Secondo l’OCSE, l’inflazione nell’area euro nel 2023 dovrebbe attestarsi intorno al 5,8%[1]. L’Unione monetaria proviene infatti da un biennio caratterizzato da un’importante crescita dei prezzi: 2,6% nel 2021 e 8,4% nel 2022. Si tratta di cifre a cui, in generale, le economie occidentali non erano più abituate da anni. Tra le varie cause, come noto, vi sono l’aumento dei prezzi dei beni energetici importati e la crescente volatilità dei prezzi nei mercati internazionali. Nel primo Economic Outlook del 2023, l’OCSE ha approfondito il tema domandandosi se una simile inflazione fosse maggiormente attribuibile a profitti unitari più alti o a salari (e quindi costi unitari del lavoro) più alti[2]. Secondo l’analisi, vi è stata certamente una generalizzata e insolita combinazione di incrementi di entrambe le grandezze ma in molti Paesi, tra cui l’Italia, il contributo maggiore alla crescita dei prezzi è attribuibile all’incremento dei profitti. Si tratta di conclusioni in linea anche con quelle di recenti studi degli economisti della Banca Centrale Europea[3]. È chiaro infatti che economie che hanno attraversato una crisi pandemica ed i relativi lockdown – e dunque caratterizzate da minore concorrenza e offerta – hanno consentito al tessuto produttivo di recuperare più facilmente l’aumento dei costi della produzione e persino di incrementare i margini di profitto. Chi invece ha soltanto potuto perdere terreno dinanzi alla crescita dei prezzi è il mondo dei percettori di redditi da lavoro.
Una vivida fotografia delle retribuzioni in Italia basata sui dati amministrativi viene scattata dall’INPS nel suo ultimo Rapporto annuale. Secondo il XXII Rapporto annuale INPS, presentato lo scorso 13 settembre a Palazzo Montecitorio, la retribuzione lorda media annua pro capite dei lavoratori dipendenti (esclusi dunque lavoratori domestici e operai agricoli) risulta pari a 24.139 euro nel 2019 e pari a 25.112 euro nel 2022[4]. I dati amministrativi dell’Istituto rilevano dunque una crescita media del 4% nel periodo considerato. Come sottolinea anche il Rapporto, però, si tratta di un incremento decisamente inferiore all’inflazione, pari invece a circa il 10% nello stesso arco temporale, ossia oltre il doppio dell’incremento delle retribuzioni.
Una crescita dei prezzi così importante ha ovviamente gravi conseguenze sul potere d’acquisto dei redditi da lavoro. Innanzitutto, il fenomeno rappresenta un problema di ordine sociale, in particolar modo per i nuclei familiari a reddito medio e basso. Inoltre, una simile dinamica incide anche negativamente sulla crescita economica, dal momento che i consumi rappresentano una delle componenti più importanti della domanda aggregata della nostra economia. Diventa dunque necessario non solo agire per contenere la crescita dei prezzi con gli strumenti più idonei, ma anche e soprattutto sostenere la capacità di spesa degli italiani in particolar modo attraverso la crescita di salari e stipendi. Un confronto internazionale può infatti aiutare ad inquadrare il fenomeno di cui stiamo parlando al fine di catturarne meglio le dimensioni.
Nel Rapporto annuale 2023, l’ISTAT mostra i dati sulla perdita del potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti dal 2013 al 2022[5]. Secondo le rilevazioni riportate dall’Istituto di statistica, in particolare, in questo periodo vi è stata una riduzione del potere d’acquisto nel nostro Paese di ben 2 punti percentuali, a fronte, al contrario, di un incremento di 2,7 punti in media nell’Unione europea. Nostri partner come la Francia e la Germania, ad esempio, hanno registrato un aumento oltre la media dell’Ue: rispettivamente del 3% e del 5,6%. In altri termini, i redditi da lavoro italiani hanno perso potere d’acquisto mentre nel complesso l’Unione europea, mediamente, è riuscita a proteggerli contro l’inflazione.
La crescita dei prezzi non è però che una sola delle due facce della medaglia. L’Italia sconta da tempo un vero e proprio problema di crescita dei salari nominali. Nel Rapporto annuale 2023, infatti, l’ISTAT mostra anche i dati della crescita delle retribuzioni contrattuali dal 2013 al 2022. Secondo i dati raccolti, l’incremento nel periodo considerato è stato solo del 12%, ossia la metà di quanto registrato invece mediamente nell’Unione europea, dove la crescita è stata del 23%. Francia e Germania, ad esempio, hanno rilevato nello stesso periodo incrementi nelle retribuzioni pari, rispettivamente, al 18,3% ed al 27,1%. L’Italia vive insomma una vera e propria questione salariale.
Nel Global Wage Report 2022-23, l’International Labour Organization (ILO) fornisce le possibili strategie da realizzare attraverso il dialogo sociale in Italia per rispondere alla crisi del costo della vita[6].
Secondo il Rapporto, dinanzi all’attuale aumento dei tassi di interesse che le banche centrali stanno imponendo al fine di mitigare l’inflazione, è necessario sostenere sia la capacità d’investimento da parte delle imprese e sia la capacità di far fronte ai debiti dei lavoratori attraverso misure, anche temporanee, di riduzione delle imposte dirette e del cuneo fiscale. Inoltre, l’ILO ritiene utili misure rivolte alle famiglie meno abbienti come, ad esempio, sussidi ai lavoratori con basso reddito per consentire l’acquisto di beni essenziali o più generali come, ad esempio, la riduzione della tassazione indiretta su beni e servizi di prima necessità. A queste politiche, si aggiungono quelle utili a migliorare anche le competenze dei lavoratori attraverso l’istruzione e la formazione continua e quelle utili a ridurre il divario salariale di genere, anche attraverso la riduzione del divario retributivo legato alla maternità e attraverso un assetto normativo che promuova la trasparenza delle retribuzioni a livello aziendale.
A queste indicazioni, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro aggiunge misure rivolte ad incrementare direttamente il livello generale dei salari e degli stipendi in Italia. Parliamo, in particolare, di vere e proprie politiche salariali generali. Innanzitutto, l’ILO propone un rafforzamento delle retribuzioni attraverso il dialogo sociale e la contrattazione collettiva. A tal proposito, vale la pena ricordare che, secondo i dati più recenti dell’ISTAT, i contratti in attesa di rinnovo in Italia – a fine settembre 2023 – sono 31 e coinvolgono 6,7 milioni di dipendenti, ossia il 54% del totale, con un tempo medio di attesa per un rinnovo dei contratti scaduti pari a circa 29 mesi. L’ILO suggerisce, inoltre, di adeguare le altre scale salariali al rincaro del costo della vita. Come noto, al momento in Italia non esistono veri e propri meccanismi automatici generalizzati. I contratti collettivi vengono rinnovati a partire da un indice previsionale costruito sulla base dell’Ipca (indice dei prezzi al consumo armonizzato per i Paesi dell'Ue), depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati. Ovviamente, come dimostrato anche nei dati illustrati precedentemente, in periodi di forte inflazione importata come quella attuale, limitarsi a simili meccanismi penalizza fortemente il potere d’acquisto dei redditi da lavoro. Un’ultima indicazione contenuta nel Rapporto riguarda i minimi salariali. Al fine di favorire l’aumento delle retribuzioni in Italia, secondo l’ILO è infatti necessario adeguare i minimi salariali sulla base dei criteri fissati dalla Convenzione n. 131. Secondo le sue disposizioni, l’autorità competente di ogni Paese aderente, in accordo o comunque in seguito ad una piena consultazione con le organizzazioni rappresentative dei datori di lavoro e dei lavoratori, deve stabilire le categorie di lavoratori dipendenti che vanno protetti ed i salari minimi stabiliti devono avere forza di legge, con previsione di sanzioni in caso di mancata applicazione e, come sottolinea la Convenzione, sempre nel pieno rispetto della libertà di contrattazione collettiva.
Il combinato disposto di forte crescita dei prezzi, da un lato, e crescita stagnante dei salari nominali, dall’altro, ha reso i redditi da lavoro italiani tra i più deboli delle economie occidentali. Le scelte politiche adottate finora non hanno infatti inciso positivamente su questa dinamica. Diventa dunque necessario adottare politiche salariali coraggiose in grado di invertire questo trend, far recuperare potere d’acquisto ai lavoratori dipendenti e sostenere la domanda aggregata dell’economia.
[1] A long unwinding road. OECD Economic Outlook, June 2023.
[2] OECD Economic Outlook, Volume 2023 Issue 1.
[3] Oscar Arce, Elke Hahn and Gerrit Koester (2023). How tit-for-tat inflation can make everyone poorer. The ECB blog.
[4] XXII Rapporto Annuale INPS (2023). Capitolo 1 “Il mercato del lavoro dopo la pandemia”.
[5] ISTAT. Rapporto annuale 2023. La situazione del Paese.
[6] International Labour Organization. Global Wage Report 2022-23. The impact of COVID-19 and inflation on wages and purchasing power.
[*] Funzionario pubblico e dottore di ricerca in Economia Politica. Le considerazioni contenute nel presente scritto sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno in alcun modo carattere impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.
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