Tra le novità introdotte dalla Legge del 13 dicembre 2024 n. 203, recante “Disposizioni in materia di lavoro” e pubblicata in G.U. n. 303 del 28 dicembre 2024, vi è quella concernente la sospensione della prestazione di cassa integrazione nei casi di incompatibilità del precitato ammortizzatore del reddito con lo svolgimento di attività lavorativa.
La novella normativa che entrerà in vigore decorso il termine di vacatio legis, ossia dal 12 gennaio 2025, sostituisce la previgente previsione dell’art. 8 del Decreto Legislativo 14 settembre 2015, n. 148. Nel merito, la norma sostituita e precisamente al comma 2 dell’art. 8 del surrichiamato decreto, sanciva che non dovesse procedersi alla corresponsione del trattamento di cassa integrazione al lavoratore che svolgesse attività di lavoro subordinato di durata superiore a sei mesi o di lavoro autonomo durante il periodo di integrazione salariale, per le giornate di lavoro effettuate; del pari, il medesimo trattamento salariale era sospeso nel caso in cui il lavoratore svolgesse attività di lavoro subordinato a tempo determinato pari o inferiore a sei mesi, per la durata del rapporto di lavoro. Con l’entrata in vigore della L. 203/2024, il legislatore ha inteso uniformare tutte le ipotesi di effettuazione di prestazione lavorativa in concomitanza con l’ammortizzatore salariale.
Ed infatti l’art. 6 comma 1 della prefata legge non contempla più l’ipotesi di sospensione di cassa integrazione salariale per un tempo pari o inferiore a sei mesi per la durata del rapporto di lavoro subordinato, stabilendo in via perentoria che “Il lavoratore che svolge attività di lavoro subordinato o di lavoro autonomo durante il periodo di integrazione salariale non ha diritto al relativo trattamento per le giornate di lavoro effettuate”.
Resta, invece, pressoché immodificata tra la vecchia la nuova normativa la disciplina della decadenza dal diritto al trattamento di integrazione salariale, nel caso in cui il lavoratore non abbia provveduto a dare preventiva comunicazione dello svolgimento dell'attività lavorativa alla sede territoriale dell'Istituto nazionale della previdenza sociale.
Alcune considerazioni di merito siano consentite, in ordine alle modifiche suesposte, non ritenendosi residuali le ricadute pratiche, con declinazioni e interpretazioni che conducono a valutazioni antitetiche, le une dalle altre.
La novella normativa, di fatto, ripristina la situazione quo ante alla legge di bilancio per il 2022 e precisamente al comma 197, lett. b) dell’art. 1 (L. 234/2021), non compiendo distinzione alcuna circa la durata del rapporto di lavoro, ma basandosi esclusivamente sul criterio di effettività della prestazione lavorativa. Si noti che il tetto semestrale delle prestazioni lavorative in costanza di integrazione salariale, con la formulazione del 2022, nel prevedere la sospensione del trattamento di sostegno per l’intero periodo di lavoro, riconduceva siffatta fattispecie sospensiva al solo lavoro subordinato, non anche a quello autonomo, lasciando alle parti, ossia datore di lavoro e lavoratore, la regolamentazione sinallagmatica tra le prestazioni eseguite e le retribuzioni da corrispondere, sulla scorta della presunzione giuridica che il rapporto di lavoro di breve durata comporterebbe l’automaticità delle prestazioni, senza conferire spazio a forme di integrazione salariale.
Apparentemente, con il ripristino del principio dell’effettività delle prestazioni da lavoro, sia in vincolo di subordinazione che con connotazione di lavoro autonomo, così come stabilito dalla normativa presto vigente, il medesimo lavoratore avrebbe una doppia tutela, mediante il percepimento del compenso quale controprestazione datoriale per l’attività lavorativa e per il tramite di un sostegno integrativo per tutte quelle giornate non “coperte” da lavorazione.
D’altronde, già la giurisprudenza di legittimità si era occupata dell’argomento in esame, ricordandosi da ultimo il pronunciamento della Suprema Corte del 2021[1], che ha enunciato il principio della parziale cumulabilità tra integrazione salariale e altre attività remunerate, rilevando che lo svolgimento di attività lavorativa remunerata durante il periodo di sospensione del lavoro con diritto all’integrazione salariale comporta “non la perdita del diritto all’integrazione per l’intero periodo predetto ma una riduzione dell’integrazione medesima in proporzione ai proventi dell’altra attività lavorativa”.
Tale solco interpretativo era stato tracciato, come peraltro riportato nel sopracitato arresto della Cassazione, da circolari INPS, dapprima del 2010[2] e successivamente del 2011[3] con la previsione del divieto di cumulabilità di retribuzione e integrazione salariale, inteso quale divieto non assoluto, essendo parametrato a “giornata di lavoro effettuata” e consentendo, quindi, l’integrazione tra le due provvidenze economiche fino alla concorrenza tra le somme integrabili corrisposte dall’Istituto previdenziale erogatore del trattamento integrativo.
Ciò precisato, tuttavia, il pronunciamento del Giudice di Legittimità del 2021 va letto nella sua interezza, anche allorquando ricostruisce la ratio della non cumulatività del reddito da lavoro con il trattamento di integrazione salariale a carico Inps, chiarendo che la cassa integrazione costituisce una “forma di assicurazione sociale” per garantire un sostegno al reddito dei lavoratori, perseguendo al contempo, da parte del legislatore (ndr ante 2022), la finalità di “evitare indebiti arricchimenti a scapito delle finanze dello stato”, evocando la condotta illecita della percezione da parte del lavoratore in costanza di altro reddito (da lavoro) con la possibile integrazione degli estremi del reato di truffa aggravata, peraltro già evidenziato dalla Suprema Corte in un pronunciamento del 2009[4].
Finora esposte le ragioni di un sostanziale ritorno al passato mediante la Legge 203/2024, si ritiene opportuno enucleare le criticità potenziali ed al momento solo prefigurabili rispetto alla espunzione dall’ordinamento della sospensione dell’integrazione salariale per i rapporti di lavoro pari o inferiori alla durata semestrale.
La legge di bilancio per il 2022, come sopra richiamata, nel prevedere la sospensione del trattamento integrativo per i rapporti infrasemestrali, perseguiva la finalità di svincolare il percettore dell’integrazione dalla condizione di soggetto assistito in favore di quella di individuo ricollocabile nel mercato del lavoro, mirando a superare lo status di parzialmente collocabile, allorquando un rapporto di lavoro a tempo determinato di breve durata (infrasemestrale) potesse consentire adeguato sostentamento mediante la retribuzione da lavoro e senza ulteriori strumenti di sostegno al reddito.
Sul punto ed ai fini espositivi si richiama la circolare n. 1/2022 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali[5], che enuncia in premessa gli obiettivi della legge di bilancio del 2022 ed in particolare, “quello di garantire tutele adeguate non più attraverso misure meramente assistenziali ma atte a favorire maggiori garanzie del lavoro e politiche attive attraverso la ricollocazione e la mobilità professionale verso le reali domande e richieste del mercato del lavoro”.
Da ultimo, sia consentita una considerazione tratta una potenziale applicazione distorsiva della norma. Nell’ambito di rapporti di lavoro di breve durata, ontologicamente non strutturati, quali potrebbero essere (solo a titolo esemplificativo) quei rapporti con vincolo di subordinazione infrasemestrali, escludere la cumulabilità dell’integrazione salariale con il reddito diretto da lavoro mediante la corresponsione della retribuzione solo per le giornate di effettiva prestazione lavorativa, potrebbe consentire il proliferare di condotte in fraudem legis, poiché parte datoriale, con la consapevolezza e financo l’accettazione del lavoratore, potrebbe annotare giornate lavorative prestate dal medesimo in misura inferiore rispetto a quelle effettivamente prestate, ottenendo l’indebito vantaggio di prestazioni lavorative in suo favore, non retribuite in via diretta ma con ristorazione, seppur parziale al lavoratore mediante l’integrazione salariale, a scapito delle casse dell’ente erogatore.
In conclusione, un obiettivo bilancio sulle criticità e le potenzialità della nuova riforma in materia di incumulabilità dei trattamenti di integrazione salariale e gli introiti da lavoro si potrà effettuare solo nel tempo, come peraltro avviene per tutte le novelle normative.
[1] Cass. civile sez. lavoro del 9 febbraio 2021, nr. 3122.
[2] Circolare INPS n. 130 del 2010.
[3] Circolare INPS n. 94 del 2011.
[4] Cass. penale del 3 marzo 2009, n. 9773.
[5] Circolare MLPS n. 1 del 3 gennaio 2022.
[*] Ispettore del Lavoro. Le considerazioni contenute nel presente intervento sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza
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