enti locali che non potranno vantare un potere derogatorio derivante dalla loro autonomia costituzionale. Le stesse Regioni a statuto speciale si stanno opportunamente orientando verso l’uniforme recepimento (con rinvio dinamico) della normativa lavoristica nazionale (v.art. 73, L.reg. 23 luglio 2010 n. 22 della Regione Valle d’Aosta).
La decontrattualizzazione del rapporto di lavoro ed il depotenziamento del contratto collettivo nazionale delineato, in generale, dal d.lgs n. 150[4], ha dunque trovato una sintesi compiuta nella riforma del sistema disciplinare, che, porterà a conseguenze applicative notevoli, a cominciare dai criteri interpretativi delle previsioni disciplinari che dovranno seguire le amministrazioni e, successivamente, la magistratura: si passa dai criteri ermeneutici dei contratti (artt. 1363 ss., c.c) ai criteri ermeneutici delle leggi (art. 12 disp. prel. c.c.)
Le linee guida dell’art.7, co.2 di tale legge n.15 sono le seguenti:
a) Semplificare le fasi dei procedimenti disciplinari, con particolare riferimento a quelli per infrazioni di minore gravità, nonché razionalizzare i tempi del procedimento disciplinare, anche ridefinendo la natura e l’entità dei relativi termini e prevedendo strumenti per una sollecita ed efficace acquisizione delle prove, oltre all’obbligo della comunicazione immediata, per via telematica, della sentenza penale alle amministrazioni interessate.
b) Prevedere che il procedimento disciplinare possa proseguire e concludersi anche in pendenza del procedimento penale, stabilendo eventuali meccanismi di raccordo all’esito di quest’ultimo.
c) Definire la tipologia delle infrazioni che, per la loro gravità, comportano l’irrogazione della sanzione disciplinare del licenziamento, ivi comprese quelle relative a casi di scarso rendimento, di attestazioni non veritiere di presenze e di presentazione di certificati medici non veritieri da parte di pubblici dipendenti, prevedendo altresì, in relazione a queste due ultime ipotesi di condotta, una fattispecie autonoma di reato, con applicazione di una sanzione non inferiore a quella stabilita per il delitto di cui all’art.640, secondo comma, del codice penale e la procedibilità d’ufficio.
d) Prevedere meccanismi rigorosi per l’esercizio dei controlli medici durante il periodo di assenza per malattia del dipendente, nonché la responsabilità disciplinare e, se pubblico dipendente, il licenziamento per giusta causa del medico, nel caso in cui lo stesso concorra alla falsificazione di documenti attestanti lo stato di malattia ovvero violi i canoni di diligenza professionale nell’accertamento della patologia.
e) Prevedere, a carico del dipendente responsabile, l’obbligo del risarcimento del danno patrimoniale, pari al compenso corrisposto a titolo di retribuzione nei periodi per i quali sia accertata la mancata prestazione, nonché del danno all’immagine subito dall’amministrazione.
f) Prevedere il divieto di attribuire aumenti retributivi di qualsiasi genere ai dipendenti di uffici o strutture che siano stati individuati per grave inefficienza ed improduttività.
g) Prevedere ipotesi di illecito disciplinare in relazione alla condotta colposa del pubblico dipendente che abbia determinato la condanna della pubblica amministrazione al risarcimento dei danni.
h) Prevedere procedure e modalità per il collocamento a disposizione ed il licenziamento, nel rispetto del principio del contraddittorio, del personale che abbia arrecato grave danno al normale funzionamento degli uffici di appartenenza per inefficienza o incompetenza professionale.
i) Prevedere ipotesi di illecito disciplinare nei confronti dei soggetti responsabili per negligenza, del mancato esercizio o della decadenza dell’azione disciplinare.
l) Prevedere la responsabilità erariale dei dirigenti degli uffici in caso di mancata individuazione delle unità in esubero
m) Ampliare i poteri disciplinari assegnati al dirigente prevedendo, altresì, l’erogazione di sanzioni conservative quali, tra le altre, la multa o la sospensione del rapporto di lavoro, nel rispetto del principio del contraddittorio.
n) Prevedere l’equipollenza tra l’affissione del codice disciplinare all’ingresso della sede di lavoro e la sua pubblicazione nel sito web dell’amministrazione.
o) Abolire i collegi arbitrali di disciplina vietando espressamente di istruirli in sede di contrattazione collettiva.
Come è noto, la responsabilità disciplinare è quella forma di responsabilità, aggiuntiva rispetto a quella penale, civile, amministrativo-contabile e dirigenziale, in cui incorre il lavoratore, pubblico o privato, che non osserva obblighi contrattualmente assunti, fissati nel CCNL e recepiti nel contratto individuale. Tale responsabilità comporta l’applicazione da parte del datore di lavoro di sanzioni conservative (richiamo, multa , sospensione dal servizio e dalla retribuzione) o espulsive (licenziamento con o senza preavviso).
La complessa stratificazione normativa e la diffusa incertezza su questioni nodali della materia disciplinare, sulle quali la riforma Brunettiana apportata dal d.lgs n.150 del 2009 è voluta intervenire, sono state (e lo sono a tutt’oggi) senz’altro concausa del cattivo funzionamento della “macchina disciplinare” nell’impiego pubblico privatizzato, crudamente riscontrato e stigmatizzato, in sede di controllo gestionale, dalla Corte dei Conti in alcuni eloquenti referti sulla pessima gestione del procedimento punitivo all’interno della p.a[5].
Nel sistema di organizzazione amministrativa attuale, nonostante siano presenti strumenti che possono contribuire, anche se indirettamente, alla prevenzione di comportamenti illeciti, come i controlli amministrativi, spesso questi sono privi di una reale efficacia in quanto non capaci di sanzionare adeguatamente i colpevoli. Se infatti si cerca di incentivare il profilo dell’accertamento delle responsabilità, in cui un ruolo chiave gioca la trasparenza, è necessario che a questo momento segua quello della sanzione. E’ proprio in questo senso che ci si deve muovere, in modo da rendere operativa l’attribuzione delle responsabilità, anche rendendo più efficace l’uso dello strumento disciplinare. Infatti se è necessario aumentare la probabilità di essere individuati è anche necessario aumentare quella di essere sanzionati.
Il ruolo svolto dai codici etici o di condotta, rivolti a presidiare le “zone grigie” non adeguatamente normate dai contratti, se in astratto può essere utile, in quanto cerca di creare una “discrezionalità responsabile” dipende sia dalla loro corretta implementazione che da un’equa applicazione sostenuta da organismi indipendenti. Si deve dare atto che in questo periodo l’etica stenta non poco ad essere considerata dal senso comune dei dipendenti pubblici come un deterrente incisivo per le tentazioni opportunistiche, è necessario perciò rinsaldare il legame dei pubblici dipendenti con l’amministrazione, mantenendo alti i costi morali della disonestà e della frode ed incentivando i comportamenti virtuosi, l’onestà, la lealtà, lo spirito di servizio, l’imparzialità e il disinteresse dei funzionari pubblici. Poiché la corruzione erode i livelli di fiducia dei cittadini verso la P.A. e più in generale verso le istituzioni non si comprende perché il legislatore abbia ridotto la possibilità del ricorso al danno all’immagine della P.A., che consentiva alla Corte dei Conti di agire ogni volta che il comportamento del dipendente avesse offuscato l’immagine dell’amministrazione.
In generale la soluzione cercata, anche nella legge anticorruzione (L.190/2012), di introdurre nuove norme piuttosto che nel tentativo di far funzionare quelle esistenti, diventa, un facile alibi legislativo dietro il quale mimetizzare l’irresponsabilità gestionale e lasciare, di fatto, la situazione a tutti gli effetti, immutata.
Quanto all’istituita Autorità nazionale anticorruzione, si spera che oltre all’indipendenza abbia anche poteri idonei per poter non solo controllare, ma anche dare il suo contributo alla repressione della corruzione, anche se solo da un punto di vista amministrativo, in modo da scongiurare il pericolo che si riproduca un secondo Alto commissariato anti corruzione, con il mero scopo di raccogliere informazioni. Si auspica poi che il “piano annuale anticorruzione”, previsto dalla legge, non si trasformi in un nuovo adempimento meramente formale, lontano dalla realtà e dalla vita dell’ente, e che aggiungendosi ai già introdotti “piano triennale per la trasparenza”, “piano triennale per la performance”, “relazione annuale sulla performance “ non generi un sovraccarico procedurale, che rende in molti casi necessarie quelle deroghe e quelle eccezioni che sono una merce preziosa del mercato della corruzione.
Ovviamente ciò comporta l’adozione un’ampia e articolata strategia amministrativistica di lotta alla corruzione. Mentre la corruzione penalmente rilevante si combatte principalmente con la repressione, cioè con l’irrogazione di sanzioni più o meno gravi, le forme di malcostume rilevanti per il diritto amministrativo si combattono con meccanismi organizzativi e procedurali, agendo sui controlli amministrativi e sulla trasparenza, puntando sulla deontologia e sulla formazione del personale.
La consapevolezza dell’importanza della strategia amministrativa di prevenzione della corruzione va di pari passo con la consapevolezza dell’insufficienza della repressione penale. Negli ultimi decenni si è spesso rilevata la funzione di supplenza svolta dalla magistratura nei confronti della politica e della pubblica amministrazione: nell’incapacità di queste ultime di prevenire ed emendare il malcostume, è necessario un intervento esterno, da parte dei pubblici ministeri e delle forze dell’ordine. Il discorso, tuttavia, può essere rovesciato, soprattutto se si tiene conto della realtà del processo penale che, anche per via di recenti innovazioni legislative, rende la minaccia della sanzione penale un’arma spuntata contro la corruzione. Nonostante l’egregio lavoro svolto dalla magistratura e dalle forze dell’ordine, l’esito normale dei processi per corruzione è la prescrizione e l’effettiva applicazione di pene detentive per i reati di corruzione è molto rara. In questo contesto, è spesso la prevenzione amministrativa a rimediare all’insuccesso della repressione penale: una buona applicazione delle procedure di gara può essere molto più efficace di un lungo e complesso processo penale per corruzione in atti d’ufficio o per turbativa d’asta; procedure trasparenti di nomina garantiscono l’interesse pubblico meglio di difficili indagini penali sui comportamenti di un funzionario nominato con criteri clientelari; la responsabilità erariale è spesso un deterrente più forte di quella penale.
La legge introduce anche i piani di prevenzione della corruzione, che le amministrazioni statali devono elaborare, e la figura del responsabile della prevenzione della corruzione, che esse devono individuare tra i propri dirigenti. Si può osservare che questi documenti non si sostituiscono, ma si aggiungono ai programmi per la trasparenza e l’integrità e agli altri istituti previsti dal decreto legislativo n. 150 del 2009, imponendo quindi ulteriori adempimenti organizzativi e procedurali alle amministrazioni. Alcune previsioni si riferiscono specificamente agli enti locali, ai quali viene quindi estesa questa disciplina. Il meccanismo, che essa prefigura, è simile a quello della responsabilità delle persone giuridiche, di cui al decreto legislativo n. 231 del 2001: ove vengano commessi determinati reati, il responsabile della prevenzione della corruzione risponde sul piano erariale e disciplinare, salvo che non provi di avere posto in essere gli adempimenti previsti dalla legge e vigilato sul rispetto del piano.
Un secondo tema su cui la norma interviene è quello della trasparenza amministrativa, che è sicuramente un ottimo modo per combattere la corruzione, anche se – negli ultimi tempi – troppo enfatizzato, frainteso o oggetto di aspettative esagerate. A questo riguardo il nostro ordinamento, anche se in modo un po’ confuso e poco consapevole, ha compiuto il passaggio che anche vari altri ordinamenti hanno compiuto negli ultimi decenni: quello dal diritto d’accesso, come diritto degli individui ad accedere ai documenti o alle informazioni che li riguardano, alla pubblicità delle informazioni, che le amministrazioni hanno l’obbligo di rendere note a tutti i cittadini, senza bisogno che nessuno lo chieda. Le norme più generali, al riguardo, sono quelle contenute nella legge n. 15 e nel decreto n. 150 del 2009, che prevedono la piena pubblicità di tutte le informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività della pubblica amministrazione. Si tratta di una formulazione talmente ampia da risultare vaga e di difficile applicazione nel breve termine. Inevitabilmente, questa previsione è rimasta finora largamente inattuata.
Ulteriori previsioni riguardano i codici di comportamento nel settore pubblico. In realtà già un Codice di comportamento per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni è presente fin dal 1994 ed è attualmente previsto dal testo unico del pubblico impiego, emanato con il legislativo n. 165 del 2001, che stabilisce che la sua violazione possa avere rilievo sul piano della responsabilità disciplinare, secondo le previsioni dei contratti collettivi, e contempla anche la possibilità delle singole amministrazioni di emanare codici specifici, per tutto il proprio personale o per categorie di esso. La legge interviene su due aspetti. Da un lato, esso aggrava il regime di responsabilità, stabilendo che la sua violazione è sempre fonte di responsabilità disciplinare e, a determinate condizioni, anche di responsabilità civile, amministrativa e contabile. Dall’altro, esso stabilisce come regola, e non più come possibilità, che ogni amministrazione elabori un proprio codice di comportamento, previsione esplicitamente prevista con il D.P.R n. 62/2013.
Un articolo, breve ma importante, mira a introdurre nell’ordinamento una specifica tutela per i c.d. whistleblowers, cioè coloro che denunciano illeciti commessi nella pubblica amministrazione. In altre esperienze, i denuncianti ricevono anche un premio. La norma si limita a prevedere il divieto di sanzioni o di comportamenti discriminatori a loro danno, con specifiche previsioni a tutela della riservatezza in ordine all’identità del denunciante.
Altre previsioni sono relative agli arbitrati nelle controversie in cui è coinvolta la pubblica amministrazione, ai conflitti di interessi e agli incarichi esterni dei dipendenti pubblici, agli incarichi che non possono essere conferiti ai soggetti condannati per determinati reati, alle attività particolarmente esposte ai rischi di infiltrazione criminale, al danno erariale conseguente a reati di corruzione, al collocamento fuori ruolo dei magistrati e degli avvocati dello Stato, alla responsabilità per mancato rispetto dei termini del procedimento. Un articolo è dedicato all’ambito di applicazione della legge e ai limiti entro i quali esso si applica agli enti territoriali.
Vi sono inoltre norme la cui attinenza al tema della corruzione e la cui stessa logica non sono ovvie, come gli ennesimi, superflui interventi sulla legge n. 241 del 1990. Alcuni di questi interventi sono semplicemente sbagliati, come nel caso della previsione che richiede la motivazione degli accordi tra amministrazioni e privati: inutile complicazione, considerando che gli accordi sono atti di autonomia e che è già previsto che l’adesione dell’amministrazione all’accordo sia preceduta da una sua determinazione, ovviamente motivata.
Tutto ciò assume un preciso significato ed un’efficace connotazione organica in termini di recupero della credibilità, dell’efficienza e dell’efficacia dell’agire amministrativo se viene opportunamente raccordato alla più recente riforma del lavoro pubblico in cui si assegna all’intervento sul sistema disciplinare un ruolo centrale rispetto all’obiettivo perseguito di “potenziare il livello di efficienza degli uffici pubblici e di contrastare i fenomeni di scarsa produttività ed assenteismo”[6].
Note:
[1] Il riferimento è agli scritti del Prof. Ichino pubblicati nel Corriere della Sera nel 2006 e sviluppati nel saggio dello stesso Ichino. I nullafacenti - Perché e come reagire alla più grave ingiustizia della nostra amministrazione pubblica, Mondadori, Milano 2006.
[2] Il d.lgs n. 150 del 2009 si interessa dell’assenteismo nella p.a, introducendo gli artt. 55-septies e 55-octies nel d.lgs n. 165 del 2001.
[3] È opportuno rimarcare come la riforma Brunetta recepisca quasi integralmente molte delle tesi sostenute in TENORE, Gli illeciti disciplinari nel pubblico impiego privatizzato, Roma, Epc, 2007 e, in precedenza in NOVIELLO- TENORE, La responsabilità ed il procedimento disciplinare nel pubblico impiego privatizzato, Milano, 2002. In questi studi sono ampiamente evidenziate le lacune del previgente sistema, alla luce della intervenuta ricca giurisprudenza, degli eloquenti referti della Corte dei Conti e della vasta prassi vagliata in sede di confronto didattico ed applicativo con centinaia di amministrazioni.
[4] Si veda l’accurato studio di Bellavista-Garilli, Riregolazione legale e de contrattualizzazione: la neoibridazione normativa del lavoro nelle pubbliche amministrazioni, in Il lav. nelle p.a 2010, f.1, 1 ss, con vasti richiami normativi e dottrinali.
[5] Le eloquenti delibere della Corte dei conti sul reale funzionamento del sistema disciplinare e cautelare nell’impiego pubblico negli ultimi anni, adottate ai sensi dell’art.3 co.4 l.14 gennaio 1994 n.20, sono raccolti nel volume TENORE, Gli illeciti disciplinari nel pubblico impiego privatizzato, Roma, Epc, 2007, 99 s.
[6] Così si legge nel primo comma dell’art.67, che “apre” il Capo V, dedicato a «Sanzioni disciplinari e responsabilità dei dipendenti pubblici», del titolo IV «Nuove norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche» del d.lgs. 150/2009, ricalcando l’analoga espressione contenuta nel primo comma dell’art. 7 l. 15/2009, contenente i relativi principi e criteri.
[*] Il Dott.Fabio Martino è Funzionario amministrativo (III^ Area F3) del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, attualmente in servizio presso il Segretariato Generale del Ministero. Ogni considerazione è frutto esclusivo del proprio libero pensiero e non impegna in alcun modo l'Amministrazione di appartenenza.
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