Annno XII - n° 65

Rivista on-Line della Fondazione Prof. Massimo D'Antona

Settembre/Ottobre 2024

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Annno XII - n° 65

Settembre/Ottobre 2024

Il valore del lavoro dei familiari

Breve excursus sui soggetti assicurabili e sulla prestazione lavorativa resa dal minore


di Alessandra Cortese [*]

Alessandra Cortese 65

La disciplina relativa ai rapporti di lavoro nell’ambito dell’attività lavorativa svolta dai soggetti legati da rapporti di parentela o affinità ha subito notevoli evoluzioni in merito all’obbligo assicurativo INAIL, dirigendosi verso un notevole ampliamento della tutela.

È significativa una riflessione in merito al tipo di rapporto di lavoro intercorrente tra i familiari, in quanto, già da prima della riforma del 1975, vi è una presunzione iuris tantum di gratuità della prestazione lavorativa – pur se svolta con carattere di prevalenza e continuità – atteso che sembrerebbe fondarsi sulla solidarietà familiare; difatti la mancanza dell’animus contrahendi nonché della corrispettività della prestazione, lo rendono differente rispetto al rapporto di lavoro subordinato tra “estranei” dovendosi ritenere una prestazione lavorativa resa affectionis vel benevolentiae causa.

In via preliminare occorre determinare quali sono i soggetti assicurabili nell’ambito delle categorie individuate dal D.P.R. 1124/1965 “Testo unico delle disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali”.

All’art. 4 co 1 n. viene specificato che sono soggetti all’obbligo assicurativo INAIL “il coniuge, i figli, anche naturali o adottivi, gli altri parenti, gli affini, gli affiliati e gli affidati del datore di lavoro che prestano con o senza retribuzione alle di lui dipendenze opera manuale, ed anche non manuale alle condizioni di cui al precedente n. 2”. Tale articolo è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, alla luce delle sentenza della Corte Costituzionale del 25 novembre 1987 n. 476, “nella parte in cui non ricomprende tra le persone assicurate i familiari partecipanti all'impresa familiare indicati nell'art. 230 bis c.c. che prestano opera manuale od opera a questa assimilata ai sensi del precedente n. 2.”

Invero, il testo unico nella sua prima formulazione non ricomprendeva l’istituto dell’impresa familiare ai sensi dell’art. 230 bis c.c. in quanto introdotto nel 1975, al fine di riconoscere dei diritti o benefici economici, come la partecipazione agli utili, anche a coloro i quali – legati da vincolo di parentela o affinità – si impegnano a portare avanti l’attività di famiglia. La Corte Costituzionale, pertanto, ha focalizzato l’attenzione sulla necessità di garantire una tutela assicurativa a quei soggetti che prestano attività lavorativa (o sovraintendono alla stessa), all’interno degli aggregati familiari, diversamente vi sarebbe stato un ingiustificato vuoto di tutela se, a parità di esposizione al rischio, non fossero stati ricompresi anche i familiari di cui all’art. 230 bis c.c..

Da ultimo, la Corte Costituzionale con sentenza n. 148 del 4 luglio 2024 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 230 bis, comma 3, c.c., nella parte in cui non prevede come familiare – oltre al coniuge, ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo – anche il convivente di fatto. La naturale conseguenza è stata, al contempo, la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 230 ter del codice civile che, introdotto dalla legge n. 76 del 20 maggio 2016 (Legge Cirinnà), riconosceva al convivente di fatto una tutela ma significativamente più ridotta[1].

Il tema rileva anche, e prevalentemente, in merito alla normativa antifortunistica, tant’è che in un primo momento, con l’introduzione del D. Lgs. 626/1994, relativo agli obblighi nell’ambito della normativa antinfortunistica, l’impresa familiare ne era stata totalmente esclusa in quanto, di base, essa è permeata di legami affettivi, per cui sarebbe stato complesso conciliare obblighi e doveri sanzionati attraverso ipotesi di reato procedibili d’ufficio. Tuttavia, con il D. Lgs. 81/2008 si è data risoluzione a tale questione parecchio spinosa, inserendo l’art. 21 che prevede “disposizioni relative ai componenti dell'impresa familiare di cui all'articolo 230-bis del codice civile e ai lavoratori autonomi” [2] .

Nel tempo, le numerose circolari dell’INAIL e del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali[3], si sono inserite nel contesto di in una società in continuo cambiamento, in cui vi è stata una convergente evoluzione della normativa e giurisprudenza nazionale e unionale, che hanno tenuto conto anche del primo orientamento espresso dalla Corte Costituzionale nel 1987, secondo cui “una volta introdotto l’istituto dell’impresa familiare, in vista della meritoria finalità di dare tutela al lavoro comunque prestato negli aggregati familiari, non sarebbe coerente il diniego di una tutela assicurativa di particolare rilevanza come quella in argomento (diretta a ovviare a rischi attinenti alla vita o all’integrità fisica del lavoratore), in presenza dei requisiti oggettivi propri del lavoro con essa protetto”.

Assodato che al familiare che presta la propria attività al di fuori di un rapporto di lavoro subordinato o societario viene accordata anche la tutela INAIL, è interessante comprendere quale sia il parametro che consenta di distinguere la collaborazione occasionale da quella abituale, facendo sorgere l’obbligo assicurativo del familiare.

Sul punto la lettera circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali n. 14184 del 05/08/2013, da leggersi assieme alla n. 10478 del 10/06/2013, chiarisce che sussiste l’obbligo assicurativo INAIL del collaboratore familiare quando la prestazione sia “ricorrente” e non meramente “accidentale”.

Cortese 65 1Difatti, va specificato, che si intende “accidentale” una prestazione svolta una/due volte nell’arco dello stesso mese a condizione che nell’anno le prestazioni complessivamente svolte non siano superiori a 10 giornate lavorative; diversamente, ai fini degli obblighi contributivi INPS, l’occasionalità della prestazione è legata al limite quantitativo di 90 giorni, intesi come frazionabili in ore, ossia 720 ore nel corso dell’anno solare. Dunque, un familiare che presta attività non retribuita che supera le 10 giornate lavorative ma non le 90 giornate, non è tenuto all’iscrizione INPS[4] mentre dovrà essere assicurato all’INAIL con conseguente pagamento del premio, da parte del titolare[5].

La Circolare n. 50 del 15 marzo 2018 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro si pone in continuazione rispetto alle lettere circolari di cui sopra, indicando – sempre relativamente agli obblighi di carattere previdenziale nei confronti dell’INPS – un mero indice di valutazione della occasionalità nell’ambito delle attività stagionali, in cui occorre riparametrare l’indice delle 90 giornate per il solo periodo interessato facendo l’esempio per una durata stagionale di tre mesi, (90:365)x90 = 22 giorni.

Va opportunamente chiarito che nulla vieta che i familiari possano essere assunti come dipendenti, con regolare contratto di lavoro subordinato e corresponsione di una retribuzione.

Il periodo estivo, solitamente, pone delle questioni in merito alla fruizione della prestazione lavorativa da parte dei figli minori in età scolare nell’ambito dell’attività di famiglia e, a tal proposito, sembra doveroso comprenderne i profili di legalità anche alla luce della normativa vigente e qualche orientamento giurisprudenziale al fine di riflettere su delle questioni non totalmente chiare.

In via generale la legge 17 ottobre 1967, n. 977[6] posta a tutela del lavoro dei bambini e degli adolescenti all’art. 3 stabilisce che “L'età minima per l'ammissione al lavoro è fissata al momento in cui il minore ha concluso il periodo di istruzione obbligatoria e comunque non può essere inferiore ai 15 anni compiuti” [7]. Tale disposizione deve comunque essere letta in combinato con la Legge Finanziaria per l’anno 2007 (Legge 27 dicembre 2006, n. 296) ove all’art. 1 comma 622[8] viene stabilito che “l'istruzione impartita per almeno dieci anni è obbligatoria ed è finalizzata a consentire il conseguimento di un titolo di studio di scuola secondaria superiore o di una qualifica professionale di durata almeno triennale entro il diciottesimo anno di età”, conseguentemente l'età per l'accesso al lavoro viene elevata da quindici a sedici anni[9].

Ciò che è evidente è lo stretto rapporto funzionale tra l’assolvimento dell’obbligo scolastico (che è fissato in 10 anni) e l’accesso al lavoro che fa sì che si debba spostare a 16 anni l’età minima, presumendo che abbia raggiunto la maturità necessaria per svolgere l’attività lavorativa[10].

Su tale punto è interessante osservare che, ai fini della definizione normativa di bambino e adolescente, rileva proprio la soggezione all’obbligo scolastico, atteso che un soggetto di 17 anni potrebbe essere considerato ancora bambino se non ha compiuto i 10 anni frequenza obbligatoria con la conseguenza che non potrebbe svolgere attività lavorativa, mentre un ragazzo di 15 anni che ha assolto l’obbligo scolastico potrebbe essere considerato adolescente. Difatti, ai sensi dell’art. 1 co 2 L. 977/1967 viene considerato “bambino” il minore che non ha ancora compiuto 15 anni di età o che è ancora soggetto all'obbligo scolastico e “adolescente” il minore di età compresa tra i 15 e i 18 anni di età e che non è più soggetto all'obbligo scolastico.

Spostando il focus verso l’ambito familiare, è opportuno precisare come le norme della legge di cui sopra, attesa la previsione dell’art. 2, non siano applicabili agli “adolescenti addetti a lavori occasionali o di breve durata concernenti:

  1. servizi domestici prestati in ambito familiare;
  2. prestazioni di lavoro non nocivo, né pregiudizievole, né pericoloso, nelle imprese a conduzione familiare”.


Ciò significa che, a tali condizioni, sarebbe ammissibile far lavorare un minore che non ha completato il proprio percorso di scolarizzazione, all’interno di un’impresa familiare che, però, secondo le definizioni di cui sopra sarebbe qualificabile come “bambino” e non come “adolescente”.

L’interpretazione che potrebbe darsi a tale disposizione è duplice:

  • quella più plausibile, cioè che con la parola “adolescente” il legislatore potrebbe aver inteso delimitare con precisione (a prescindere dall’assolvimento dell’obbligo scolastico) il range di età del minore che potrebbe essere adibito all’attività lavorativa all’interno dell’impresa familiare, rimanendo coerente con quanto previsto all’art. 4 co 1 che dispone “È vietato adibire al lavoro i bambini” (ferme restando le eccezioni di cui al comma 2);
  • quella meno plausibile, ma in taluni casi considerata, cioè che con la specificazione “non si applicano agli adolescenti” si intenderebbe ammettere al lavoro, all’interno dell’impresa familiare, anche i minori di anni 15 (e quindi i bambini) atteso il contesto protetto nell’ambito in cui svolgerebbero l’attività.


A tal proposito è interessante la lettura della pronuncia della Corte di Cassazione, sezione penale, n. 41591 depositata il 13 settembre 2017[11], i cui fatti sono riferiti ad una S.A.S. in cui la socia accomandataria aveva ammesso al lavoro, per attività commerciale e in via saltuaria, una ragazzina di 16 anni, senza aver completato l’obbligo scolastico. I primi due gradi di giudizio avevano visto la condanna dei genitori e della socia accomandataria, ma la Corte di Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza di condanna considerando la fattispecie come rientrante in quelle di cui all’art. 2 della L. 977/67, in quanto la minore era parente del compagno dell’accomandataria.

Può senz’altro dirsi che la Suprema Corte, in parte motiva, ha guardato al futuro valorizzando il rapporto di parentela (di cui è sconosciuto il grado) tra la ragazza e il compagno dell’accomandataria, al fine di qualificare il tutto nell’ambito dell’impresa familiare; nello specifico, all’epoca dei fatti, non era neanche entrata in vigore la Legge Cirinnà che aveva, come visto sopra, inserito l’art. 230 ter c.c. recante “Diritti del Convivente”, quindi, mancava anche la copertura normativa per la figura del compagno convivente.

Gli Ermellini nella loro attività ermeneutica hanno, sostanzialmente, ricondotto il rapporto di lavoro nell’alveo dell’art. 230 bis c.c. a cui poter applicare la causa di giustificazione di cui all’art. 2 della L. 977/67 (quale norma “scudo” per l’attività lavorativa svolta dal minorenne non scolarizzato) ammettendo al lavoro la minorenne perché parente del convivente, considerandola alla stregua di un familiare impegnato nell’impresa di famiglia.

Va fatta, dunque, una considerazione anche in merito ai “lavori occasionali o di breve durata” di cui all’art. 2, traendo spunto da quanto specificato dalla Suprema Corte di Cassazione, sezione penale, con sentenza n. 35706 del 5 ottobre 2010, “la definizione di breve durata è alternativa a quella di natura occasionale e va necessariamente riferita ad attività che traggono origine da esigenze impreviste dal datore di lavoro e/o risultino di durata corrispondente a quella di una giornata lavorativa o di poco superiore e, cioè, ad un tipo di prestazione che non rientra tra quelle che l'azienda richiede abitualmente ai propri dipendenti, anche se limitatamente a determinati periodi dell'anno” (si vd. anche Cass. Pen. n. 45966 del 9/11/05).

Da tutto ciò, ed in assenza di ulteriori orientamenti chiarificatori, sembrerebbe potersi dedurre, pertanto, che, all’interno dell’impresa familiare, i minori “adolescenti” (dai 15 anni in su) che non hanno assolto l’obbligo scolastico, possono essere sporadicamente adibiti all’attività lavorativa alle condizioni di cui all’art. 2 Legge 977/67, ammettendosi, inoltre, ai sensi dell’art. 4 co 1 D.P.R. 1124/1965 l’assicurabilità INAIL dei familiari adolescenti, in presenza di attività rischiosa e già dal superamento delle 10 giornate lavorative. Sembra, in ogni caso, non potersi escludere che le valutazioni debbano essere fatte caso per caso in merito al contesto lavorativo e alle “prestazioni di lavoro non nocivo, né pregiudizievole, né pericoloso” fermo restando il divieto di adibire i minori alle lavorazioni di cui all’allegato 1 della Legge 977/67. Quadrato Rosso

Note

[1] Sul punto si vedano le primissime istruzioni operative date con la Circolare INPS n. 66 del 31 marzo 2017 e Circolare INAIL n. 45 del 13 ottobre 2017, lì dove si specifica che l’unito civilmente è equiparato al coniuge con l’estensione delle tutele previdenziali in vigore, mentre il convivente di fatto non avendo lo status di parente o affine rispetto al titolare d’impresa non è considerato come prestatore di lavoro soggetto ad obbligo assicurativo in qualità di familiare.

[2] Si vd. Corte di Cassazione con sentenza 20406 del 25 agosto 2017 che, nel riconoscere il diritto della coniuge del collaboratore deceduto a seguito di infortunio alla costituzione della rendita dei superstiti, afferma che il titolare dell’impresa familiare (ai sensi dell’art. 230 bis cod. civ) deve adottare nei confronti dei collaboratori le misure di sicurezza sul lavoro previste dal D. Lgs. 81/08. In caso di infortunio l’INAIL può esercitare l’azione di rivalsa nei confronti del titolare dell’impresa che non ha predisposto le apposite misure di sicurezza, anche se non c’è alcun rapporto di subordinazione.

[3] S. TORIELLO, I collaboratori familiari tra obbligo assicurativo Inail ed applicabilità delle norme in materia di prevenzione, in Working Paper Adapt, 9 giugno 2010, n. 109.

[4] Si vd. per l’iscrizione art. 1 Legge 22 luglio 1966, n. 613 “Estensione dell'assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti agli esercenti attività commerciali ed ai loro familiari coadiutori e coordinamento degli ordinamenti pensionistici per i lavoratori autonomi” e art. 2 Legge 4 luglio 1959, n. 463 “Estensione dell'assicurazione obbligatoria per la invalidità, la vecchiaia ed i superstiti agli artigiani ed ai loro familiari”.

[5] Nel caso di aziende non artigiane, il pagamento del premio è calcolato secondo il regime ordinario, sulla base della retribuzione convenzionale, o di ragguaglio, e del tasso relativo alla gestione tariffaria di appartenenza; nel caso di aziende artigiane, mediante il pagamento di un premio speciale annuo a prescindere dal numero di giornate lavorate nell’arco dell’anno solare. Su quest’ultimo punto si vd. anche Decreto del 27 febbraio 2019 del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze.

[6] Come modificata dall’art. 5 del D. Lgs. N. 345/1999.

[7] Fanno eccezione, previa autorizzazione dell’ITL, i casi in cui l’impiego si concretizzi in attività lavorative di carattere culturale, artistico, sportivo o pubblicitario e nel settore dello spettacolo, purché non siano pregiudicati la sicurezza, l'integrità psicofisica e lo sviluppo del minore, la frequenza scolastica o la partecipazione a programmi di orientamento o di formazione professionale.

[8] Che modifica, di fatto, solo quanto previsto dal D.M. n. 323 del 1999, art. 1, n. 3, che fissava l’obbligo scolastico in 9 anni e non quanto previsto dalla Legge 977/69.

[9] L’assolvimento dell’obbligo scolastico può aversi anche con la sottoscrizione di un contratto di apprendistato – che in ogni caso costituisce un contratto di lavoro subordinato finalizzato alla formazione e all’occupazione giovanile – a partire dal quindicesimo anno di età. Per l’approfondimento si rinvia alla Circolare n. 12 del 6 giugno 2022 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali recante “Il contratto di apprendistato di primo livello, ai sensi dell'articolo 43 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, e del decreto interministeriale 12 ottobre 2015” e note dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro nn. 1369/2023 e 795/2024.

[10] Si vd. Circolare n. prot. 25/I/9799 del 20 luglio 2007 del Ministero del Lavoro e della previdenza sociale.

[11] Si vd. anche E. PRESILLA, A. SEPPOLONI, Bambino, adolescente e impresa familiare: il “mix” della Cassazione, in www.edotto.com.

[*] Funzionario presso INAIL di Treviso, componente del Comitato Unico di Garanzia dell'INAIL. È laureata in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Messina, ha conseguito il master di secondo livello in “Diritto dell’informatica e teoria e tecnica della normazione” presso l’Università La Sapienza, è abilitata all’esercizio della professione forense, socia "ANORC – Professioni" iscritta nel registro dei "Professionisti della Privacy". Le considerazioni contenute nel presente articolo sono frutto esclusivo del pensiero dell’autrice e non hanno in alcun modo carattere impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.

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