C'è stato un tempo, in Italia, in cui il cosiddetto “posto pubblico" era considerato il massimo delle aspirazioni, per una parte della popolazione. Che si trattasse di un impiego statale, presso un Comune, in ospedale o nelle forze armate e di polizia, chi vi accedeva aveva garanzie di stabilità e di tutela che non erano previste altrove. Era un periodo in cui il ceto medio si urbanizzava, per così dire, ossia iniziava a concentrarsi nei centri urbani più grandi, lasciando quelli più piccoli e abbandonando la vita agricola, ponendo fine a quella civiltà contadina che, fino agli anni ’60 del secolo scorso, aveva rappresentato l'ossatura sociale, economica e culturale del Paese.
Durante questo periodo – che si snoda più o meno sino agli anni ’90 del secolo scorso – la Pubblica Amministrazione ha rappresentato un cardine fondamentale per l'economia e la società italiana, nonché per la politica, che l'ha utilizzata troppo spesso come proprio serbatoio elettorale. Dai primi anni ’90, il mondo inizia a cambiare verso nuovi equilibri e anche la Pubblica Amministrazione ne risente: si avvia il processo di “privatizzazione” del pubblico impiego, ossia la trasmissione di alcune regole del lavoro privato anche al pubblico e un riassetto complessivo dell’organizzazione amministrativa (le varie leggi Bassanini sono emblematiche), ma anche la chiusura di soggetti pubblici (si pensi alla cosiddetta Cassa del Mezzogiorno, chiusa nel 1992 o alla privatizzazione dell'IRI, del 1993) e l'ingresso via via crescente di soggetti privati nell'ambito del perimetro pubblico (esemplare il ruolo delle agenzie per il lavoro rispetto agli uffici di collocamento). L'analisi di fondo che era alla base di questo cambio di rotta era rappresentata dalle inefficienze e dagli sprechi che il monopolio pubblico aveva prodotto – determinando un debito pubblico troppo pesante per le casse dello Stato – e dalla necessità di avviare una cura dimagrante per l’intero apparato pubblico.
Il nuovo secolo si è avviato proseguendo su questa strada, ma in modo ancora più netto. Tutti ricordiamo le campagne mediatiche e culturali contro i “fannulloni" e i “furbetti del cartellino", figure funzionali a creare un clima negativo verso i dipendenti pubblici, visti in buona sostanza come dei privilegiati nullafacenti. La conseguenza di ciò è stato il blocco delle assunzioni nel pubblico per circa un decennio, accompagnato da un'ulteriore riduzione di ruolo del pubblico, non più visto come soggetto terzo e imparziale, garanzia di equità e degli interessi collettivi, ma solo come fonte di spreco di risorse e tale convinzione è stata trasversale a tutti gli schieramenti politici.
L'avvento della pandemia sembrava aver inaugurato una nuova fase, segnata dalla consapevolezza dell'importanza del pubblico, dalla necessità di investire nuovamente nel suo perimetro, rendendosi conto che la cura dimagrante dei decenni precedenti aveva prodotto una Pubblica Amministrazione oramai scheletrica, con un'età media dei dipendenti pubblici superiore ai cinquant'anni e una percentuale di lavoratori pubblici rispetto alla popolazione pari al 13%, attestandosi tra le più basse d'Europa (la media europea è del 16%)[1]. Per effetto di questo e anche grazie alle mobilitazioni sindacali – in primis del sindacato confederale – si è tornati a prevedere assunzioni e a riaprire la contrattazione collettiva, con un rinnovato slancio che faceva ben sperare.
Sembrerebbe, purtroppo, che tale slancio sia destinato a spegnersi istantaneamente come fuoco di paglia. Da un lato, a livello governativo si annunciano nuovi tagli alla spesa pubblica di qualche miliardo di euro, un temporaneo e parziale blocco delle assunzioni e un rinnovo dei contratti collettivi nazionali che sta spaccando il fronte sindacale per le opposte valutazioni sulle proposte al tavolo. Dall'altro lato, la nuova realtà che si è affermata nel corso di questi decenni ha prodotto una svalutazione del lavoro pubblico, ormai non considerato più come un posto “figo" – nonostante pubblicità del Ministero della Pubblica Amministrazione abbiano provato a convincere del contrario – e determinando un numero mai visto finora di rinunce alla presa di servizio da parte di migliaia di vincitori di concorso.
Ciò che potrebbe essere utile fare è aprire una discussione chiara sul ruolo che la Pubblica Amministrazione deve e può svolgere nel Paese: c'è ancora necessità di un soggetto pubblico garante degli interessi collettivi, terzo rispetto agli interessi che possono venire in rilievo, che non abbia come esclusivo obiettivo il profitto ma la tutela di beni primari? Se la risposta è positiva – come personalmente penso – occorre riflettere su come si possa garantire che esso sia realmente attrattivo. A questo proposito, può essere importante il confronto con il privato e importare buone pratiche già in uso presso le aziende: cosa garantisce un soggetto privato che il pubblico non riesce a garantire e come si può ovviare a questo? Penso, ad esempio, al tema degli affitti particolarmente costosi in certe realtà urbane: diverse aziende private decidono di accollarsi in tutto o in parte questo costo, mettendo a disposizione degli appartamenti a chi entra in azienda. Veniamo al pubblico: quanti sono gli immobili di proprietà pubblica che potrebbero essere messi a disposizione dei neoassunti della Pubblica Amministrazione a costi calmierati? In tal modo, si potrebbe recuperare patrimonio immobiliare altrimenti destinato alla speculazione o al decadimento, si potrebbero garantire alloggi a prezzi accessibili, prevedendo comunque il rientro dei costi sostenuti, si potrebbe anche prevede che l'accesso a questi immobili sia condizionato da un vincolo minimo di permanenza e magari prevedere che siano destinati a una pluralità di Enti, così da garantire anche scambi di professionalità tra lavoratori.
Il lavoro pubblico ha ancora tanto da dare al Paese: basta metterlo realmente nelle condizioni di poterlo fare.
[1] Dati ISTAT del 2017 da cui risulta che percentuali più basse dell'Italia vi sono in Germania (10%), Lussemburgo e Paesi Bassi (12%), mentre sul versante opposto si collocano Svezia (29%), Danimarca (28%), Finlandia (24%), Francia e Lituania (22%). https://www.istat.it/economia-europea-millennio/bloc-4d.html?lang=it#:~:text=Nel%202017%2C%20la%20quota%20di,entrambi%2012%20%25)%2C%20Italia%20(13
[*] Presidente della Fondazione Prof. Massimo D’Antona ETS
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