Il presente contributo intende analizzare i confini applicativi del reato di intermediazione illecita e sfruttamento lavorativo di cui all’art. 603 bis c.p. – meglio conosciuto come “caporalato” – che a fronte delle modifiche apportate dal legislatore con la legge 2016 n. 199, sta trovando sempre più spesso spazio di contestazione anche fuori dal settore agricolo in cui tipicamente ha trovato applicazione.
In particolare, ci si interroga sulla capacità della norma a fronteggiare l’emersione di nuove e sempre più subdole modalità di sfruttamento del lavoro nell’ambito della economia informale e deregolamentata della c.d. Gig Economy[1]. A tal fine, appare in primo luogo opportuno esaminare sinteticamente i tratti fisionomici della fattispecie legale.
Introdotto dal decreto-legge n. 138/2011 allo scopo di contrastare l’allarmante fenomeno del caporalato agricolo, il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro di cui all’art. 603-bis c.p. trova la propria collocazione sistematica nell’ambito dei reati contro la personalità individuale, rappresentando uno strumento volto a colmare una rilevante lacuna presente nel sistema repressivo contro le forme di distorsione del mercato del lavoro[2]. Nelle intenzioni del legislatore, infatti, la fattispecie era volta a reprimere fatti caratterizzati da un disvalore più intenso rispetto agli illeciti contravvenzionali previsti dal D. Lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (c.d. Legge Biagi) ma non così grave da integrare lo sfruttamento tipico della riduzione in schiavitù (art. 600 c.p.).
In particolare, nella sua originaria formulazione l'art. 603-bis c.p. puniva chiunque svolgesse "un'attività organizzata di intermediazione, reclutandone manodopera o organizzandone l'attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori".
Mediante una innovativa tecnica redazionale, lo stesso legislatore ha poi individuato espressamente al comma 2 dell’art. 603 bis c.p. dei veri e propri indici di sfruttamento per definire il contesto da cui inferire le condotte penalmente rilevanti. Lo sfruttamento del lavoro – ossia l’elemento principale che connota il disvalore oggettivo del reato – è definito quindi dal legislatore mediante il ricorso alla tecnica degli indicatori. Tale opzione appariva diretta ad arginare il deficit di tassatività che connota concetti vaghi come “sfruttamento” e “approfittamento dello stato di bisogno”.
La natura giuridica di tali indici sintomatici è stata, fin dall’introduzione del delitto, al centro di un vivace dibattito: parte della dottrina ne ha affermato una funzione meramente processuale, ritenendo tali indici strumenti idonei solo ad orientare l’interprete; altri autori, al contrario, attribuiscono alle circostanze valorizzate dall’articolo 603-bis c.p. valore di veri e propri elementi costituitivi del fatto tipico.
La norma, tuttavia, così concepita, non ha sortito l’effetto sperato, ovvero quello di arginare il fenomeno del caporalato, trovando una scarsissima applicazione giurisprudenziale. La previgente formulazione della norma, infatti, presentava un ambito di applicazione piuttosto ristretto, finendo per assumere una funzione residuale.
Inspiegabilmente, infatti, la condotta tipica sanzionata era solo quella di intermediazione, che poteva essere compiuta esclusivamente dal c.d. “caporale”, ossia colui che si occupa del reclutamento della manodopera; il legislatore aveva invece omesso di indicare tra i soggetti attivi del reato il datore di lavoro, ossia il naturale destinatario e beneficiario finale della manodopera acquisita illegalmente[3]. Quest’ultimo avrebbe potuto concorrere nel delitto unicamente nell’ipotesi in cui lo sfruttamento del lavoro fosse realizzato attraverso l’attività di intermediazione[4].
La punibilità del reato, inoltre, era ancorata alla circostanza che l’attività di intermediazione illecita fosse organizzata ed esercitata mediante violenza, minaccia o intimidazione, rendendo eccessivamente complessa la prova di tali elementi in sede giudiziale.
Per tali ragioni, la struttura della fattispecie è stata ritenuta del tutto inadeguata per contrastare il caporalato; fenomeno che, come è stato efficacemente sottolineato, si sviluppa come un rapporto trilaterale tra datore di lavoro, intermediario e lavoratore sfruttato[5].
Ulteriore evidente omissione legislativa, in grado di incidere pesantemente sull’efficacia sanzionatoria e deterrente dell’incriminazione nei confronti delle strutture societarie criminali, è stata individuata, inoltre, nella mancata previsione della responsabilità degli enti ai sensi del d.lgs. n. 231/2001. Originariamente, infatti, il delitto di cui all’art.603-bis c.p. non compariva nel catalogo dei reati-presupposto idonei a configurare la responsabilità amministrativa da reato dell’ente nell’interesse o a vantaggio del quale viene prestata l’attività di intermediazione illecita e di sfruttamento del lavoro. Tra le incogruenze va infine segnalata la mancata previsione della confisca dei proventi ottenuti attraverso lo sfruttamento dei lavoratori.
Figlia della decretazione d’urgenza e di un diritto penale simbolico, la prima versione dell’art.603-bis c.p. è stata ben presto stigmatizzata da attenta dottrina come una norma “frettolosa e lacunosa, con conseguenti incoerenze e imperfezioni”[6].
Dopo solo cinque anni dalla sua introduzione, infatti, il legislatore, consapevole delle suddette criticità, è nuovamente intervenuto sulla materia con la legge 2016 n. 199, colmando non solo le lacune relative alla responsabilità degli enti ed alla confisca ma riscrivendo completamente la fattispecie.
L’attuale formulazione, infatti, incrimina due differenti condotte: la prima di reclutamento di manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori; la seconda, di utilizzazione, assunzione, o impiego di manodopera, sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento e, anche in tal caso, approfittando del loro stato di bisogno[7].
Il legislatore del 2016 ha anzitutto previsto l’estensione della punibilità a chi «utilizza, assume o impiega manodopera»: si amplia il perimetro applicativo del reato prevedendo la sanzionabilità anche del datore di lavoro e ponendo rimedio al denunciato vulnus di tutela che caratterizzava l’incriminazione.
Viene poi espunto il riferimento ai requisiti oggettivi dello stato di necessità del lavoratore ed alla violenza, minaccia o intimidazione da esercitarsi verso quest’ultimo, elementi che di fatto avevano eccessivamente ristretto l’area del penalmente rilevante. Le condotte consistenti nella violenza e nella minaccia costituiscono oggi mera ipotesi aggravata di cui al secondo comma, mentre è stato del tutto eliminato il riferimento all’intimidazione.
Nella nuova formulazione viene altresì meno il requisito dell’organizzazione dell’attività di intermediazione: si tratta di una modifica non marginale poiché permette di allargare l’ambito di applicazione della norma anche a condotte di grave sfruttamento della manodopera realizzate occasionalmente.
Al pari della disciplina precedente, la nuova norma individua quattro indici di sfruttamento, confermando sostanzialmente quelli già in vigore nel testo previgente e apportando solo parziali modifiche, tenuto anche conto di alcune difficoltà interpretative.
In particolare, ai sensi del terzo comma dell’art.603-bis c.p., costituisce indice di sfruttamento:
“1) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;
2) la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;
3) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;
4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti”.
A spazzare via, almeno in parte, i dubbi sulla natura dei suddetti strumenti, è la stessa relazione ministeriale alla Legge n.199 del 2016, ove si legge che “il legislatore, con l’elencazione degli indici di sfruttamento, semplicemente agevola i compiti ricostruttivi del giudice, orientando l’indagine e l’accertamento in quei settori (retribuzione, condizioni di lavoro, condizioni alloggiative, ecc.) che rappresentano gli ambiti privilegiati di emersione di condotte di sfruttamento e approfittamento” [8].
Secondo le intenzioni del legislatore, dunque, gli indici di sfruttamento non fanno parte del fatto tipico ma costituiscono – come la Corte di Cassazione ha avuto modo di precisare – delle linee guida in grado di orientare l’interprete nell’individuazione di condotte distorsive del mercato del lavoro.
Tirando le fila del discorso, quindi, all’esito della riforma il “nuovo” reato di caporalato appare idoneo a sanzionare non più solo l’intermediario ma anche l’utilizzatore, sottoponendo a pena ogni forma di sfruttamento della manodopera, anche se realizzata dal datore di lavoro senza intermediari, nonché ogni forma di intermediazione, anche quelle occasionali e non organizzate in forma d’impresa, a prescindere dal fatto che sia stata posta in essere con violenza, minaccia o intimidazione[9].
Pertanto, così come riformulato, il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento lavorativo ha registrato una maggiore operatività, trovando applicazione non solo nel contesto del caporalato agricolo che ne aveva ispirato l’originaria introduzione, ma anche in altri settori, come in quello industriale e in quello dei servizi.
Dunque, se nella prospettiva politico-criminale l’art.603-bis rappresenta lo strumento repressivo deputato a fronteggiare il caporalato, dal punto di vista sociologico occorre evidenziare che il fenomeno (nonché la stessa figura del caporale) ha subito una profonda evoluzione nel corso del tempo, registrando mutamenti radicali[10].
Per comprendere la dimensione del fenomeno va osservato che, aldilà dell’agricoltura e dell’edilizia, ossia i settori in cui si è storicamente radicato il caporalato, quest’ultimo si è progressivamente esteso a “macchia d’olio”, travolgendo diversi settori, tra cui, a titolo esemplificativo, quello manifatturiero e della lavorazione dei tessuti, dell’allevamento, della pesca, della lavorazione delle carni, del turismo e della logistica.
Ciò che emerge negli ultimi anni è una realtà inquietante: lo sfruttamento del lavoro in Italia ha assunto ormai connotati di vera e propria emergenza nazionale, presentando carattere endemico e raggiungendo una diffusione allarmante in tutto il territorio e in molteplici settori dell’economia.
La diffusione del fenomeno e la sua evoluzione si pongono in rapporto di stretta connessione con il processo di ristrutturazione e deregolamentazione che ha investito il mercato del lavoro[11]. Nell’ultima decade, difatti, si è assistito ad un processo di flessibilizzazione dei contratti di lavoro che ha condotto all’emersione di numerose figure contrattuali atipiche e alla consequenziale erosione delle tutele proprie del lavoro subordinato[12]. In tale scenario, si è poi innescata la pericolosa tendenza a camuffare rapporti di lavoro a carattere sostanzialmente subordinato da rapporti di lavoro autonomo, al fine di risparmiare sui salari ed eludere gli oneri contributivi.
Come è stato attentamente posto in rilievo dalla Corte di Assise di Lecce, il caporalato è «parte di un modello sociale che può considerarsi vasto, complesso e trasversale, non circoscrivibile dentro categorie sociologiche rigide ma necessariamente aperte, in grado di aggiornarsi all’evolversi del fenomeno e al suo strutturarsi localmente e globalmente, che può prevedere la partecipazione di diversi soggetti, con funzioni correlate tra loro. A questo modello ‘‘liquido’’ e resistente di impresa non importa il colore della pelle del lavoratore. I suoi tratti estetici ed etici o la sua condizione giuridica, quanto, invece, la sua fragilità sociale, la sua vulnerabilità e ricattabilità, tanto da sfociare talvolta in forme contemporanee – e a volte anche antiche – di riduzione in servitù e schiavitù» [13].
La complessità della lotta contro il caporalato appare quindi intrinsecamente connessa alla sua capacità di adattarsi a contesti nuovi e diversi: se originariamente il caporalato si presentava come un fenomeno confinato alla realtà agricola, successivamente si è insinuato nell’ambito della criminalità organizzata di tipo mafioso, radicandosi fortemente anche nel nord Italia.
Si è ormai lontani dalla rappresentazione stereotipata dello sfruttamento del lavoro come di un fenomeno legato a contesti rurali e geografici arretrati sul piano produttivo[14]: dalle forme più tradizionali ed eclatanti di sfruttamento, tipiche del lavoro “nero” o irregolare – i raccoglitori di pomodori nelle campagne meridionali oppure gli operai stranieri ammassati nelle baracche – si è passati a sempre più sofisticate e subdole forme di intermediazione illegale e utilizzo di manodopera, caratteristiche del c.d. lavoro “grigio”.
Con quest’ultimo termine si intendono indicare tutte le forme di lavoro dai confini incerti che – a differenza del caporalato c.d. “nero” – sono caratterizzate dall’assenza di una vera e propria costrizione della vittima. Si tratta di forme di lavoro solo apparentemente regolari ma che in realtà nascondono elementi di gravi irregolarità, come ad esempio la violazione delle norme contenute nei contratti collettivi nazionali, ovvero quelle relative ai contributi previdenziali (retribuzioni mensili parzialmente “fuori busta”; violazione dei limiti legali relativi all’orario di lavoro giornaliero; mancato rispetto delle norme concernenti malattia, ferie o riposi)[15].
A tal riguardo, va posto in rilievo il fenomeno delle false cooperative sociali di lavoro che somministrano manodopera in conto terzi. Dalle indagini giudiziarie e dalle ispezioni dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro emerge la presenza, soprattutto nell’Italia settentrionale, di cooperative cd. spurie, ovvero enti che utilizzano la forma cooperativa in modo strumentale, senza rispettarne le finalità mutualistiche. All’interno di queste realtà i lavoratori appiano solo formalmente come soci ma in realtà agiscono come lavoratori somministrati, esclusi da ogni forma di collaborazione mutualistica e di potere decisionale nonché privati delle più elementari garanzie riconosciute dalla contrattazione collettiva[16].
Mimetizzate con una veste giuridica legale, siffatte cooperative fittizie nascono (e di solito muoiono in un ristretto arco temporale) con il solo scopo di eludere gli obblighi contributivi e di schermare l’azienda utilizzatrice della manodopera da forme di responsabilità nei confronti dei lavoratori.
Infine, tra le più moderne e innovative forme di intermediazione illecita e sfruttamento lavorativo occorre segnalare il c.d. caporalato “digitale”, fenomeno reso tristemente noto per il caso “Uber” relativo allo sfruttamento dei ciclo-fattorini impiegati nella consegna di cibo a domicilio[17].
Il tratto inedito e peculiare di tale species di caporalato – è stato osservato in dottrina – “attiene all’ingresso delle logiche ancestrali dello sfruttamento lavorativo nel contesto dei più moderni e aggiornati strumenti di reclutamento e avvio al lavoro massivo, in particolare attraverso l’utilizzo di piattaforme telematiche idonee a fungere da medium spersonalizzante tra domanda e offerta di manodopera”[18].
Dal caso Uber – che rappresenta il primo caso di applicazione della fattispecie prevista dall’art. 603-bis c.p. ad un’ipotesi di caporalato digitale – emerge drammaticamente come i lavoratori siano sottoposti a lunghissimi orari di lavoro e a opprimenti forme di controllo e sorveglianza, assoggettati alla costante minaccia di sanzioni disciplinari in caso di comportamenti non conformi agli standard richiesti.
Tale forma di caporalato 2.0, vede nell’utilizzo degli algoritmi il fulcro per lo sfruttamento del lavoratore e sta trovando terreno fertile principalmente nell’ambito della c.d. gig economy, ossia un modello economico basato sul lavoro a chiamata, occasionale e temporaneo, caratterizzato da modalità lavorative frammentarie e rarefatte, senza più il luogo fisico dell’azienda, con un sistema produttivo disarticolato[19].
Dal punto di vista quantitativo, si stima che dal 2022 nell’Unione Europea siano oltre 28 milioni di persone le persone occupate in un lavoro attraverso le piattaforme digitali. Nel 2025 si prevede che questa cifra raggiungerà i 43 milioni[20]. Buona parte di questi lavoratori, nel territorio italiano, risultano “liberi professionisti” ma di fatto lavorano come dipendenti retribuiti a cottimo, privi tuttavia delle tutele proprie del lavoro subordinato.
Oltre ai rider, che rappresentano l’esempio più lampante, ci sono anche i lavoratori domestici, i tassisti e gli operai dell’Industria 4.0 che operano nei “cyberphysical workplace”, in cui le dimensioni fisica e digitale sono interconnesse.
All’interno del sistema delle piattaforme di lavoro digitali la gestione dei lavoratori è affidata quasi interamente ai computer, i quali attraverso l’uso degli algoritmi sono in grado di fornire canoni da considerare lo standard al quale adeguarsi per massimizzare le performance. Tali standard, tuttavia, sono utilizzati anche per dirigere, controllare ed eventualmente sanzionare i lavoratori.
In questo contesto digitalizzato, il pericolo più profondo – come paventato dalla Commissione Parlamentare d’inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia, sullo sfruttamento e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro pubblici e privati nell’omonima relazione del 2022 – è che l’intelligenza artificiale possa diventare uno strumento prescrittivo senza controllo[21].
Nonostante le buone intenzioni che hanno animato il legislatore, il suo intervento non può tuttavia considerarsi sufficiente a frenare l’espansione del fenomeno e ad impedire la proliferazione di nuovi modelli di caporalato fondati su figure contrattuali atipiche.
Se è vero, infatti, che a seguito della riforma, l’art. 603-bis c.p. si presenta ormai come una norma dalla portata generale – in grado di sanzionare anche una molteplicità di comportamenti apparentemente leciti – è pur vero che il perimetro applicativo della fattispecie appare ancora delimitato da condotte di sfruttamento realizzate nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato.
Tale circostanza, come evidenziato da attenta dottrina, sembra compromettere l’efficacia repressiva del reato nel perseguire alcune forme di sfruttamento del lavoro e di intermediazione illecita diffuse in nuovi contesti economici come quelli della gig-economy, non riconducibili allo schema tipico della subordinazione[22].
In particolare, questo “vuoto di tutela” sembrerebbe imputabile all'originale tecnica normativa utilizzata dal legislatore, il quale, non ha definito il concetto di sfruttamento che connota le condotte di reclutamento e utilizzo di manodopera, ma si è limitato ad individuare alcuni indici sintomatici.
La logica alla base di questa scelta, come anticipato, sembra essere quella di voler riempire di contenuto il concetto di sfruttamento, caratterizzato da intrinseca vaghezza.
Nel fare ricorso ad una c.d. tipizzazione dinamica[23], tuttavia, come si evince dalla lettura della norma, il legislatore sembrerebbe aver declinato gli indici rinviando prevalentemente alla disciplina del lavoro subordinato, valorizzando circostanze di fatto che non sembrano riflettere più le moderne forme di sfruttamento. Ad esempio, la “corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali” oppure la “violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie”, rappresentano circostanze prive di rilevanza in contesti lavorativi in cui tali diritti non sono in alcun modo previsti.
Così facendo, si rischia di lasciare un’intera categoria di lavoratori, particolarmente vulnerabile, priva di tutela e fisiologicamente esposta a forme di prevaricazione.
Sebbene l’interprete possa ritenersi libero di discostarsi dagli indici individuati dal legislatore – non costituendo la previsione di cui al comma 3 dell’art. 603-bis c.p. una elencazione tassativa e vincolante – va tuttavia posto in rilievo che la loro funzione resta pur sempre quella di sopperire alla connaturata indeterminatezza dei termini «sfruttamento» e «approfittamento dello stato di bisogno», definendo con maggiore precisione i confini della fattispecie.
In questa prospettiva, dunque, gli “indici sintomatici” dello stato di sfruttamento, rischiano di diventare una vera e propria gabbia per l’interprete, rappresentando il maggior ostacolo ermeneutico ad una estensione della fattispecie alle nuove forme di caporalato emergenti nell’economia digitale[24].
Dalla breve analisi della fattispecie di cui all’art.603-bis c.p. appare evidente come la legislazione penale italiana sia ancora legata a obsolescenti categorie giuslavoristiche, rendendo nella pratica complessa la sussunzione di condotte di sfruttamento poste in essere nell’ambito di un mercato del lavoro totalmente destrutturato.
A prescindere dalla sentenza relativa al caso Uber – che in realtà sembra comprovare l’efficacia repressiva della norma – l’insufficiente capacità di adattamento della fattispecie alle emergenti forme di sfruttamento induce a riflettere in ordine all’opportunità di un nuovo intervento del legislatore.
Nella consapevolezza dell’incessante mutare del fenomeno del caporalato, appare in questo senso auspicabile un ulteriore ampliamento della fattispecie di reato di cui all’art. 603 bis c.p. ed una revisione degli indici di sfruttamento che tenga conto delle dinamiche lavorative emergenti nell’economia digitale.
[1] Con il termine Gig-economy si intende fare riferimento ad un modello economico basato sul lavoro a chiamata, occasionale e temporaneo, e non sulle prestazioni lavorative stabili e continuative, caratterizzate da maggiori garanzie contrattuali. L’espressione, traducibile in italiano con “l’economia dei lavoretti”, rappresenta un neologismo di derivazione anglosassone. Dal punto di vista lessicale, la parola “Gig” è tratta dallo slang inglese americano che fa riferimento all’ingaggio a serata degli spettacoli jazz del primo Novecento.
[2] A. Merlo, Il contrasto allo sfruttamento del lavoro e al “caporalato”. Dai braccianti ai riders, Torino, 2020.
[3] B. D’Ottavio, Profili penali del reclutamento e dello sfruttamento di manodopera (il cd. caporalato), in Lavoro Diritti Europa, 2019/2.
[4] A. Scarcella, Il delitto di “caporalato” entra nel Codice penale, in Dir. pen. proc., n. 10/2011.
[5] P. Brambilla, ‘Caporalato tradizionale’ e ‘nuovo caporalato’: recenti riforme a contrasto del fenomeno, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2017.
[6] E. Lo Monte, Osservazioni sull’art. 603-bis c.p. di contrasto al caporalato: ancora una fattispecie enigmatica, in Scritti in onore di Alfonso M. Stile, Napoli 2014.
[7] Si riporta il testo dell’art. 603-bis co.1 c.p.: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato, chiunque: 1) recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori; 2) utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno».
[8] Cfr. Relazione per la II Commissione (A.C. 4008) in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 16 novembre 2016, 4, dell’on. Beretta.
[9] D. Ferranti, La legge n. 199/2016. Disposizioni penali in materia di caporalato e sfruttamento del lavoro nell’ottica del Legislatore, in Diritto Penale Contemporaneo, 15 novembre 2016.
[10] B. D’Ottavio, Profili penali del reclutamento e dello sfruttamento di manodopera (il cd. caporalato), in Lavoro Diritti Europa, 2019/2.
[11] P. Brambilla, Il reato di intermediazione illecita e sfruttamento lavorativo al banco di prova della prassi: spunti di riflessione sui confini applicativi della fattispecie alla luce della prima condanna per caporalato digitale nel caso Uber, in Sistema Penale, 3/2022.
[12] A. Merlo, op.cit.
[13] Corte d’Assise di Lecce, 25 ottobre 2017 (3 luglio 2017), n. 4026/2009, in Giur. it., 2018, 1703 ss., con nota di G. Morgante, Caporalato, schiavitù e crimine organizzato verso corrispondenze (quasi) biunivoche, in Giur.it., 2018.
[14] A. Merlo, Il contrasto al caporalato “grigio” tra prevenzione e repressione, Note a margine di Trib. Milano, Sez. mis. prev., decreto 7 maggio 2019, n. 59, Pres. Roia, Ceva Logistics Italia s.r.l., in Dir. pen. cont , 6/2019.
[15] G. De Sanctis, Caporalato e sfruttamento di lavoro: politiche criminali in tema di protezione del lavoratore. Pregi e limiti dell'attuale disciplina - I parte, in Responsabilità Civile e Previdenza, 2018.
[16] C.F. Ferrajoli, Il reato di sfruttamento del lavoro. Dal contrasto al caporalato all’attuazione della Costituzione, Costituzionalismo.it, Fascicolo 3/2023.
[17] Con la sentenza n. 2805 del 2021, emessa a seguito di giudizio abbreviato dal Gup presso il Tribunale di Milano, è stato condannato alla pena di anni tre, mesi otto di reclusione ed euro 30.000 di multa, l’amministratore della FRC s.r.l., ritenuto responsabile del reclutamento dei rider per il gruppo italiano di Uber.
[18] M. Riccardi, Dai sintomi alla patologia. Anamnesi del delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, Giurisprudenza penale web, 2022, 2.
[19] A. Esposito, Gig economy e recupero della legalità, Legislazione penale, 2020.
[20] Norme dell'UE relative al lavoro mediante piattaforme digitali - Consilium (europa.eu)
[22] V. Torre, L’obsolescenza dell’art. 603-bis c.p. e le nuove forme di sfruttamento lavorativo, in LLI (Labour & Law Issues), vol. 6, n. 2, 2020.
[23] A. Di Martino, Tipicità di contesto a proposito dei c.d. indici di sfruttamento dell’art. 603 bis c.p., in Archivio Penale, 2018,3.
[24] V. Camurri, Strumenti di hard e soft law per combattere vecchie e nuove forme di caporalato: l’esperienza modenese.
[*] Funzionario dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro – Direzione Centrale. Il presente contributo è frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non impegna in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza.
Seguiteci su Facebook
>