Sebbene la forma ordinaria del rapporto di lavoro subordinato sia costituita dal contratto a tempo indeterminato, è certamente ravvisabile nel mercato del lavoro odierno un forte ricorso al contratto a tempo determinato, spesso per garantire alle aziende di poter avere una certa flessibilità in relazione alla forza lavoro utilizzabile, soprattutto in caso di attività cicliche o stagionali, caratterizzate da picchi di lavoro in determinati periodi dell’anno.
Il contratto a tempo determinato è caratterizzato da una durata predeterminata attraverso l’apposizione di un termine, in forza del quale, datore di lavoro e lavoratore sono tenuti a rispettare la scadenza concordata, ma, data la natura atipica del contratto, l’apposizione di un termine è vincolata al rispetto di alcune condizioni.
In primo luogo, l’apposizione del termine è priva di effetto, se non risulta da atto scritto, fatta eccezione per i rapporti di lavoro di durata non superiore a 12 giorni. In secondo luogo, il legislatore ha previsto una durata massima complessiva per l’utilizzo del contratto a termine, al fine di evitare la continua proroga del rapporto contrattuale a tempo determinato tra le stesse parti. La disciplina a riguardo, contenuta nel D.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 (art. 19-29), ha subito una recente modifica con il D.l. 4 maggio 2023 n. 48 (“Decreto Lavoro 2023”, conv. in L. 3 luglio 2023, n. 85) e prevede attualmente che la durata massima del contratto a tempo determinato è fissata in 12 mesi, con possibilità di estensione a 24 mesi, ma solo in presenza di almeno una delle seguenti condizioni:
Fatte salve le previsioni dei contratti collettivi, che possono prevedere anche deroghe ai limiti di durata massima, la durata del rapporto di lavoro a tempo determinato tra le stesse parti non può superare dunque i 24 mesi, anche per effetto di una successione di contratti, conclusi per lo svolgimento di mansioni di pari livello ed uguale categoria legale e indipendentemente dai periodi di interruzione tra un contratto e l’altro; l’unica eccezione è data dalla cosiddetta “deroga assistita”: una volta raggiunti i 24 mesi di durata massima, può essere concluso un ulteriore contratto a tempo determinato della durata massima di 12 mesi a condizione che la sottoscrizione avvenga presso la competente sede territoriale dell’Ispettorato del lavoro (art 19 c.3 D.lgs. 15 giugno 2015, n. 81).
Ultimo limite inerente all’utilizzo del contratto a termine è quello relativo al numero di proroghe del termine originariamente fissato: il termine può essere prorogato, con il consenso del lavoratore, solo quando la durata iniziale del contratto è inferiore a 24 mesi e, comunque, per un massimo di 4 volte nell'arco di 24 mesi, a prescindere dal numero dei contratti; la proroga può avvenire liberamente nei primi 12 mesi e, successivamente, solo in presenza delle sopra citate causali che legittimano la sottoscrizione di un contratto a termine.
Per concludere, sia nel caso si superino i 24 mesi di durata massima, sia nel caso si faccia ricorso ad una quinta proroga, il contratto a termine si trasforma in uno a tempo indeterminato, rispettivamente dalla data del superamento dei 24 mesi o dalla data di decorrenza della quinta proroga.
All’interno di questa contesto, possiamo poi domandarci cosa accade se una delle due parti decida di risolvere anticipatamente il rapporto. Differentemente dal contratto a tempo indeterminato, non trova in questo caso applicazione l’istituto del preavviso previsto dall’art 2118 c.c, in forza del quale “ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando preavviso…” così come stabilito dai CCNL o dalle Parti stesse.
L’unica norma di riferimento in materia di recesso nel rapporto di lavoro a tempo determinato è invece l’art. 2119 c.c., per cui “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine […] qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto.” La norma in questione fa riferimento alla nozione di “giusta causa”, identificabile con un fatto di gravità tale da rendere impossibile la prosecuzione, anche solo temporanea, del rapporto di lavoro. Il datore di lavoro può dunque recedere a fronte di una condotta del lavoratore talmente grave da compromettere irreparabilmente il rapporto fiduciario, mentre il lavoratore può recedere esclusivamente in presenza di una situazione che legittimi le dimissioni per giusta causa; tra le ipotesi di matrice giurisprudenziale (poi codificate in vari CCNL) abiamo: mancato pagamento delle retribuzioni (Trib. Milano 10 maggio 2013), demansionamento illegittimo (Cass. n. 11362/2008), mancata attribuzione al lavoratore delle mansioni stabilite nel contratto individuale, ricorrenza di comportamenti delittuosi posti in essere dal datore di lavoro (molestie, mobbing, ingiuria), presenza di condizioni di lavoro nocive (Cass. 7992/2008).
La sussistenza della giusta causa come elemento necessario alla legittimità del recesso anticipato dal contratto a tempo determinato è suffragata da una costante giurisprudenza: Cfr. Trib.Chieti sez. lav., 14/07/2020, n.132 per cui “ai sensi dell'art. 2119 c.c., entrambe le parti possono recedere da un contratto di lavoro subordinato – anche prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato - solo in presenza di una giusta causa” e Cfr. Tribunale Trento sez. lav., 29/03/2022, n.40, secondo il quale “per consolidato orientamento della Suprema Corte (Cass. 27.6.2019, n. 17355, Cass. 29.10.2013, n. 24335; Cass. 1.6.2005, n. 11692; Cass. 10.11.2003, n. 16849; Cass. 28.12.1999, n. 14637; Cass. 28.3.1997, n. 2822; Cass. 9.6.1995, n. 6530; Cass. 2.4.1992, n. 4056;), alla luce della disciplina ex art. 2119 cod.civ. il recesso ante tempus dal contratto di lavoro a tempo determinato è consentito solo in presenza di una giusta causa intesa quale condotta del lavoratore che evidenzi la sua inidoneità a svolgere l'attività richiestagli, tale da incrinare in modo irreversibile il rapporto di fiducia intercorrente con il datore.”
Sembra invece ancora non pacifica la possibilità per il datore di lavoro di recedere anticipatamente per giustificato motivo oggettivo (Cfr. Tribunale Roma sez. lav., 28/09/2020, n.4817 per cui non troverebbe applicazione il licenziamento per g.m.ogg. in quanto “la riorganizzazione dell’assetto produttivo dell’impresa […] è circostanza non idonea a risolvere in anticipo un contratto di lavoro a tempo determinato” e contra Trib. Chieti sez. lav., 14/07/2020, n.132, secondo il quale “A norma dell'art. 1 L. 604/1966, inoltre, il datore di lavoro può altresì recedere in presenza di un giustificato motivo soggettivo o oggettivo, ciò sia che si tratti di un contratto a tempo indeterminato che di un contratto a tempo determinato”). Pertanto, in assenza di una ragione giustificatrice di cui sopra, la stessa giurisprudenza di merito ha riconosciuto che la parte recedente è obbligata al risarcimento integrale del danno, da liquidarsi secondo le regole comuni di cui all’art. 1223 c.c.
Diverse sono state però le soluzioni date in relazione alla prova del danno e alla quantificazione dello stesso in relazione alla parte recedente. Per quanto concerne la posizione datoriale, un orientamento costante ritiene che “se a recedere è il datore di lavoro, il lavoratore ha diritto a ricevere le retribuzioni che avrebbe percepito ove il contratto si fosse concluso alla scadenza prefissata” (v. sempre Trib. Roma, 28 settembre 2020, n. 4817, che sul punto richiama diversi precedenti giurisprudenziali, Cfr. Corte App. Milano 4 aprile 2013, nonché Cass. 25 febbraio 2013 n. 4748), riconoscendo però al datore la possibilità di fornire la prova del compenso che il lavoratore ha percepito impiegando altrove le proprie energie lavorative (cd. aliunde perceptum) o comunque del compenso che egli avrebbe potuto percepire usando l’ordinaria diligenza per reperire una nuova occupazione (c.d. aliunde percipiendum), in applicazione della regola generale posta dall’art. 1227c.c. (v. Cass. civ. sez. lav. n. 924/1996). In questo caso, i giudici, ricorrendo agli artt. 1218 e 1223 c.c., hanno visto nelle retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito, un parametro utile a risarcire tanto il danno emergente (ciò che il lavoratore perde nel momento in cui il datore recede anticipatamente senza una giusta causa), quanto il lucro cessante (il mancato guadagno provocato da un recesso illegittimo; in tema, da ultimo, cfr. Trib. Chieti 14 luglio 2020, n. 132, per cui “il lavoratore ha diritto ad un risarcimento dei danni parametrati all'ammontare della retribuzione spettante e non percepita fino alla scadenza del termine (in questi termini, per tutte, si veda Cass. civ., sez. lav., 10.11.2003, n. 16849”).
Quando invece a recedere anticipatamente senza una giustificazione è il lavoratore, seppur il dettato giurisprudenziale rintracciabile è molto più scarno, l’atteggiamento dei giudici sembra più rigido per quanto riguarda la sussistenza del danno ed anche la sua determinazione, ponendosi in contrasto con la prassi assai diffusa per la quale il datore di lavoro si fa corrispondere una somma a titolo di risarcimento del danno, pari al valore della retribuzione che il dipendente avrebbe percepito se non si fosse dimesso, spesso trattenendola direttamente dall’ultima busta paga.
Secondo la giurisprudenza invece, perché la richiesta di risarcimento possa essere accolta, grava sul datore di lavoro dimostrare che l’interruzione improvvisa e anticipata del rapporto da parte del lavoratore ha causato un danno all’organizzazione produttiva, inerente ad esempio a costi di formazione sostenuti, costi di selezione per la scelta del lavoratore e poi per la sua sostituzione, oppure, per casi di alta specializzazione, al pregiudizio causato ad un cliente dal recesso illegittimo.
Per quanto riguarda infine la quantificazione del danno, si può richiamare il dettato giurisprudenziale del Trib. Perugia sez. lav., 27/01/2016, n.28, il quale, dopo aver delineato il recesso anticipato da un contratto a tempo determinato senza giusta causa come un inadempimento contrattuale, puntualizza che “il lavoratore è tenuto a risarcire il danno al datore di lavoro ai sensi dell'art. 1218 c.c., sempreché quest'ultimo sia in grado di fornire la prova del pregiudizio subito e, quanto alla sua entità, deve farsi riferimento sia al danno emergente che al lucro cessante ex art. 1223 c.c. o, in alternativa, ove non possa essere provato nel suo esatto ammontare, la sua liquidazione può avvenire in via equitativa a mente dell'art. 1226 c.c.”
Secondo il giudice umbro, dunque, qualora non sia possibile quantificare con esattezza il danno aziendale subito, è facoltà dello stesso giudice poter garantire al datore di lavoro un congruo ristoro, utilizzando come parametro di valutazione l’indennità di preavviso prevista per i contratti a tempo indeterminato, in maniera tale da evitare anche che “il lavoratore possa subire un incomprensibile trattamento di mancato favore rispetto ai lavoratori con contratto tempo indeterminato.”
Data la mancanza di un quadro normativo ampio e ben delineato in materia di recesso da un contratto a tempo determinato, in un’ottica de iure condendo, si auspica un intervento risolutivo del legislatore, che vada a sancire in maniera chiara la procedura da seguire, o andando a prevedere una penale specifica e predeterminata (ancorata magari ai giorni di lavoro effettivamente svolti e al periodo residuo di lavoro da svolgere), oppure, in maniera più semplice e logica, riconoscendo la validità dell’istituto del preavviso anche per i contratti a termine.
Fino ad allora, dati i rischi per il lavoratore connessi ad una eventuale trattenuta in busta paga a titolo di risarcimento del danno, prima di procedere alle dimissioni in caso di contratto a termine, è sempre consigliabile farsi assistere da un istituto di patronato oppure dal proprio sindacato di riferimento, che potrà certamente valutare la situazione specifica al fine di consigliare e tutelare al meglio.
[1] Nelle more di pubblicazione del presente articolo si segnala che il Consiglio dei ministri, in data 9 dicembre 2024, ha approvato il cd. “Decreto Milleproroghe 2025” (di cui si attende la pubblicazione in G.U.), con il quale è stata estesa la possibilità di ricorso alle causali di cui al punto b) fino al 31.12.2025.
[*] Dottore Magistrale in Giurisprudenza. Operatore Ufficio Vertenze CISAL Udine
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