Iniziamo queste nostre riflessioni su un tema che troppo di frequente assurge ad argomento, da un punto di vista economico e sociale, nostro malgrado “divisivo” ma non di meno determinante per le esistenze presenti e future che sottendono alla “dignità” delle persone, nei periodi della vita, (in età avanzata) dove le fragilità esistenziali, siano esse economiche, come anche sanitarie, sociali, umane, si moltiplicano ed aggravano inesorabilmente. Parliamo appunto di “Previdenza”.
Le riforme previdenziali, evidentemente, riguardano, in maniera intima, il cosiddetto “patto sociale” che interseca tra di loro: i generi, le generazioni le variegate categorie di lavoratori, i cicli economici, che di conseguenza, per queste stesse ragioni, inducono ad una continua e perdurante attenzione mediatica e sociale, anche per l’impatto diretto a valere sul tenore di vita presente e futura dei cittadini. Non di meno riforme e sostenibilità demografica debbono marciare di pari passo.
È un fatto acclarato come in questi ultimi trent’anni, vi siano stati numerosi interventi legislativi/riforme strutturali in materia “Previdenziale”. Solo per ricordarne alcune, di maggiore impatto, menzioniamo quali tappe fondamentali, nell’evoluzione del sistema pensionistico del nostro Paese, a partire dagli anni ’90: la riforma Amato 1992; la riforma Dini del 1995; la riforma Maroni del 2004; la riforma Prodi 2007; la riforma Sacconi del 2010; la riforma Fornero del 2012.
Quindi, solo considerando la numerosità degli interventi del Legislatore, in materia previdenziale, risulta quantomai difficile individuare, nelle riforme italiane dell’ultimo trentennio, una ratio univoca e coerente. Il sistema previdenziale italiano, a partire proprio dagli anni Novanta, è certamente mutato e in maniera significativa, intervenendo però in modo oggettivamente distonico, e spesso con lo scopo prioritario di drenare risorse a vantaggio della fiscalità generale, e solo marginalmente curando (ma spesso penalizzando) le diverse platee generazionali e di genere.
Ciò detto, per ridefinire e rafforzare un eventuale nuovo “patto sociale”, in era moderna e globale, si renderebbe necessario il coinvolgimento e la discussione con i corpi intermedi, le parti sociali, l’opinione pubblica, al fine di spiegare e condividere le motivazioni di qualsivoglia riforma, ponderando il tema della equità tra categorie di lavoratori, come tra generazioni, sorreggendo un equo e sostenibile sistema previdenziale diffuso.
Solo per dare un accenno alla concretezza ed invasività di detti interventi si ricorda che l’attuale normativa prevede che dal 1° gennaio 2019, il requisito anagrafico per la pensione di vecchiaia, diventa per tutti 67 anni; il requisito anagrafico verrà adeguato, con periodicità biennale, in funzione dell'incremento della speranza di vita. Aggiungiamo inoltre che chi ha iniziato a lavorare dal 1° gennaio 1996, avrà una pensione integralmente calcolata con il “regime contributivo”.
Nel nostro Paese, il sistema pensionistico pubblico è strutturato secondo il criterio della cosiddetta “ripartizione”, vale a dire: i contributi che lavoratori e aziende versano agli enti di previdenza vengono utilizzati per pagare le pensioni di coloro che hanno lasciato l’attività lavorativa. Per far fronte al pagamento delle pensioni future, dunque, non è previsto alcun accumulo/accantonamento di riserve finanziarie.
È del tutto evidente che in un sistema così congegnato, i volumi delle entrate (rappresentate dai contributi) dev’essere in equilibrio, tecnico, con l’ammontare delle uscite (le pensioni da pagare). Ma anche il progressivo aumento della vita media della popolazione ha fatto sì che si debbano erogare le pensioni per un tempo più prolungato. Altra criticità è rappresentata dal rallentamento della crescita economica, a partire dalla seconda decade di questo millennio, che ha oggettivamente frenato la massa delle entrate contributive.
L’Italia è il Paese tra i più vecchi al mondo, insieme al Giappone, avendo oltre il 20% della sua popolazione ultrasessantenne, causa del capovolgimento della piramide demografica. A mero esempio citiamo che nel 1970, l’aspettativa di vita per una persona che aveva raggiunto l’età di 65 anni era di 78 anni per gli uomini e di 82 per le donne. Nel 2018 era salita rispettivamente a 84 e 86 anni.
Attuari, statistici e demografi ipotizzano che questa percentuale, summenzionata del 20%, sia destinata a salire. Passerà dall’attuale 37% al 65% nel 2045 e al 74% nel 2050. concretamente, nel 2050 in Italia ci saranno 74 over 65 anni ogni 100 persone, nel range tra i 24 e i 64 anni, diversamente dagli attuali 38.
Uno dei maggiori problemi che impattano sul tema della previdenza, si ricollega al fatto che le nuove generazioni, ossia i nati a partire dagli anni Novanta, del secolo scorso, come Generation X, Millennials e Generation Z, si vedano relegati al rischio di “povertà previdenziale” ossia di avere pensioni future di modestissima entità. Questo evidentemente è il frutto avvelenato di possedere, per la gran parte di queste generazioni, carriere lavorative tardive, precarie e discontinue spesso con salari troppo bassi che, con l’applicazione del sistema di calcolo contributivo, hanno l’effetto di produrre rendite future al limite della sussistenza.
Tutto deve però garantire stabilità economico-finanziaria e rafforzare la sostenibilità di lungo periodo del sistema pensionistico, in termini di incidenza della spesa previdenziale sul prodotto interno lordo, anche in ossequio alle direttive comunitarie.
A normative vigenti esistono delle limitate eccezioni circa il limite anagrafico per il collocamento in quiescenza di categorie di lavoratori della Pubblica Amministrazione al compimento del 70° anno di età. Mi riferisco a: magistrati ordinari, contabili, militari, agli avvocati e procuratori dello Stato, ai professori universitari, in quanto, nei loro confronti, il limite di permanenza in servizio risulta quindi più alto di 5 anni rispetto alla generalità degli altri dipendenti pubblici. Più di recente a queste categorie si sono aggiunte quelle dei medici, ma solamente fino al 31.12.2022 quale disciplina transitoria. Limite massimo di età per il collocamento a riposo dei dirigenti medici e del ruolo sanitario del Servizio sanitario nazionale, ivi compresi i responsabili di struttura complessa, è stabilito al compimento del sessantacinquesimo anno di età, ovvero, su istanza dell’interessato, al maturare del quarantesimo anno di servizio effettivo. In ogni caso il limite massimo di permanenza non può superare il settantesimo anno di età.
Più analiticamente, per i magistrati, siano essi della magistratura ordinaria, contabile, militare (art. 5 R.D.Lgs. 31 maggio 1946, n. 511), gli avvocati dello Stato (art. 34 r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611) e i docenti universitari (art. 19 d.P.R. 11 luglio 1980, n. 382) l’età massima pensionabile è stabilita a settanta anni. Sulla base dell’insuperabilità di tali limiti ordinamentali, il Dipartimento della Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri, nella circolare 8 marzo 2012, n. 2, conferma l’esclusione dei pubblici dipendenti dalla facoltà di prosecuzione del rapporto fino a settanta anni.
È bene anche ricordare che rimangono invece fuori dall'ambito di applicazione generale delle regole previdenziali le categorie di personale regolate da regimi di accesso al pensionamento speciali, come il personale del comparto sicurezza, difesa e soccorso pubblico.
Per i dipendenti del settore privato l'incentivazione alla permanenza sul posto di lavoro, oltre l'età pensionabile di vecchiaia è rimessa, sostanzialmente, alla volontà delle parti, datore di lavoro e prestatore, Pertanto l'incentivazione alla prosecuzione del rapporto di lavoro sino a 70 anni, prevista dalla Legge Fornero, è possibile solo in presenza di un accordo con l'azienda. Anche se dopo l’orientamento della Corte di Cassazione (Cass. sent. n. 1850/16 del 01.02.2016) è stata svuotata la portata precettiva della medesima Legge Fornero, ovvero i giudici supremi affermano: non si attribuisce alcun diritto soggettivo a restare in servizio se manca il consenso del datore.
Ciò premesso con il presente redazionale chi scrive intende sommessamente fornire un proprio contributo di idee, perorando l’attuazione dell'istituto della “prosecuzione unilaterale” del rapporto di lavoro, similarmente alla “risoluzione unilaterale” del rapporto di lavoro in maniera che l'istituto sarebbe utilizzabile a regime da tutte le PP.AA. ampliando anche la platea delle amministrazioni interessate, con inclusione della Autorità indipendenti. Ciò evidentemente a valere esclusivamente sulla categoria di tutti i Dirigenti, non limitandosi però a quelli pubblici ma estendendo anche a quelli privati.
Ci si potrà chiedere legittimamente ora a quale scopo? Ebbene l’esigenza si verrebbe a sostanziare analizzando elementi fondanti il welfare sostenibile alla luce delle evoluzioni demografiche ed economiche nelle società occidentali dei prossimi decenni. Questo deve anche potersi innestare e coesistere nei sistemi di previdenza obbligatoria e previdenza integrativa/facoltativa, che il nostro ordinamento contempla.
Dati enunciati al Forum PA a fine 2022: tornano a crescere i dipendenti pubblici in Italia, che raggiungono 3.266.180 unità; nel 2022 cresce la spesa totale per i redditi da lavoro dipendente nella PA, circa 187 miliardi; l’età media del personale stabile è 50,7 anni; l’età media di entrata è passata in vent’anni da 29,3 a 34,3 anni.
In Italia i dirigenti pubblici sono circa 230 mila, 115 mila dei quali dirigenti medici. I dipendenti pubblici sono complessivamente 3.250.000. Sottraendo i 230 mila dirigenti, il rapporto è, dunque 3.020.000/230.000, cioè un dirigente ogni tredici dipendenti. Percentuale Dirigenti circa il 2% del totale degli occupati 1,9% (2010) 1,7% (2020). Il rapporto medio nel pubblico impiego dirigenti/dipendenti può stimarsi prossimo a 1/30 se si esclude il segmento dirigenza medica.
Dati ISTAT dirigenti totali privati+pubblici 383.000 (2020) settore privato 131.910 (2021)
Dato CIDA dirigenti privati 115.000 (2019) dato Corte dei Conti dirigenti pubblici contrattualizzati 173.000 (2018) di cui dirigenti medici 112.000
Dati Istat - Dinamica di genere 67% uomini 33% donne - Concentrazione territoriale 55% al nord 23% al centro 22% al sud
Dai dati Ocse mediamente gli italiani trascorrono 24 anni in pensione. Nel 2023 in Italia l’aspettativa media di vita è di 84,2 anni (86,1 per le donne e 82,1 per gli uomini).
La RAL (Retribuzione Annua Lorda) La RAL media 2023 in Italia per i dirigenti è di € 103.418.
Nella Pubblica Amministrazione (Fonte: elaborazioni Aran su dati RGS – IGOP, dati relativi al 2020 aggiornati al 19/12/2022) la retribuzione lorda media annua è di € 37.073 per Dirigenti € 7.955 lordi mensili.
Sono circa 230.000 i dirigenti e i professionisti dipendenti dalle amministrazioni pubbliche della Repubblica italiana. I dati che menzioniamo qui sotto, pur non aggiornati all’oggi, forniscono un quadro analitico e sono estratti dalla “Relazione annuale sul costo del lavoro pubblico” dell’anno 2016 prodotta dalla Corte dei Conti - entrando nel dettaglio:
Dirigenti non contrattualizzati:
Una riflessione giova poterla fare. Di tutta evidenza nel nostro Paese la popolazione attiva, almeno nella gran parte dei casi, “aspetta con particolare ansia l’ora di andare in pensione”, se non altro per il continuo modificarsi e quindi volatilità delle “regole del gioco”, ossia delle normative previdenziali.
Certamente, non è da tutti avere la forza e la volontà di proseguire l’attività lavorativa oltre i requisiti della classica pensione anticipata o, addirittura, sino a quella di vecchiaia. Ma oltrepassare questo traguardo, continuando a lavorare, risulterebbe un evento eccezionale.
L’attuale normativa in Italia prevede la possibilità di andare in pensione essenzialmente e principalmente in due modalità:
Pensione Anticipata, al raggiungimento dei 41 anni e 10 mesi per le donne o 42 anni e 10 mesi per gli uomini.
Pensione di Vecchiaia, al raggiungimento dei 67 anni d’età con almeno 20 anni di contribuzione. Salvo le eccezioni previste per alcune limitatissime categorie di lavoratori sopra enunciate per le quali l’età anagrafica lavorativa può spingersi fino ai 70 anni.
È anche vero che, nel nostro ordinamento, sono presenti altre opportunità d’uscita lavorativa qualora il futuro pensionato sia in possesso dei requisiti necessari. Di fatto, analizzando altresì le variegate tipologie di lavoro presenti, facendo mente locale anche alla loro oggettiva “gravosità” rinviando alle varie tipologie cosiddette “usuranti” c’è chi dice che si può continuare a lavorare e chi, invece, pensa che ci si debba forzatamente fermare, con l’attuale normativa, a 67 anni.
I dipendenti operanti nel settore Privato potranno essere collocati a riposo, dal proprio Datore di Lavoro, al raggiungimento dei 67 anni d’età (alla normativa odierna), ma possono anche, in presenza di un idoneo e specifico accordo tra impresa e lavoratore, proseguire il rapporto lavorativo ulteriormente. In alcune occasioni, potrebbe essere anche il CCNL di riferimento a dare all’imprenditore la facoltà di cessare il rapporto al compimento di un’età inferiore.
Secondo le previsioni della piattaforma “Pensami”, il nuovo simulatore INPS che fornisce stime in merito a quando si andrà in pensione, ad oggi un ragazzo di 25 anni che lavora da un anno potrebbe andare in pensione di anzianità a 70 anni con almeno 46 anni e 4 mesi di contributi oppure in pensione di vecchiaia a 74 anni e dieci mesi sempre che abbia almeno 20 anni di contributi e un assegno di almeno 1,5 volte il minimo.
Assisteremo quindi ad una formidabile combinazione di macro-trend sociali, economici e tecnologici, che stanno ridisegnando, da qualche anno, il futuro del lavoro. C’è tuttavia un trend silenzioso ma implacabile che sovrasta tutto e più di altri contribuirà a ridisegnare il futuro del lavoro: il trend demografico.
Dobbiamo al riguardo però anche dire che l’incremento dell’aspettativa di vita media ed il miglioramento delle condizioni di vita e di salute determinano un progressivo allungamento di quello che definiamo vita attiva, a cui corrisponde un processo di invecchiamento attivo che giustificherà un ulteriore spostamento in avanti dell’età pensionabile in molte economie avanzate. Sarà quindi ineluttabile che l’invecchiamento della popolazione segnerà il mercato del lavoro e le politiche di welfare dei prossimi decenni.
Oltre al miglioramento dell’aspettativa di vita, evidentemente, ci sono diverse ragioni che spiegano perché le persone tendono a lavorare più a lungo:
Il ragionamento e la proposta che prende spunto da queste pagine si fonda sulla necessità di promuovere un maggior sostegno alle pensioni delle nuove generazioni rispetto al possibile ricorso al secondo pilastro previdenziale, vale a dire alla previdenza integrativa, sostenuta finanziariamente, in maniera solidaristica, dalla categoria dei Dirigenti, siano essi pubblici che privati, previo mantenimento in servizio per tutti fino ai 70 anni. In maniera similare con quanto avviene oggi per alcune limitatissime categorie di personale: magistrati di ogni ordine e grado, avvocati e procuratori dello Stato, docenti universitari, medici.
Evidentemente offrendo però la possibilità, seppur discrezionale, di poter andare comunque in pensione al raggiungimento degli attuali requisiti di vecchiaia (limiti anagrafici) o requisiti di anzianità (limiti contributivi).
Per la verità l’attuale maggioranza di governo ha già messo in campo e sostanziato una proposta/emendamento di modifica normativa che va in questa direzione. Vale a dire: per i dipendenti pubblici che hanno raggiunto il sessantasettesimo anno di età e non hanno raggiunto i 36 anni di contributi pensionistici possono, su base volontaria, richiedere che la permanenza in servizio prosegua fino al raggiungimento del settantesimo anno di età. Spetta all’amministrazione pubblica presso la quale il dipendente presta servizio accogliere la richiesta. Dall’attuazione della disposizione del presente comma non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
Ad essere ulteriormente puntuali non si può sottacere che la proposta di estendere a tutte le categorie di dirigenti pubblici la possibilità di permanere in servizio fino al compimento dei 70 anni anagrafici è frutto anche del contributo di una delle sigle di rappresentanza sindacale della Dirigenza pubblica più precisamente consentire che “la dirigenza dello Stato – ossia i dirigenti pubblici, di ministeri, presidenza del Consiglio dei ministri e Agenzie – sia equiparata a magistrati, professori universitari e medici” anche sotto il profilo dell’età pensionabile”.
Il motivo della permanenza in servizio che supporta le suddette due ipotesi (governativa e sindacale) è legato, evidentemente, però a sole convenienze economiche di chi permarrebbe a lavoro: sia esso un dirigente privato che un dirigente pubblico. Questo anche in virtù del fatto che spesso si arriva a coprire ruoli dirigenziali, apicali e non, negli ultimi anni della propria carriera lavorativa.
Ora, è di tutta evidenza che la permanenza nel profilo dirigenziale per più tempo possibile, soprattutto negli anni a ridosso della pensione, produce un’incidenza molto alta nel cosiddetto “montante” previdenziale e quindi nella formazione dell’assegno mensile di quiescenza.
L’idea dell’autore del presente articolo, di contro, però, si amplia e completa in maniera prospettica, ma soprattutto solidaristica, nei confronti delle nuove generazioni, e non soltanto ad esclusivo beneficio dei destinatari del prosieguo lavorativo.
In particolare, questa proposta, innovativamente, si fonda sulla destinazione dei contributi previdenziali che verrebbero versati dalla categoria dei soli dirigenti, nell’arco temporale che va da quando si verrebbe a maturare (a normative vigenti) il diritto alla pensione, fino al compimento dei 70 anni anagrafici. Questo numero medio di anni di contributi, da un minimo di 3 a un massimo di 5, considerando l’elevato livello medio reddituale pro-capite e conseguentemente l’elevato corrispondente importo di ritenute previdenziali, genererebbe risorse a favore di un “fondo previdenziale collettivo”, da poter amministrare separatamente, con gestione autonoma INPS. Tale accantonamento dovrebbe poi servire ad aprire e finanziare singole posizioni di “previdenza integrativa” costituendo, nel caso, due nuovi veicoli previdenziali (Fondi) uno per il personale del settore privato e uno per personale settore pubblico.
Evidentemente l’idea si sostanzierebbe tenendo conto comunque della non gravosità, in capo ai lavoratori dirigenti, relativamente al mancato computo, della quota di contributo previdenziale a carico del lavoratore, fino al raggiungimento appunto dei 70 anni che si aggira, per la gestione dipendenti privati, a circa 9%. mentre verrebbe a realizzarsi un accantonamento (risorsa finanziaria) a favore del Fondo previdenziale collettivo, sopra accennato, la restante quota a carico delle aziende, vale a dire circa il 27%.
Per la gestione dei dipendenti pubblici i contributi previdenziali in media si aggirano a carico dei lavoratori poco meno del 9%, a carico della PA circa il 25% quale media delle varie gestioni ex Inpdap.
Benefici: il lavoratore dirigente continuerebbe a garantirsi una retribuzione più elevata (scomputando a suo favore, con l’incremento del netto in busta paga, proprio la percentuale previdenziale posta a suo carico, di circa il 9% del salario lordo imponibile) comprensiva ovviamente del salario accessorio/risultato in molti casi considerevole, che ovviamente proseguirebbe a percepire, fino al raggiungimento dei 70 anni. L’Amministrazione pubblica si vedrebbe, pertanto, impegnata a versare la parte contributiva previdenziale, di circa il 25%, a proprio carico, da conferire al fondo costituito di “previdenza complementare” a favore delle nuove generazioni di lavoratori. I più giovani dipendenti vedrebbero costituirsi, presso il nuovo fondo di previdenza complementare, un montante utile all’intera platea dei lavoratori giovani neoassunti, per integrare la rispettiva pensione che si maturerebbe sul primo pilastro.
Secondo i dati Aran e quelli rilevati dal conto annuale RGS-IGOP al 31.12.2022 per il settore pubblico considerando una retribuzione media mensile lorda di circa € 8.000 e lorda annua di circa € 105.000, su una platea di circa 230.000 dirigenti di cui circa 115.000 dirigenti medici, si verrebbero ad accantonare circa € 25.000 annui cadauno a beneficio del neo Fondo/i di previdenza integrativa solidale.
Riassumendo, a fronte di una platea complessiva di dirigenti, sia del settore privato che del settore pubblico, ad oggi stimata nel nostro Paese in circa 380.000 unità di cui 230.000 settore pubblico e 150.000 settore privato, con un accantonamento medio annuo tra i 20.000 e i 25.000 euro per unità ed una stima prudenziale, escludendo la platea dei dirigenti del comparto sicurezza (circa 6.000 unità) e quelli non contrattualizzati (per i quali già è possibile il raggiungimento dei 70 anni di età anagrafica circa 14.000 unità) ossia circa 20.000 unità, si potrebbero applicare le nuove regole di pensionamento previsto in maniera uniforme al raggiungimento dei 70 anni per circa 350-360.000 unità. Ipotizzando la permanenza in servizio di almeno il 60% dell’intera platea avremo circa 200.000 unità dirigenziali interessate dall’operazione, che dovrebbero cubare, complessivamente, una cifra intorno ai 4 miliardi di euro annui, di accantonamenti a favore della previdenza integrativa quale efficace strumento di protezione sociale a beneficio delle nuove generazioni di lavoratori, e con particolare attenzione alle donne troppo spesso “obbligate” a carriere lavorative discontinue, se non interrotte, a causa delle maternità.
[*] Dirigente INL, Direzione Centrale Risorse - Uff. III° - Bilancio e Patrimonio. Professore a contratto c/o Università Tor Vergata, titolare della cattedra di “Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro” nonché della cattedra di “Diritto del Lavoro”. Il presente contributo è frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non impegna l’Amministrazione di appartenenza.
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