Esiste un tema tanto presente ed attuale, quello della sicurezza sul lavoro, nel nostro Paese che, inspiegabilmente, però, non viene giustamente “attraversato” da una prospettiva che risulta quasi completamente inedita, sconosciuta: ovvero il punto di vista umano.
La psicologia dei gruppi e delle persone anche attraverso il loro comportamento, la loro competenza, le loro abitudini, costruiscono la “reale” sicurezza sul lavoro e i risultati positivi che ne conseguono.
Il “benessere sul lavoro” che non sia semplicemente legato all'assenza o riduzione di malattie o di infortuni, rappresenta una dimensione complessa che pone l'essere umano in grado di dare dignità, significato e valore al proprio lavoro. È questa la vera sicurezza che un'organizzazione efficace e competitiva deve essere in grado offrire.
Bisognerebbe quindi poggiarsi, proattivamente, sullo studio della psicologia del lavoro. Tenere conto dell'evoluzione dei fattori di contesto che hanno condizionato e condizionano lo svolgimento delle attività lavorative tutte e, di conseguenza, il loro studio psicologico: dalle nuove tecnologie, agli sviluppi delle modalità di lavoro da remoto, dalle interazioni con il mondo imprenditoriale, agli investimenti tecnologici per la sicurezza.
I segreti del successo di un'organizzazione risiedono, spesso, nella sua cultura: che significa norme di comportamento, relazioni dinamiche fra i suoi componenti. Creare e sviluppare studi sulla “sicurezza psicologica” nel lavoro favorendo l’innovazione e la condivisione delle competenze. In una parola plasmare ambienti di lavoro sicuri anche dal punto di vista psicologico.
La gestione scientifica dei comportamenti applicata alla sicurezza sul lavoro (Behavioral Safety) ha dimostrato in quasi 40 anni di applicazione, la sua provata efficacia nel ridurre gli infortuni e migliorare il clima aziendale.
Poniamoci ora delle legittime domande a cui tentare di dare risposte. Perché in Italia nel 2023 si contano ancora oltre 1.041 morti (senza considerare le mancate denunce all’INAIL) e circa 600.000 incidenti sul posto di lavoro? È solo un problema di mancate applicazioni della norma? Se aumentando i controlli in modo pienamente efficace, e applicando più rigidamente le norme, quanti incidenti in meno potremmo realisticamente contare? La sicurezza sul lavoro può limitarsi ad essere un tema di natura eminentemente legislativo? O meglio sarebbe considerarla anche in un'ottica profondamente culturale?
Dotarsi collettivamente di un “approccio culturale” alla sicurezza in azienda e nelle imprese, rappresenta un modello formativo e innovativo a cui si potrebbe tendere, ideato e già sperimentato in alcune importanti realtà imprenditoriali. Il modello persegue tre finalità principali: supportare l'azienda nella realizzazione di percorsi formativi sulla sicurezza, coinvolgenti e funzionali a una reale sensibilizzazione al rischio e alla prevenzione, oltre al rispetto formale della legge; facilitare, a livello individuale, l'acquisizione della sicurezza come valore profondo, insito, indipendente da ruoli e mansioni, soprattutto nella vita professionale; favorire a livello sociale la diffusione di una “cultura organizzativa” orientata alla sicurezza, della quale ciascuno diventi attore e garante al tempo stesso.
Con tutta evidenza, quindi, la formazione dei lavoratori, rappresenta un pilastro essenziale per la prevenzione e la sicurezza sul lavoro. Non si tratta solo di ottemperare ad obblighi di legge, a certificazioni: ma bensì si raffigura quale investimento strategico per la vita e l’esistenza di imprese, enti, amministrazioni.
Questa condizione è la psychological safety (in italiano sicurezza psicologica). L’espressione psychological safety è stata coniata da Amy Edmondson, Professoressa presso la Harvard Business School, che definisce la sicurezza psicologica come la convinzione condivisa nel gruppo di lavoro di sentirsi al sicuro nel non correre dei rischi.
Nella piramide dei bisogni, elaborata dallo psicologo Abraham Maslow per identificare gli elementi alla base della motivazione, la sicurezza fa parte dei bisogni primari ed è il secondo livello della piramide, immediatamente successivo alle esigenze fisiologiche.
Proprio come la sicurezza sul lavoro – intesa quale insieme di norme e comportamenti virtuosi per contrastare infortuni e malattie professionali, che comprendono anche lo “stress da lavoro correlato” – anche quella psicologica ha bisogno di regole e richiede che queste siano condivise a tutti i livelli.
La sicurezza è un concetto multidisciplinare e multidimensionale, riferito a tutte le situazioni e a tutti gli ambienti di vita delle persone, compresi, in maniera particolare, i luoghi di lavoro, che comprende due “accezioni”, ossia ambiti, strettamente correlate, quella “valoriale” e quella “tecnica”.
L’accezione valoriale considera la “sicurezza” non solo come insieme di norme che spingono ad una protezione in un certo senso “coercitiva”, ma come principio compreso nella nozione più ampia di salute e quindi come “diritto primario” della persona e come valore fondamentale fortemente tutelato dalla nostra Carta Costituzionale (di cui agli artt. 2, 4, 32, 35 e 41).
Un’altra definizione della sicurezza si sostanzia nella “etica della responsabilità individuale e sociale” che ne consegue, cioè, è il modo in cui i singoli e le comunità proteggono i propri valori, in risposta a bisogni primari perseguiti, quali: salute, lavoro, educazione, previdenza, tutela dell’ambiente, sviluppo sostenibile, coesione sociale, convivenza, sicurezza pubblica.
Ma la sicurezza, come evidenziano i rapporti informativi sull’andamento degli infortuni sul lavoro dell’INAIL, è anche frutto di un’efficace organizzazione e gestione delle condizioni di esercizio lavorativo e di impresa. Esistono anche, evidentemente, pericoli di variegata natura i quali hanno portato all’incremento di reazioni psicopatologiche definibili da stress correlate.
Al fine di orientare positivamente i comportamenti dei nostri colleghi e collaboratori, si dovrebbe generare una comunicazione maggiormente improntata, altresì, al concetto di sicurezza psicologica. La sicurezza è anche un fenomeno che si sostanzia ed evolve a livello di gruppo, che genera apprendimento di schemi comunicativi efficaci, che si riflettono nella creazione di comportamenti virtuosi altrettanto efficaci, come di prestazioni lavorative migliori e maggiormente tutelate.
Nel mondo del lavoro, la sicurezza è una priorità assoluta, lo stiamo riscontrando quotidianamente… Proteggere la salute e il benessere dei dipendenti rientra nelle normative volte a favorire un ambiente di lavoro positivo e maggiormente produttivo. È provato che dove si lavora bene, si lavora meglio e di più. La sicurezza sul lavoro non riguarda solo l’implementazione di procedure, protocolli e l’uso di dispositivi di protezione DPI, ma deve implicare anche la psicologia conscia e inconscia dei dipendenti.
Coinvolgere i dipendenti attraverso la comprensione della psicologia della sicurezza sul lavoro, deve poter essere una sfida da vincere, da parte della nuova classe imprenditoriale ed élite produttiva.
Alla luce di ciò, è fondamentale, al fine di raggiungere un “legittimo” livello di sicurezza, utilizzare un punto di vista, se vogliamo, “antropocentrico” che ponga il lavoratore al centro dell’analisi per l’individuazione, la valutazione e la gestione dei rischi lavorativi.
Bisogna, al contempo, rendere i lavoratori non solo fattivamente partecipi del sistema di gestione della sicurezza, ma anche protagonisti delle interazioni che si realizzano con macchine ed attrezzature, all’interno dei cicli e processi produttivi.
L’ambiente lavorativo, con i suoi rischi presenti, andrebbe analizzato in virtù della coesistenza di tre componenti: lavoratore-macchina-ambiente.
Parallelamente si dovrebbero riversare sui lavoratori delle competenze complementari a quelle puramente tecniche, tali da “governare” l’ambiente lavorativo ed interagire con esso, a livello di comportamenti maggiormente sicuri, creando una rinnovata classe di lavoratori.
Partiamo da questo assunto: la psicologia applicata può influenzare positivamente la sicurezza sul lavoro, in quanto intesa come coinvolgimento e percezione intrinseca dei dipendenti, nel loro contesto lavorativo. Infatti, è fondamentale attenzionare il fatto di come i lavoratori avvertono i rischi e su come, questa percezione, influisce sul loro comportamento nell’ambiente lavorativo circostante.
Coinvolgere i dipendenti nel promuovere la sicurezza è necessario, direi fondamentale. Quando i lavoratori si sentono coinvolti e responsabilizzati su prevenzione e sicurezza, sono più inclini a rispettare regole, protocolli e ad adottare “comportamenti sicuri”.
Assume, quindi, una particolare valenza, quella che possiamo descrivere come “psicologia organizzativa”, la stessa che può fornire strumenti e approcci che sappiano coinvolgere i dipendenti nella concreta, congiunta, pianificazione delle attività di sicurezza, creando un senso di responsabilità collettiva. Per questo è importante, al contempo, incoraggiare una comunicazione aziendale aperta, e la capacità di gestire, efficacemente, lo stress anche di tipo collettivo, al fine di migliorare la consapevolezza e l’impegno dei dipendenti tutti, verso il maggior grado di sicurezza sul lavoro.
Si possono certamente attuare delle strategie per coinvolgere maggiormente i dipendenti nella promozione della sicurezza:
Anche i dirigenti, i supervisori, i coordinatori, hanno un ruolo cruciale nella promozione della sicurezza. Devono essere essi stessi modelli di comportamento sicuro e sostenere attivamente le iniziative di sicurezza.
Ad ogni modo la gestione dei rischi risulta essere elemento cardine della sicurezza sul lavoro che coinvolge lo spettro psicologico. La percezione dei rischi, è un fatto, varia da individuo a individuo, e spesso le persone tendono a sottovalutare i rischi o a relegare gli accadimenti ad eventi puramente fatalistici.
Risulta quindi maggiormente comprensibile come l’incorporare la psicologia nella sicurezza sul lavoro, non è solo una questione di regole e regolamenti, ma è un modo per comprendere meglio i comportamenti umani, per creare un ambiente di lavoro maggiormente salubre, sicuro e aggiungiamo produttivo. È proprio attraverso la comprensione e l'applicazione di dettati psicologici che possiamo declinare un ambiente di lavoro dove la sicurezza si concepisce come parte integrante di una moderna “cultura aziendale”.
Intervenire anche rispetto alla salute organizzativa permette di essere sincronizzati con le più recenti indicazioni comunitarie sulla prevenzione dei rischi psicosociali e con la più recente direttiva del ministro della Funzione pubblica sulle misure finalizzate al miglioramento del benessere organizzativo nelle pubbliche amministrazioni.
Risultano inoltre essenziali alcune componenti come: la fiducia, il lavoro di squadra, la flessibilità, l’empatia, quali elementi facilitatori nella gestione della sicurezza in ogni ambiente di lavoro.
È importante perciò, che le aziende, le imprese, le Amministrazioni, ascoltino i propri lavoratori, sia in termini di proposte e idee, sia in termini di preoccupazioni, generando quello che può essere definito un “ascolto empatico”, in materia di prevenzione e sicurezza, volto a comprendere gli stati d’animo, a gestirli e a risolverli anche collettivamente. E qui che dovrebbe svolgere un ruolo determinante la figura dell’RLS – rappresentante dei lavoratori per la sicurezza.
Uno dei concetti fondamentali della psicologia della sicurezza è il comportamento umano. Ogni giorno, i lavoratori prendono decisioni che possono influenzare la loro sicurezza e quella del gruppo di lavoro a cui appartengono. Queste decisioni sono guidate da una varietà di fattori psicologici, come la percezione del rischio, le norme sociali, e la motivazione.
Quindi, la percezione del rischio visto come aspetto critico. I lavoratori spesso “sottovalutano” i pericoli associati alle loro attività lavorative rutinarie, soprattutto se hanno compiuto quelle attività per anni senza incidenti. La psicologia ci insegna che la “confidenza” con una funzione svolta, può portare ad un falsata/errata percezione di sicurezza. È quindi importante implementare programmi di formazione che rinnovino, costantemente, la consapevolezza complessiva dei rischi.
Ma spingiamoci oltre. Compito imprescindibile, per chi ha ruoli manageriali e di governo, dovrebbe anche essere quello di creare e promuovere una “forte” cultura della sicurezza, ad impatto profondo, dove questa sfocia in responsabilità collettiva.
Al contempo la stessa “motivazione” risulta essere un altro fattore chiave. Incentivare i lavoratori a prendersi cura della propria sicurezza e di quella altrui, ha una sua effettiva efficacia. Parimenti, coinvolgere i lavoratori nella creazione e nel miglioramento delle “procedure di sicurezza” può aumentare il loro impegno e il loro appoggio.
Il concetto di prevenzione sul lavoro è definito dall’art. 2 del D. Lgs. 81/08. come: “Il complesso delle disposizioni o misure necessarie, anche secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, per evitare o diminuire i rischi professionali, nel rispetto della salute della popolazione e dell’integrità dell’ambiente esterno”.
L’insieme di normative, valutazioni e buone prassi, giocano un ruolo fondamentale nella prevenzione di rischi e pericoli per la salute e la sicurezza dei lavoratori, e questo si ricollega agli obblighi che un datore di lavoro deve rispettare, nei confronti dei suoi dipendenti e collaboratori, per ridurre il numero di possibili infortuni e malattie professionali.
Nello specifico, la normativa stabilisce che il titolare di un’azienda è tenuto a mettere in campo tutte le azioni di prevenzione adeguate ai possibili rischi dell’attività lavorativa specifica. Ciò, in modo tale da eliminare o ridurre il più possibile gli incidenti sul luogo di lavoro. A questo scopo serve la redazione di un fondamentale documento chiamato DVR-documento valutazione rischi, per mezzo del quale “dovrebbe” essere svolta un’analisi capillare dei processi e delle attività lavorative. Questa valutazione è un “processo essenziale” per identificare, valutare e gestire i rischi professionali che i lavoratori possono incontrare nei loro ambienti di lavoro e nelle diverse attività svolte.
Esistono tre principali tipi di rischi professionali, ciascuno dei quali richiede una valutazione specifica:
La valutazione dei rischi necessita anche in caso di riorganizzazione della produzione, introduzione di nuove mansioni o cambiamenti significativi nell’organizzazione generale del lavoro. Inoltre, una nuova valutazione può essere doverosa, in caso di infortuni sul lavoro, o se i risultati della sorveglianza sanitaria rivelano la necessità di ulteriori misure preventive.
C’è, poi, la formazione dei lavoratori, un pilastro essenziale per la prevenzione e la sicurezza sul lavoro. Non si tratta solo di ottemperare agli obblighi di legge: è un investimento strategico per ogni impresa.
È fatto acclarato che tutti gli ambienti di lavoro sono ricolmi di variegati rischi e spesso la prevenzione sul lavoro viene sottovalutata. Si pensa ad esempio, erroneamente, che un ufficio possa celare scarse insidie e di conseguenza afflitti da rari accadimenti infortunistici. In realtà, non è così: assodato che, un ufficio è generalmente meno pericoloso di un cantiere edile, di una fabbrica o un laboratorio, di un hub della logistica, o un terreno agricolo, frequentemente a contatto con macchinari, attrezzature e sostanze pericolose, anche un posto di lavoro impiegatizio, apparentemente privo di insidie, in realtà può causare dei danni, infortuni o malattie professionali invalidanti e permanenti, come pure possibilità di contrarre patologie dovute alla insalubrità dell’ambiente, o a stress da lavoro correlato.
Partiamo dal presupposto che in ogni impresa, come in qualsiasi altra realtà di vita e lavoro, il rischio non potrà mai essere considerato pari a zero, vediamo come perseguire obiettivi di sicurezza ed efficienza.
Le variabili del processo cognitivo di analisi-sintesi, sono innumerevoli e confluiscono nel concetto dello “human factor” che identifica appunto la disciplina che si occupa del cosiddetto “fattore umano”. Esso viene utilizzato per studiare le modalità con le quali l’essere umano si colloca ed agisce, in senso fisico e interpersonale, nel suo contesto lavorativo.
Vengono osservati i comportamenti mentre espleta le sue mansioni, mentre utilizza gli strumenti di lavoro, nel contesto delle procedure. L’obiettivo di tale ricerca è aumentare i livelli di sicurezza delle operazioni e cicli produttivi.
Sappiamo, da esperienze sul campo, che la maggior parte degli incidenti ed infortuni sul luogo di lavoro, si verifica a causa di comportamenti “incerti” o “non codificati”, piuttosto che per l’assenza o carenza di dispositivi di sicurezza e di protezione individuale.
Tra gli studiosi dei sistemi “safety” viene ormai diffusamente riconosciuta l’importanza delle cosiddette “non-technical Skills”, ovvero l’entrata in gioco di quelle “competenze non tecniche”, cruciali nella gestione del rischio, tra le quali citiamo:
Risulta pertanto necessario sottolineare come sia importante l’acquisizione, da parte di ogni singolo lavoratore, proprio delle competenze non-tecniche, sia per “gestire la sicurezza” sia per “creare una vera cultura della sicurezza sul lavoro”.
La variegata casistica osservata, relativa agli infortuni sul lavoro, attribuisce, evidentemente, al “fattore umano” una responsabilità preponderante, nella maggior parte degli infortuni.
Tra le eventuali cause di incidente e sottovalutazione dei rischi, possiamo identificare quattro componenti:
Una persona soggetta a questi fattori generalmente riscontra diverse problematicità: apatia, indifferenza, difficoltà a concentrarsi, bassa produttività, nervosismo, ansia, ecc. È importante essere consapevoli delle proprie capacità e dei fattori ambientali, questo aiuta a gestire meglio tali “nostri limiti”. Risulta, altresì, necessario definire il concetto di “comportamento sicuro”. Lo studio dei comportamenti, si sono concentrati sull’analisi degli errori e sulle “competenze cognitive” note, appunto, come “non technical skills”.
Il focus delle numerose ricerche in materia si è concentrato sulla questione della “affidabilità umana” intesa come “probabilità di riuscire a portare a termine un determinato compito senza commettere errori”. Il Fattore Umano si riferisce a quegli elementi quali lavoro, organizzazione, e individuo, che hanno influenza sul comportamento e, dunque, anche conseguenze sugli obiettivi di salute e sicurezza.
Ciò implica, evidentemente, la tendenza a “minimizzare” la presenza di errori: le più dirette applicazioni connesse agli studi sul fattore umano analizzano, infatti, l’errore umano, inteso come sbilanciamento tra le componenti del sistema “uomo-macchina-ambiente” che provoca un abbassamento dell’affidabilità dell’intero sistema, pur considerando singolarmente le componenti in grado di mantenere una elevata affidabilità.
Il “Fattore Umano” si riferisce, quindi, al lavoro, organizzazione e individuo; tutti e tre questi fattori influiscono sul comportamento e quindi anche sulla salute, igiene e la sicurezza nel luogo di lavoro. Per ridurre, pertanto, i rischi connessi al fattore umano occorre intervenire, in primis, sulle regole di gestione del lavoro e poi sul comportamento attivo del singolo individuo.
La normativa Europea in materia di salute e sicurezza sul lavoro riconosce l’importanza dell’Human Factor e sottolinea la necessità di creare modelli organizzativi che ne tengano conto, modelli che includano la formazione e l’informazione del lavoratore come pure la programmazione di attività che vedano coinvolti tutti i lavoratori (azioni di prevenzione). Tali principi vengono riportati dalla norma UNI ISO 45001 (Occupational health and safety management systems).
La prevenzione dei rischi, nei luoghi di lavoro, deve vagliare il sistema lavorativo nel più ampio spettro, quindi, prendere in considerazione tutte le condizioni, attive e passive, che potrebbero condurre a un infortunio. Secondo diversi studi il Fattore Umano ricopre oggi una oggettiva predominanza nella vastità di incidenti sul lavoro.
Ad ogni modo, per poter valutare l’effettiva incidenza del Fattore Umano, andrebbe indagato come poter creare sistemi, in grado di sterilizzare o almeno minimizzare i “comportamenti negligenti” o difformi rispetto a quanto previsto dalla norma e dai piani di sicurezza in essere. Comunque, in questo frangente, è fondamentale distinguere le casistiche rispetto a comportamenti scorretti, ovvero, errori involontari.
In conclusione, un’attenta analisi di contesto organizzativo dovrebbe compendiarsi della valutazione del “trinomio” esistente: uomo/ambiente/macchine, potendo mostrare come le prestazioni dell’uomo siano decisamente influenzate dalle caratteristiche organizzative e dell’ambiente esterno di lavoro. La riduzione degli errori umani e l’ottimizzazione del rendimento sul lavoro è possibile riconoscendo, innanzitutto, i limiti, le capacità e le esigenze umane e successivamente progettando, modificando dette caratteristiche dove egli opera, in modo da renderle adeguatamente compatibili al contesto generale.
Esiste ancora oggi (pur andando incontro alle evoluzioni imposte da un crescente impiego della IA in ambiti lavorativi) un intervento umano nell’attività produttiva, caratterizzato dalle qualità personali dell’individuo, in connessione con gli altri individui e con l’impegno lavorativo. Lo stesso contesto sociale di riferimento, nel quale si colloca l’attività lavorativa e le micro-comunità aziendali, va analizzato, osservando la tipicità del lavoro nei suoi contenuti rispetto al lavoro di equipe.
[*] Dirigente INL, Direzione Centrale Risorse - Uff. III° - Bilancio e Patrimonio. Professore a contratto c/o Università Tor Vergata, titolare della cattedra di “Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro” nonché della cattedra di “Diritto del Lavoro”. Il presente contributo è frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non impegna l’Amministrazione di appartenenza
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