Ispettori: stress buono o cattivo?
di Federica Bortolazzi [*]
Una delle sfide principali della psicologia del lavoro da quando è stato introdotto D.Lgs. 81/2008, sono i rischi psicosociali e lo stress lavoro-correlato con cui è necessario confrontarsi nel campo della salute e della sicurezza sul lavoro, date le considerevoli ripercussioni sulla salute delle singole persone e, di conseguenza, anche su quella delle imprese e delle economie nazionali. Lo stress è il secondo problema di salute legato all'attività lavorativa maggiormente segnalato in Europa. Metà delle giornate lavorative perse sono attribuite a problemi di stress. Come molte questioni riguardanti la salute mentale, spesso lo stress viene frainteso. I rischi psicosociali derivano da inadeguate modalità di progettazione, organizzazione e gestione del lavoro oltre che da un contesto lavorativo socialmente mediocre, con ripercussioni psicologiche, fisiche e sociali negative, come stress, esaurimento o depressione connessi al lavoro.
Lo stress di per sé non è sempre un fattore negativo, esiste lo stress positivo cosiddetto EUSTRESS che rende l’individuo capace di adattarsi positivamente alle situazioni attraverso l'elaborazione di strategie che vanno sotto il nome di “coping”, volte a fronteggiare la situazione. Lo stress negativo, definito DISTRESS, si manifesta invece quando la situazione richiede per l’individuo uno sforzo di adattamento che supera le sue capacità personali. In tale ultimo caso l’organismo cerca di contrastare la situazione stressante opponendo una resistenza che, con il tempo, crea una “fatica mentale” per la quale il nostro organismo va in “affanno”, aumentando sia il consumo energetico che le probabilità di danni psicofisici con conseguenze anche gravi. Per le imprese gli effetti negativi possono essere una scarsa redditività complessiva ed un maggiore assenteismo.
Da un sondaggio d’opinione condotto dall’ EU-OSHA (Agenzia europea per la salute e sicurezza sul lavoro) è emerso che più della metà dei lavoratori del nostro Continente considera lo stress lavoro-correlato come elemento presente nel proprio luogo di lavoro. Le sue cause più ricorrenti sono la riorganizzazione o la precarietà del lavoro, orari o carichi di lavoro eccessivi, mobbing o molestie. Gestire lo stress non è solo un imperativo morale e un buon investimento per i datori di lavoro, bensì un preciso dovere giuridico stabilito dalla direttiva quadro 89/391/CEE e ribadito dagli accordi quadro sullo stress lavoro-correlato e sulle molestie e la violenza sul luogo di lavoro stipulati a livello europeo tra parti sociali nel 2004, recepiti a livello nazionale nel 2008. Il "Patto europeo per la salute e il benessere mentale" siglato a Bruxelles nel Giugno 2008 riconosce il mutamento delle esigenze e le crescenti pressioni nei luoghi di lavoro ed incoraggia i datori di lavoro ad applicare ulteriori misure volontarie per promuovere il benessere mentale. Sebbene spetti ai datori di lavoro la responsabilità giuridica di garantire la corretta valutazione e il controllo dei rischi sul lavoro, è indispensabile coinvolgere anche i lavoratori ed i loro rappresentanti, che meglio di chiunque altro conoscono i problemi all'interno dei luoghi di lavoro. La loro partecipazione può assicurare l'adeguatezza e l'efficacia delle misure adottate.
Muovendo da queste premesse ho tentato di comprendere quali categorie lavorative potessero essere maggiormente colpite dai fenomeni sopra descritti, tenuto conto del quadro socio-economico venutosi a creare negli ultimi anni a causa della crisi. Una ricerca su internet avviata sulla scorta di notizie di cronaca recente (nella fattispecie le rivendicazioni delle Forze di Polizia e le proteste contro i Carabinieri a Napoli) ha indirizzato la mia attenzione verso un settore, quello pubblico, che vive disagi a livello organizzativo forse maggiori di quello privato.
Ad aggravare questa situazione ritengo debba essere aggiunta la non elevatissima solidarietà che, di norma, le rivendicazioni e le lamentele provenienti dai lavoratori di questo settore suscitano nell’opinione pubblica.
Piaccia o meno (non sono certo questi la sede ed il momento più appropriati per approfondire tale tema) al dipendente pubblico vengono sovente associati i termini “fannullone”, “privilegiato”, “raccomandato” e così via. Questa è la percezione che dall’esterno molti ne hanno, alimentata od amplificata anche dagli organi di informazione che talora raccolgono e diffondono commenti e giudizi di questo tenore. Lo si ripete a scanso di equivoci: chi scrive queste righe si limita a riportare un dato che emerge in tutta la sua evidenza dalla semplice lettura di blog e forum presenti su internet, o dai commenti postati dai lettori di quotidiani on-line in relazione a fatti di cronaca talora anche molto gravi.
Il quadro che emerge è, a mio avviso, allarmante poiché la sensazione che se ne ricava è quella di una vera e propria escalation di toni che non lascia presagire nulla di buono, quanto meno nell’immediato avvenire: spiegherò meglio ciò che intendo dire.
La ricerca da me effettuata secondo i criteri visti sopra ha evidenziato un elevato numero di risultati in cui è presente il termine “ispettore”.
Molte pagine web riguardano in particolare gli ”ispettori del lavoro” e le aggressioni, verbali e fisiche, dagli stessi subite nell’esercizio delle loro funzioni.
A ben vedere fatti di questa gravità sembrano essere il portato inevitabile di una serie di fattori che, tra loro combinati, difficilmente potrebbero condurre a risultati differenti da quelli descritti nelle pagine web: vediamo quali sono.
L’elenco comincia dalla gravissima e perdurante crisi economica, che certamente non può che avere esacerbato gli animi di quanti oggi, tra infinite difficoltà, tentano ancora di fare impresa destreggiandosi tra un drastico calo dei consumi e le difficoltà di accesso al credito.
A ciò si deve aggiungere la notevole pressione fiscale che riduce ulteriormente la liquidità destinabile ai consumi e con ciò le chance di ripresa economica: ma tale aspetto risulta di notevole importanza anche perché provoca una crescente insofferenza del cittadino nei confronti dello Stato, sempre più spesso percepito come soggetto interessato principalmente a riscuotere imposte e tributi piuttosto che alla risoluzione dei suoi problemi.
Ad “avvelenare” ulteriormente il clima contribuisce il crescente vigore impiegato proprio dallo Stato nell’esercizio del potere sanzionatorio che gli compete: se da un lato questo è certamente legittimo d’altro canto tale condotta viene sempre più spesso interpretata come uno strumento per “fare cassa”, anche a causa dell’introduzione di regole ed adempimenti sempre nuovi e di non facile comprensione, ciò che ha finito per creare una frattura sempre più marcata tra i cittadini e le istituzioni pubbliche, nei confronti delle quali si moltiplicano le manifestazioni di diffidenza e malcontento.
Ed è all’interno di un quadro determinato dalla somma di questi fattori, connotato da tensioni emotive sempre più esasperate che entra in gioco la figura dell’ispettore, rappresentante dello Stato, che ha il compito di verificare il rispetto, da parte imprenditoriale, delle norme in materia di lavoro.
Le finalità perseguite attraverso tali controlli sono certamente encomiabili e condivisibili: basti leggere al riguardo il “Codice di comportamento ad uso degli ispettori” entrato in vigore all'inizio del corrente anno (anche questo reperito in Rete) per rendersene conto.
I suoi articoli 7 (Principio di collaborazione), 8 (Informativa e assistenza all'ispezione) e 23 (Condivisione degli obiettivi), tra gli altri, dovrebbero da soli illustrare con chiarezza quali benefici possano derivare all'intero consesso sociale dal corretto svolgimento di tali attività.
Invece, a causa della situazione descritta sopra, così non è, col risultato che l'ispettore del lavoro che si rechi presso un'azienda per l'effettuazione di un sopralluogo corre sempre più spesso il rischio di essere considerato alla stregua di un esattore inviato per "vessare" il malcapitato di turno (condizione che a mio giudizio può essere analogicamente estesa anche agli ispettori di Inps, Inail, Agenzia delle Entrate, Agenti di Polizia ecc. ecc., ciascuno ovviamente per l'esercizio delle funzioni di sua competenza).
Ma poiché lo Stato è percepito come entità lontana, e quello della certezza della pena sembra essere un principio sul quale sempre più persone nutrono ormai serie perplessità, si moltiplicano i casi di reazione violenta alla vista degli ispettori.
Ritengo che il tipo di lavoro in questione, per la delicatezza degli interessi in gioco e per la strettissima vicinanza (anche fisica) tra controllore e controllato dovrebbe prevedere l'approntamento di una serie di cautele a favore di chi è chiamato a svolgere tale prezioso (seppur ingrato) compito al fine di evitargli rischi inutili.
Certo i temi da analizzare sarebbero molti e complessi, dovendosi in primo luogo auspicare un diverso rapporto tra Stato e cittadino in materia di accertamento (sia esso in materia di lavoro, fiscale ecc..) magari improntato ad un'effettiva collaborazione reciproca e basato (perché no?) su regole chiare e facilmente conoscibili in anticipo da parte dal cittadino: in fondo è ciò che accade in altri Paesi europei.
Tuttavia poiché quelli appena sopra tratteggiati sono mutamenti culturali che richiederebbero in ogni caso svariati anni per essere tradotti in realtà, sarebbe più che mai opportuno porre in campo, oggi, rapide contromisure per "tamponare" una situazione che va facendosi difficile.
Ebbene, per quanto banale possa sembrare, di grande aiuto potrebbero essere corsi di formazione rivolti agli ispettori per prepararli alla gestione delle situazioni di grande tensione cui il loro lavoro li pone di fronte. Loro sono "in prima linea", ed è quindi logico che proprio loro vengano dotati degli strumenti più idonei per gestire i conflitti, anche violenti, che lo svolgimento della loro attività comporta, aiutandoli addirittura a prevenirli. Non è pensabile che ogni situazione possa essere affrontata contando unicamente sull'esperienza ed il buon senso del singolo ispettore: in primo luogo perché non sempre potrebbero essere sufficienti, ed in secondo luogo perché sarebbe preferibile un'uniformità di comportamenti da parte degli organi accertatori che può derivare solo da una formazione adeguata ed uguale per ciascuno di essi.
Altrettanto importante è poi il trattamento economico loro riservato: dover svolgere le missioni con la propria auto personale anziché con quelle di servizio li rende più facilmente identificabili e rintracciabili, esponendoli ad atti di violenza o vandalismo anche al di fuori dell'orario di lavoro.
Senza contare poi che l'anticipazione in prima persona delle spese relative ai sopralluoghi da effettuare, per il cui rimborso l'ispettore deve attendere talvolta anche svariati mesi, può essere interpretato come segno di scarsi interesse ed apprezzamento da parte del datore di lavoro per i compiti svolti, portando così ad un affievolimento del senso di appartenenza che é elemento invece essenziale al corretto ed efficace funzionamento di ogni "squadra".
Ovviamente non esiste una "ricetta" capace di risolvere rapidamente i tanti problemi con i quali la categoria degli ispettori deve misurarsi quotidianamente, ma credo non possano esservi dubbi sul fatto che il miglioramento delle condizioni lavorative di una risorsa tanto importante debba essere considerata prioritaria, come suggerito dalle dichiarazioni a favore della categoria rilasciate dal Ministro Poletti lo scorso maggio: parole che, per il momento, autorizzano a ben sperare.
[*] Psicologa del Lavoro e delle Organizzazioni (Laurea presso l'università di Padova). Specializzazione per l'uso professionale del Metodo Ege 2002 per la valutazione e quantificazione del danno da mobbing. Iscritta all'Albo degli Psicologi dell'Emilia Romagna.
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