Commento all’ordinanza della Corte di Cassazione n. 4313 del 19 febbraio 2024
Il lavoro parziale si caratterizza per un orario ridotto rispetto al tempo pieno e può assumere la forma del contratto a tempo determinato o indeterminato in quanto non rileva il protrarsi della prestazione, ma il quantum della stessa.
Diverse sono le tipologie conosciute dal nostro ordinamento:
Il D.Lgs n. 81 del 2015 ha eliminato la necessità di indicare espressamente nel contratto la tipologia di part-time effettuata avendo valore la differenziazione per fini meramente descrittivi.
Il contratto va stipulato per iscritto ad probationem con indicazione:
Il lavoratore part-time ha i medesimi diritti di un lavoratore a tempo pieno e il trattamento economico è riproporzionato in relazione alla riduzione dell’attività lavorativa.
Il rapporto di lavoro a tempo parziale può essere trasformato a tempo pieno su accordo delle parti e senza alcuna particolare formalità. Il rifiuto alla trasformazione non costituisce giusta causa di licenziamento.
Di converso, anche il contratto di lavoro a tempo pieno può essere trasformato in part-time, ma tale mutamento non costituisce un diritto soggettivo del lavoratore se non in ipotesi di malattie oncologiche o gravi patologie cronico- degenerative ingravescenti.
L’ordinanza della Suprema Corte è stata emessa a seguito di impugnazione di una sentenza appellata pronunciata in un giudizio promosso da una lavoratrice part-time avverso l’Agenzia delle Entrate e il collega controinteressato per denunciare la discriminazione subita nella selezione per le progressioni economiche interne.
Il Tribunale di Genova, in primo grado, ha accolto il ricorso imponendo la cessazione del comportamento discriminatorio con condanna al pagamento delle maggiori retribuzioni maturate medio tempore.
Il Giudice di seconde cure ha respinto l’appello con conseguente condanna alla refusione delle spese in applicazione del principio di soccombenza, decisione impugnata dinanzi alla Corte di Cassazione.
L’oggetto del contendere sono le modalità di computo dell’anzianità di servizio ai fini della progressione economica e, in particolare, se il tempo parziale può essere causa di attribuzione di un punteggio ridotto tenuto conto del minor numero di ore lavorate.
La tesi sostenuta dalla ricorrente in primo grado e accolta dai giudici delle Corti territoriali identifica la riduzione del punteggio quale comportamento discriminatorio nei confronti dei lavoratori a tempo parziale con conseguente violazione del D.Lgs n. 61 del 2000 attuativo della direttiva 97/81/CE relativa all’accordo quadro concluso tra UNICE, CEEP e CES. Tale modalità di calcolo, indirettamente, comporterebbe anche una violazione dell’art. 25, comma 2 del D.Lgs n. 198 del 2006 in quanto al rapporto di lavoro parziale ricorrono soprattutto le lavoratrice che risulterebbero, pertanto, ingiustamente svantaggiate. È contestato, pertanto, il calcolo dell’anzianità di servizio in base alle ore effettivamente lavorate in quanto il tempo trascorso a lavoro è soltanto uno degli indici della maggiore esperienza, ma non l’unico.
La Corte di Cassazione respinge il ricorso proposto dal controinteressato adducendo diverse motivazioni. Innanzitutto riconduce nel corretto alveo esegetico l’art. 4 del D.Lgs n. 61 del 2000 riferito soltanto alla proporzione tra retribuzione e ore lavorate. Ai fini della valutazione del servizio pregresso conta, invece, l’esperienza che dipende dalle concrete circostanze di prestazione dell’attività lavorativa e dalla natura della funzione che si esercita senza alcun automatismo con la quantità delle ore della prestazione. I Giudice nomofilattici condividono anche la tesi sulla discriminazione indiretta in relazione al risultato finale non solo giuridico, ma sociale. Gli Ermellini definiscono come “fatto notorio” la maggiore richiesta di lavoro parziale da parte delle lavoratrici, quindi, l’attribuzione di un punteggio minore per il lavoro part time ai fini delle progressioni economiche significherebbe penalizzare le donne che “già subiscono un condizionamento nell’accesso al mondo del lavoro”.
L’ordinanza in commento aggiunge un importante tassello alla discussione sul gender gap in ambito lavorativo.
Da sempre l’essere donna è stato considerato un elemento di discriminazione per l’accesso al mondo del lavoro. Basti pensare che alcune professioni erano precluse al sesso femminile come, ad esempio, l’esercizio della professione forense o la magistratura.
Lidia Poët riesce ad iscriversi all’albo degli Avvocati soltanto nel 1920 diventando la prima avvocata d’Italia.
La situazione non era migliore di là delle Alpi dove Jeanne Chauvin, una delle prime donne avvocate nel 1907, è stata la protagonista, suo malgrado, di quindici cartoline satiriche riguardanti la figura della donna intenta a patrocinare durante l’allattamento.
Ancora Letizia De Martino, prima donna giudice d’Italia, riesce ad entrare in magistratura soltanto nel 1964 nonostante l’art. 50 della Costituzione sulla pari opportunità per l’accesso ai pubblici uffici fosse in vigore dal 1948 ben sedici anni prima.
Quelli riportati rappresentano pochi esempi delle difficoltà lavorative che le donne hanno da sempre.
Ancora oggi si conducono battaglie per la parità salariale e per avere medesime opportunità di ingresso al lavoro e di carriera.
Le differenze biologiche tra uomo e donna sono innegabili, soprattutto durante la fase della gravidanza ove si vive una condizione fisica e psichica particolare. Essa non può essere fonte di discriminazione, ma motivo di maggior tutela con l’utilizzo di tutti gli strumenti giuridici e sociali esistenti al fine di evitare, come si legge nell’ordinanza in commento, “il condizionamento nell’accesso al mondo del lavoro”.
Sarebbe bene partire da una modifica del linguaggio iniziando ad utilizzare il genere femminile per tutte le professioni e sugli atti e documenti amministrativi (sulla carta di identità ancora di legge “nato il…” indistintamente per tutti).
È necessario, infatti, accompagnare il cambiamento legislativo con quello culturale in quanto una società migliore è sempre possibile perché “c’è ancora domani”.
[*] In servizio presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, DG Politiche Previdenziali e Assicurative, Divisione I. Le considerazioni contenute nel presente articolo sono frutto esclusivo del pensiero dell’autrice e non hanno in alcun modo carattere impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.
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