Anno XII - n° 64

Rivista on-Line della Fondazione Prof. Massimo D'Antona

Luglio/Agosto 2024

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Anno XII - n° 64

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Liberare il lavoro in agricoltura dalle insidie del caporalato e dello sfruttamento


di Jean-René Bilongo [*]

Jean Rene Bilongo 64

La drammatica vicenda del lavoratore punjabi Satnam Singh, lasciato morire dissanguato dal suo altezzoso datore di lavoro, in una cornice di indifferenza disumana, ancora una volta pone con forza la questione delle condizioni di lavoro in segmenti certamente non residuali dell’economia agricola italiana.

Il settore primario della Penisola è anzitutto una straordinaria leva economica che garantisce stabilmente l’occupazione a circa 1,1 milione di donne e uomini, autoctoni e migranti. Una platea ragguardevole governata dalle coordinate della Contrattazione Collettiva, con il corollario di istituti e di disposti atti alla tutela del lavoro, alla valorizzazione della sua centralità. Vi è contestualmente un sottobosco anomico fatto di violenze e di soprusi. È il regno dello snaturamento del lavoro e della reificazione delle persone. Qui, imperano i caporali, anelli di congiunzione con gli imprenditori, in un quadro complesso che vede il fenomeno dello sfruttamento/caporalato capillarmente diffuso nel Paese. Diversamente dalle desunzioni di una lettura disinvolta, il caporalato non è ascritto al Mezzogiorno, come tende a ravvisare certo concettualizzazione assertiva.

Il VI Rapporto agromafie e caporalato a cura dell’Osservatorio Placido Rizzotto evidenzia che, nel corso del 2021, sono stati circa 230mila gli occupati impiegati irregolarmente nel settore primario (oltre 1/4 del totale degli occupati del settore). Una compagine lavorativa in larga parte “concentrata nel lavoro dipendente, che include una fetta consistente degli stranieri non residenti impiegati in agricoltura”.

Anche la componente femminile, peraltro, è largamente coinvolta dal fenomeno. Il VI Rapporto agromafie e caporalato stima che siano circa 55mila le donne che lavorano in condizioni di irregolarità. A ciò si aggiunga che le donne si trovano a vivere un triplice sfruttamento: lavorativo, per le condizioni in cui lavorano; retributivo, perché anche tra “sfruttati” la paga delle donne è inferiore a quella dell’uomo; e, infine, anche sessuale. Se è vero che la geografia del lavoro agricolo subordinato non regolare è radicato in Puglia, Sicilia, Campania, Calabria e Lazio con tassi di irregolarità che superano il 40%, in molte regioni del Centro-Nord i tassi di irregolarità degli occupati sono comunque compresi tra il 20 e il 30%. Mettendo a fuoco, nello specifico, il profilo degli occupati agricoli non regolari, si nota che il peso dei lavoratori migranti quasi raddoppia, in particolare quello dei cittadini comunitari; in oltre il 70% dei casi, si tratta di lavoratori dipendenti e, tra questi, si osserva un maggior peso degli occupati che lavorano in regime di part-time. Ne consegue che, in corrispondenza dei lavoratori con tali caratteristiche, i tassi di irregolarità assumono valori decisamente più elevati rispetto al tasso riscontrato per l’intero settore agricolo.

Inoltre, nel comparto agricolo, si riscontra la tendenza a generare “lavoro povero” ove prevalgono individui, che pur avendo lavorato, mostrano redditi personali e familiari decisamente al di sotto dei valori medi. In particolare, in Italia circa 8,6 milioni di individui hanno in Italia un reddito disponibile familiare equivalente annuo inferiore alla metà del reddito mediano misurato su tutti i residenti (cioè inferiore a €8.300). Escludendo i lavoratori stranieri non residenti, poco meno di un terzo dell’occupazione agricola (pari a oltre 300 mila unità) ricade in questa area a bassissimo reddito, con un’incidenza che è il triplo di quella media, senza contare un ulteriore 3,7% di occupati agricoli che vive in famiglie prive di segnali di redditi emersi.

Estendendo l’analisi anche alle famiglie degli occupati in nero in agricoltura, appare evidente che non siano in grado di svolgere un ruolo di paracadute in termini di sostegno economico: infatti, la vulnerabilità economica individuale non sembra essere affievolita dalla presenza di un contesto familiare di sostegno sia a causa della ridotta numerosità dei componenti del nucleo, sia del loro stato occupazionale. Se, in generale, le famiglie con almeno un occupato nel settore agricolo sono mediamente piuttosto numerose (circa il 40% di esse ha almeno quattro componenti e, in oltre il 55% dei casi, si tratta di coppie con almeno un figlio), il sottoinsieme di famiglie con almeno un occupato non regolare è mediamente di dimensione assai più contenuta e, in particolare, si tratta in prevalenza di famiglie monocomponente e, a seguire, di coppie senza figli con soggetto di riferimento ultra sessantaquattrenne e poi di famiglie monogenitore.

Bilongo 64 1A scanso di equivoci, si premetta che non tutto il settore primario italiano è insidiato dallo sfruttamento e dal caporalato. Ma occorre vagliare attentamente la vasta area della sofferenza occupazionale in esso presente. L’offerta di lavoro che incrocia questa domanda è spesso finalizzata alla mera sussistenza, tende prioritariamente a soddisfare bisogni primari e la sua capacità di negoziazione con il caporale e con il datore del lavoro è minima. L’uno e l’altro tendono a reclutare operai fragili, e non fidelizzabili, per ammortizzare i costi che sostengono per altre categorie di addetti anche fidelizzabili. E queste fasce più vulnerabili non sempre hanno rapporti con le organizzazioni sindacali, se non sporadici, poiché una delle regole d’ingaggio imposte è la preclusione di ogni contatto con le medesime. La condizione di sfruttamento si riscontra in tutte quelle forme occupazionali che si discostano dal “modello” previsto dalla Contrattazione Collettiva. E queste diverse situazioni occupazionali si caratterizzano per diversi gradi di assoggettamento lavorativo, determinati dalla consistenza salariale, dalle condizioni alloggiative, dalla sicurezza sul lavoro, dalle previdenze sociali, nonché dal riposo e dal rispetto dell’orario di lavoro che permettono ovvero riducono, pure fino all’annullamento, le relazionali sociali.

Molti lavoratori stagionali agricoli, soprattutto extra UE, hanno come unico orizzonte gli accampamenti rurali informali e i ghetti nei quali si stipano in condizioni inenarrabili: basti dire che in queste coordinate della vergogna, i servizi igienici, l’acqua corrente sono una chimera. Luoghi che si sono qualificati con il loro orrore intrinseco agli albori della pandemia da COVID-19, allorché i comportamenti sociali dovevano imperativamente adottare regole basiche come il confinamento, il distanziamento sociale, il lavarsi le mani con certa frequenza. Gli accampamenti spontanei hanno un tratto distintivo: sono ubicati, non casualmente, nelle retrovie, nelle vicinali e negli epicentri dei distretti agricoli. Cioè sono serbatoi di manodopera da attingere, in base al ciclo delle colture, sulla scorta delle esigenze delle aziende. Qui, dettano legge i caporali, in combutta con i fruitori finali di questo discount perverso del lavoro. Il meccanismo è semplice: i lavoratori, soggiacenti a uno “stato di bisogno”, inteso come condizione di forte disagio che compromette le necessità primarie di vita, altra scelta non hanno se non quella di sottostare alle condizioni inique dettate, congiuntamente o disgiuntamente, da caporali e dagli sfruttatori. La cifra che ne emerge è nota: paghe misere, orari di lavoro proibitivi, negazione di riposo o ferie, intimidazioni, violenza, ecc. Tutte spie di condizioni spurie di lavoro che il Legislatore ha fatto confluire nel novero degli “indici di sfruttamento”, nel novellato articolo 603bis- Codice Penale, posto ad architrave della legge 199/2016 recante “disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura”.

Per una buona parte dei lavoratori agricoli stranieri – perlopiù stagionali – la precarietà e la fragilità socio-economica che ne consegue sono causate principalmente dalla condizione giuridica, giacché la regolarità dello status di soggiorno è acquisibile soltanto in presenza di un altrettanto regolare contratto di lavoro: l’uno senza l’altro, com’è tristemente noto, non determina la piena legittimazione alla permanenza sul territorio nazionale. Questo intreccio perverso e anacronistico continua a produrre passaggi repentini da una condizione giuridica di regolarità ad un’altra di irregolarità e viceversa, e dipende quasi sempre dalla volontà del datore di lavoro. La cadenza temporale del lavoro, per tutta una fascia di manodopera agricola, è quella annuale. Non di rado è intervallata dallo svolgimento di altre attività lavorative (magari anch’esse svolte precariamente e con contratti a scadenza determinata). Tale discontinuità produce in questi lavoratori un accentuato senso di insicurezza sociale ed economica e disorientamento culturale ed esistenziale, condizioni dalle quali possono innescarsi processi di impoverimento e di esclusione sociale. I lavoratori restano così intrappolati – con grosse difficoltà a fuoriuscirne – in una sorta di circuito produttivo che esprime una domanda di lavoro di bassa qualità da svolgersi in modo precario, malpagato e faticoso. Questa fascia estrema di lavoratori agricoli viene reclutata attraverso intermediari illegali specializzati, sempre su mandato di datori di lavoro che necessitano di manodopera oppure direttamente dagli stessi datori di lavoro – mediante addetti di fiducia interni all’azienda – o da agenzie di somministrazione di forza lavoro ufficiali, cioè regolarmente registrate, ma che non sempre agiscono nella maniera più trasparente. Le occupazioni per le quali vengono ingaggiati sono svolte perlopiù a fianco di altre fasce di lavoratori trattati diversamente: sia perché hanno un contratto di lavoro, sia perché questi contratti sono debitamente rispettati. Tra queste due polarità sono ravvisabili altre fasce di operai agricoli che, in relazione alle condizioni di lavoro che le contraddistinguono, sono collocabili ora nell’area del polo più precario, ora in quello più standard. 

Occorre dire, in aggiunta, che la sola presenza del contratto di lavoro non è da considerarsi oramai sufficiente a definire le condizioni occupazionali come standard, ossia aderenti a quelle previste dalle norme correnti. Infatti, con l’emanazione della Legge 199/2016 sono previste severe sanzioni per i reati di sfruttamento, sicché un rapporto di lavoro contrattualizzato può mascherare di fatto un rapporto di sfruttamento, configurabile come lavoro grigio: apparentemente regolare, ma sostanzialmente irregolare. Nascondendo, in tal modo, un rapporto di sudditanza, poiché basato su false promesse, inganni e raggiri di diversa natura e, in definitiva, sulla truffa. In questi casi il vantaggio del lavoratore straniero risiede nella possibilità di acquisire il Permesso di Soggiorno, quello del datore di lavoro nel prevenire favorevolmente l’esito delle ispezioni aziendali e, nondimeno, nel pagare salari indecorosi.

Accanto alla repressione, l’ecosistema della 199 prevede anche uno macro-schema preventivo degli abusi attraverso la Rete del Lavoro Agricolo di Qualità cui sono chiamate ad iscriversi le aziende agricole. Le criticità dell’occupazione malsana in agricoltura quali ad esempio il nodo del trasporto dei lavoratori verso le/dalle campagne, oppure l’incontro tra offerta e domanda di lavoro nell’economia primaria, possono essere solute nella cornice della Rete che, a sua volta, dovrebbe avere delle articolazioni, le Sezioni Territoriali, in ogni provincia. Ad oltre sette anni dall’entrata in vigore della legge 199, in più della metà delle province, non risultano insediate le Sezioni Territoriali e le aziende iscritte alla Rete meno di 8mila su un bacino potenziale di oltre 250mila.

Lo sfruttamento lavorativo e il caporalato sono sempre più perpetrati attraverso nuovi e più complessi meccanismi che vedono il coinvolgimento di attori qualificati – i cosiddetti “colletti bianchi” – e, in generale, figure in grado di mascherare l’illegalità attraverso una sequenza di “scatole cinesi”, che rende ancor più complicata la prevenzione, l’individuazione e la conseguente repressione del fenomeno. Le insidie che minano l’economia del lavoro nel settore primario sono riassumibili nel “sistema delle tre R”:

  • (la) Reticenza rispetto agli strumenti di prevenzione degli abusi a danno delle lavoratrici e dei lavoratori, come la clausola della “condizionalità sociale” nella PAC-Politica Agricola Comune oppure le scarse adesioni delle imprese alle Rete del Lavoro Agricolo di Qualità cui verrà fatto cenno nei paragrafi successivi;
  • (la) Riluttanza di alcuni stakeholders ad assolvere appieno il proprio ruolo come avviene con l’indisponibilità – forse in via di superamento con le novità contemplate dal DL Agricoltura – di alcuni degli organi preposti (Inps, Inail, ecc.) a mettere in rete le proprie banche dati in modo da agevolare l’incrocio delle stesse per stanare i contegni aziendali impropri;
  • (la) Resistenza a rinunciare alle pratiche malsane che inficiano la filiera agro-alimentare.


Il loro superamento è la condicio sine qua non per qualificare il lavoro in agricoltura, nella sua funzione valoriale di fattore determinante per la dignità nella libertà. Quadrato Rosso

[*] Presidente Osservatorio Placido Rizzotto/FLAI- CGIL

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