Una critica a Cassazione penale n. 38914/2023
La recente sentenza della Suprema Corte che ha confermato la condanna di un RLS a titolo di cooperazione colposa, ex art. 113 c.p., nell’omicidio di un lavoratore, segna indubbiamente il punto di maggiore distanza mai raggiunto tra giudicati giuslavoristi e penali; cosa che, già di per sé, importa un’insostenibile aporia nel più ampio e superiore coordinamento tra princìpi legali del medesimo ordinamento giuridico.
Tale contraddizione è ancor più grave se si considera che la diversità di vedute è connessa al ruolo, alle prerogative ed alle responsabilità individuali di una figura chiave nell’organigramma organizzativo in materia di salute e sicurezza sul lavoro.
Sennonché, l’attuale emergenza sociale legata alla recrudescenza del fenomeno delle morti bianche non consente contraddizioni ed ambiguità sul riparto delle obbligazioni di sicurezza nei luoghi di lavoro, almeno non di tale livello e non su aspetti di una simile centralità.
Prima di procedere con un’ordinata esposizione dei fatti di causa, è doveroso osservare che, sin dall’emanazione dello Statuto dei lavoratori, al di là del piano individuale, si è cercato di tutelare l’interesse collettivo alla sicurezza sul lavoro con una norma, l’art. 9 della L. 300/1970, che tutt’oggi dispone «I lavoratori, mediante loro rappresentanze, hanno diritto di controllare l'applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l'elaborazione e l'attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica».
Successivamente, con il D.lgs. n. 81/2008 si è fornita la disciplina di dettaglio del principio generale di cui al suddetto art. 9, con l’istituzione, in tutti i luoghi di lavoro, della figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS) a cui sono attribuiti specifici poteri e garanzie: il legislatore ha, infatti, ideato una normativa “di sostegno” all’agire sindacale nei luoghi di lavoro in materia di salute e sicurezza, senza che in capo a questi siano ascrivibili obblighi e doveri, generali o specifici che siano.
A tal proposito, il T.U.S.L., all’art. 47, chiarisce che «in tutte le aziende, o unità produttive, è eletto o designato il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza», e che esso è istituito «a livello territoriale o di comparto, aziendale e di sito produttivo», ragion per cui nessuna azienda – grande, piccola o piccolissima che sia – può essere priva di una simile rappresentanza.
La ratio della norma risponde all’esigenza di offrire ai lavoratori la possibilità di “partecipare” al sistema di prevenzione, costituendo, il rappresentante, il punto di congiunzione tra risorse umane impiegate e il vertice aziendale.
Da questo punto di vista la normativa italiana ha dato attuazione alla Direttiva quadro 89/391/CEE, nella quale, disegnando un modello di sicurezza “diffuso” in azienda, sono state previste le figure del rappresentante dei lavoratori e del responsabile del servizio di prevenzione e protezione.
In altri termini, il testo unico ha delineato un modello di prevenzione nei luoghi di lavoro, in cui l’obiettivo prefissato è da raggiungere attraverso la collaborazione e la sinergia di più soggetti e che non viene rimesso unicamente in capo al datore di lavoro.
Ebbene, l’RLS (al pari dell’RLST...) è dunque un soggetto esponenziale degli interessi dei lavoratori in materia di salute e prevenzione sui luoghi di lavoro, con poteri e facoltà novellati dall’art. 50 del T.U.S.L.
Quest’ultimo articolo, in estrema sintesi – al di là di quanto ritenuto dall’arresto di legittimità in commento – prevede una serie di «attribuzioni» che possono essere raggruppate in quattro macrocategorie, ovvero informazione, consultazione, proposta/segnalazione ed accesso: prerogative tra loro eterogenee, che vanno dal diritto di accesso ai luoghi di lavoro, alla preventiva consultazione, alla possibilità di essere informato e di poter formulare proposte, fino alla facoltà di ricorrere all’autorità giudiziaria.
La mancanza di poteri decisionali, la sua incompatibilità con l’incarico di responsabile o addetto al servizio di prevenzione e protezione e l’assenza di previsioni, a suo carico, di sanzioni amministrative e/o penali rende palese l’impossibilità di una posizione di garanzia (che, ex art. 2087, è in capo al datore e ai suoi delegati nell’organizzazione d’impresa).
Un impiegato tecnico, adibito alle mansioni di magazziniere senza aver ricevuto al riguardo alcuna formazione, rimaneva mortalmente coinvolto dalla caduta di una serie di tubolari d’acciaio da lui stesso stoccati, con l’ausilio di un muletto (per l’utilizzo del quale non era stato formato), in un’apposita scaffalatura, poi risultata difettosa per l’inadeguatezza delle relative alette contenitive.
Per questa triste vicenda, la Cassazione, adesiva rispetto ai precedenti gradi di giudizio, ha ritenuto responsabile dell’omicidio colposo il datore di lavoro e, «richiamati i compiti attribuiti dall’art. 50» del T.U.S.L., il rappresentante per la sicurezza dei lavoratori, in ragione della sua cooperazione colposa nel delitto.
In particolare, all’RLS è stata imputata la totale omissione di intervento in relazione all’assegnazione di un impiegato a mansioni operaie specializzate («consentendo che il P. fosse adibito») e la mancanza di solleciti rivolti al datore di lavoro volti all’adozione di modelli organizzativi in grado di preservare la sicurezza dei lavoratori.
La scarna motivazione giuridica a sostegno del decisum non permette un’analisi dell’iter logico-giuridico seguito dai giudici di legittimità.
A sommesso avviso dello scrivente, tuttavia, occorre rilevare che:
Sul punto non dovrebbero esservi dubbi, in considerazione del fatto che, al contrario di quanto novellato per i datori, i dirigenti, il preposto etc. (per i quali espressamente sono stabiliti obblighi), il T.U.S.L. all’art. 50 non a caso fa espresso riferimento ad «attribuzioni del rappresentante dei i lavoratori per la sicurezza» e all’esercizio delle sue «funzioni»:
l’unico suo obbligo è contenuto al sesto comma dell’articolo in parola, allorquando è previsto «Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è tenuto al rispetto delle disposizioni di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 e del segreto industriale relativamente alle informazioni contenute nel documento di valutazione dei rischi».
La sicurezza sul lavoro, prendendo in prestito le icastiche parole del Professore P. Pascucci, «pur costituendo un ambito speciale del diritto penale, al tempo stesso rappresenta un naturale terreno di elezione del diritto del lavoro».
Nel suo terreno di elezione, dunque, il giuslavorista ha una sviluppata sensibilità giuridica per ammonire circa il potenziale devastante impatto che la sentenza n. 38914/2023 avrà sul futuro del libero esercizio delle prerogative sindacali in azienda.
Ebbene, a fronte di un incarico che non ha una specifica retribuzione, è facile immaginare una generale “fuga” dal ruolo di quanti – con senso di responsabilità collettiva – abbiano scelto di farsi portavoce delle istanze di sicurezza dei lavoratori.
Un rischio di disaffezione tale da far auspicare l’introduzione di uno “scudo penale” per le prerogative tipiche dell’incarico dell’RLS.
A tal proposito, ci si limita a far presente che il modello riproducibile è quello avutosi in relazione alla responsabilità datoriale, introdotto dalla dall’art. 24-bis della L. n. 40 del 2020, aggiunto in sede di conversione al D.l. “liquidità”, sull’assolvimento dell’obbligo prevenzionistico ex art. 2087 c.c. da contagio Covid-19.
La positivizzazione di uno “scudo” per le imprese, infatti, si era resa necessaria in ragione della natura dell’art. 2087 c.c. quale norma “elastica” e a schema aperto e, dunque, per il concreto rischio che anche il rispetto pedissequo dei protocolli condivisi (nazionali o regionali), non avrebbe, comunque, posto al riparo da addebiti di responsabilità il datore di lavoro al di là delle rassicurazioni espresse al tempo dall’INAIL (per un approfondimento, sia consentito un rimando a E. Erario Boccafurni “L’art. 2087 c.c. e il valore del protocollo sindacato-azienda nella definizione del perimetro della responsabilità datoriale”, in Diritto della Sicurezza sul Lavoro, n. 2/2020).
[*] Avvocato e Dottore di ricerca in Diritto del lavoro ‒ Università di Roma “La Sapienza”, già Assegnista di Ricerca in Diritto del Lavoro presso l’Università “Carlo Bo” di Urbino. Attualmente è responsabile del Processo Pianificazione e Controllo della Direzione Interregionale del Lavoro del Centro. Le considerazioni contenute nel presente scritto sono frutto esclusivo del pensiero dell’Autore e non hanno in alcun modo carattere impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.
Seguiteci su Facebook
>