Ho letto con interesse l’intervista rilasciata qualche tempo fa a Enrico Marro del Corriere della Sera dal direttore dell’Ispettorato del lavoro, Paolo Pennesi, sulla grave questione degli infortuni sul lavoro e sull’attuale incapacità delle strutture pubbliche di contrastarli in modo efficace. Egli individua cause e responsabilità da ripartire equamente tra imprese e soggetti pubblici di vigilanza.
Per quel che riguarda i datori di lavoro, tiene a sottolineare soprattutto due elementi. Al primo posto mette l’inosservanza delle norme. Le misure di prevenzione, infatti, vengono disattese sia per i loro costi sia perché possono confliggere con i tempi di lavoro che devono essere rapidi secondo il motto il tempo e denaro. Questo modo di pensare criminale, purtroppo, pone l’interesse alla sicurezza dei lavoratori in secondo piano rispetto al profitto. Esso è soprattutto diffuso nel bracciantato , dove persiste ancora il caporalato e negli appalti. Qui la situazione è grave anche per la modesta presenza se non addirittura la assenza del sindacato, trattandosi prevalentemente di lavoro nero. C’è poi come secondo elemento il problema della formazione spesso trascurata dalle aziende; non sono infrequenti, inoltre, casi in cui anche quando essa è stata acquisita, non viene tradotta nei comportamenti consequenziali.
La grave carenza di personale, secondo Pennesi, è la causa principale dell’inadeguatezza delle strutture pubbliche di vigilanza. Questo elemento, infatti, restringe il campo degli accertamenti e nel 2023 il numero delle aziende ispezionate è stato pari a circa ventimila, vale a dire un modestissimo 1% di quelle interessate.
Questa valutazione mi trova in disaccordo non perché il problema non esiste; è, infatti, di tale evidenza che nessuno potrebbe negarlo. Il mio dissenso si riferisce al fatto che tale problema più che una causa, è l’effetto del gravissimo errore commesso in occasione dell’istituzione dell’Agenzia dell’ispezione del lavoro. Nel 2015, infatti, è stato creato un organismo assolutamente inadeguato rispetto alle esigenze della vigilanza. All’epoca in tanti abbiamo sperato che il progetto potesse rappresentare una svolta storica con la riunificazione della funzione ispettiva dispersa in mille rivoli. Purtroppo non è stato così.
Salvo l’esultanza di quelli più attenti alla forma che alla sostanza che definirono quel passaggio l’inizio di un processo rivoluzionario, i più avvertiti si resero conto che quella era stata un’occasione sprecata e che la nuova creatura nasceva zoppa in quanto la situazione era rimasta pressoché invariata, salvo qualche lieve, superficiale belletto inserito nella norma, per cercare di nascondere la realtà. Se si fosse fatta la vera riforma con i mezzi adeguati, avremmo molto più personale ispettivo oggi disperso nei vari enti previdenziali e locali. Inoltre, e questo è forse il dato più importante, una ritrovata efficienza avrebbe potuto costituire per i giovani vincitori di concorso un’attrazione per un posto e una funzione dignitosi invece dell’attuale caotica situazione funzionale ed economica che li spinge al rifiuto.
In un articolo scritto per questo periodico, all’epoca dell’emanazione del decreto legislativo, istitutivo dell’agenzia, intitolato non a caso Il cambio della targa, affermavo tra l’altro: “Ci sembra che la montagna abbia partorito un topolino, oltretutto rachitico. Fuori di metafora l’ambizioso progetto governativo è stato sostituito da una superficiale verniciatura dell’esistente. La nuova agenzia o ispettorato unico non sarà un organismo unificante, ma un soggetto pubblico che va ad aggiungersi all’esistente”.
L’inadeguatezza attuale, dunque, trova la sua causa prima nella mancata riunificazione della funzione di vigilanza. Gli altri elementi pur importanti sono solo consequenziali. Ciò è di una tale evidenza che il non volerla ammettere costituisce uno strano tabù a livello politico e dell’alta burocrazia. È noto, infatti, che la vigilanza sulla sicurezza dal 1978 è stata gestita dalle autonomie locali in regime di monopolio e da circa tre anni in condominio con l’Agenzia dell’ispettorato del lavoro. Eppure, dopo la tragica morte dell’indiano Satnam Singh, ai tavoli convocati e presieduti dal Ministro del Lavoro non sono stati invitati i rappresentanti delle regioni; non c’è più neanche il minimo interesse a una parvenza di coordinamento. Le stesse misure previste per contrastare tale drammatico fenomeno, vale a dire l’assunzione di altri 750 ispettori, sembra solo fuffa per l’opinione pubblica. Con l’aggiunta, infatti, di tali nuove forze si arriverà, forse, a ispezionare il 2% delle aziende interessate, una vera miseria certamente non in grado di debellare gli infortuni né tanto meno di ridurli in modo consistente. Basta pensare che nel solo primo quadrimestre del 2024 quelli denunciati sono stati 194.000. Senza la razionalizzazione e la riunificazione degli attuali servizi di vigilanza e sostanziali investimenti le cose, purtroppo, non potranno cambiare radicalmente. È sempre valido il vecchio adagio, l’unione fa la forza. Al contrario la disunione fa la debolezza.
[*] Giornalista e scrittore. Consigliere della Fondazione Prof. Massimo D’Antona
Seguiteci su Facebook
>