Anno XII - n° 64

Rivista on-Line della Fondazione Prof. Massimo D'Antona

Luglio/Agosto 2024

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La morte di Satnam Singh e quello che si deve fare per sconfiggere il caporalato


di Matteo Ariano [*]

Matteo Ariano 46

Nelle scorse settimane ha destato scalpore e ribrezzo quanto accaduto a Satnam Singh, un lavoratore migrante di origini indiane impiegato nelle campagne di Latina. Questi, probabilmente senza un contratto di lavoro, si era visto amputare il proprio braccio da un macchinario presente nell’azienda agricola dove lavorava e sarebbe stato abbandonato dal “datore di lavoro”, addirittura da questi privato del telefono cellulare per non poter comunicare quanto era accaduto. Dopo poche ore, Satnam Singh è morto. Possiamo solo immaginare quale immane sofferenza abbia potuto provare quest’uomo negli attimi prima di morire e quale disperazione abbia afflitto la moglie, presente accanto lui e impossibilitata a fornire qualsiasi aiuto al marito.

Satnam Singh 64Lo spaccato che verrebbe fuori da questo episodio, lo diciamo senza mezzi termini, è un sistema di schiavitù che ricorda i campi di cotone degli Stati Uniti meridionali del 1800, in cui ci sono persone che comprano non il lavoro da altri ma, letteralmente, la vita di altre persone, arrogandosi uno ius vitae necisque che, per il modo in cui si manifesta, può addirittura essere fatto risalire alla schiavitù dell’antica Roma, in cui gli schiavi non erano esseri umani, ma res, cose, e come tali erano trattati. Negli Stati americani del Sud, prima della Guerra Civile americana, la schiavitù era un pezzo essenziale di quel sistema economico e sociale e di quella parte di America, che combatté fino all’ultimo per la sua sopravvivenza e per fortuna fu sconfitto, per affermare la pari dignità di tutti gli esseri umani e quanto scritto nell’incipit della dichiarazione di indipendenza americana del 1776: “Consideriamo verità evidenti per se stesse che tutti gli uomini sono creati uguali; che sono stati dotati dal loro Creatore di taluni diritti inalienabili; che, fra questi diritti, vi sono la vita, la libertà e il perseguimento del benessere”.

Nell’Italia del 2024 scopriamo – o facciamo finta di scoprire – che ci sono tantissimi lavoratori sfruttati oltre ogni misura e che questo fenomeno non è più relegato alle campagne del Sud Italia, ma riguarda anche quelle del Nord del Paese e, oltre all’agricoltura, abbraccia altri settori come l’edilizia, la logistica o il turismo. Il caporalato è, in sostanza, uno strumento con cui le aziende “calmierano” il costo del lavoro, delegando a un soggetto esterno – il caporale, appunto – il compito di trovare manodopera a buon prezzo. Per questa attività, il caporale riceve una somma di danaro, in genere direttamente dai lavoratori, a cui decurta parte della paga a loro destinata. Se poi aggiunge ulteriori servizi (il trasporto sul luogo di lavoro, un letto dove dormire, etc.), la paga del lavoratore sarà ulteriormente assottigliata a suo favore.

A seguito dell’allucinante omicidio di Satnam Singh, il Governo ha approvato una serie di norme tramite Decreto-Legge, come già accaduto dopo la strage di via Mariti a Firenze. Da parte nostra, continuiamo a pensare che non si può credere di governare fenomeni così complessi con norme da dare subito in pasto a un’opinione pubblica arrabbiata e affamata di risposte immediate, ma occorre ragionare con una visione che sia ampia e almeno di medio termine, altrimenti quelle norme saranno destinate a fallire e l’opinione pubblica sarà – giustamente – ancora più arrabbiata e ancora più affamata di risposte.

Occorre aggredire il fenomeno del caporalato a più livelli, anzitutto prosciugando l’acqua in cui esso nasce e pasce: occorre mettere in contatto la domanda e l’offerta di lavoro con strumenti adeguati, attualizzando le norme che disciplinano l’ingresso di migranti nel nostro Paese; occorre – in particolare in agricoltura, ma non solo – immaginare una rete di trasporto locale che porti i lavoratori presso i luoghi di lavoro; occorre creare dei luoghi dove i lavoratori possano andare a vivere mentre sono impiegati (il PNRR destina allo scopo duecento milioni di euro, perché non sono stati ancora utilizzati?). Sarebbe utile estendere il DURC di congruità – attualmente solo previsto in edilizia – anche ad altri settori come l’agricoltura, così da verificare se il numero di lavoratori dichiarato dalla singola impresa agricola sia effettivamente congruo rispetto al lavoro da realizzare in relazione alla quantità di terreno. Questo agevolerebbe non poco il compito degli organi di vigilanza.

Occorrerebbe anche incrementare la presenza di mediatori culturali – nei luoghi di lavoro e non solo – che spieghino ai lavoratori migranti quali sono i loro diritti secondo la legge italiana ed europea, perché l’ignoranza dei propri diritti è forza per chi vuole approfittarsi del lavoro altrui.

Occorre anche un’opera di sensibilizzazione culturale della cittadinanza. L’art. 1 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo recita che “tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. Non può esserci libertà ed eguaglianza, però, se alcuni esseri umani sono costretti a vivere come oggetti sottomessi e a totale disposizione di altri esseri umani.

Ma come agire in spirito di fratellanza verso gli altri? Anche gesti semplici, piccoli, possono essere rivoluzionari e condizionanti. Ad esempio, nel momento in cui acquistiamo un sacchetto di insalata a 0,99 € o anche a meno (molta dell’insalata che mangiamo è coltivata nelle campagne dell’agro pontino da migranti indiani come Satnam Singh) stiamo certo risparmiando qualche centesimo, ma stiamo contribuendo – speriamo inconsapevolmente – a tenere in piedi un sistema di sfruttamento, basato sul lavoro nero, sfruttato e sottopagato, che consente quindi di tenere bassissimo il costo del prodotto finale risparmiando sulla pelle dei lavoratori. A tal proposito, sarebbe utile e importante far decollare uno degli aspetti innovativi della L. 199/2016, una legge tuttora per molti versi inapplicata: la rete del lavoro agricolo di qualità. Si tratta di un elenco di aziende che rispetta i diritti dei lavoratori, nata proprio allo scopo di promuovere quel lavoro agricolo che non si fonda sullo sfruttamento. Non risulta che siano molte le aziende che hanno deciso di aderire a questa rete, probabilmente anche per assenza di una reale convenienza. Probabilmente, bisognerebbe non solo diffondere molto di più questo strumento, ma pubblicizzarlo con un marchio, un’etichetta da apporre sui prodotti, così da veicolare anche gli acquisti per dire al cittadino consumatore: “Se acquisti questo prodotto, stai contribuendo a un sistema di lavoro di qualità, non basato sullo sfruttamento o la riduzione in schiavitù. A te la scelta”.

Il caporalato e lo sfruttamento della manodopera (soprattutto dei migranti) non sono fenomeni assoluti e irrimediabili, esistono anche esperienze positive di contrasto al caporalato e di liberazione dei lavoratori da questo giogo, ma per poter vincere davvero occorre che tutti facciano la loro parte. Quadrato Rosso

[*] Presidente della Fondazione Prof. Massimo D’Antona ETS

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