La globalizzazione economica trainata dal libero mercato è stata la principale traiettoria dello sviluppo mondiale negli ultimi cinquant’anni. Ciò ha conferito alle imprese multinazionali un potere economico e politico crescente, in grado di influenzare le decisioni globali a discapito degli Stati e delle istituzioni internazionali. Nel corso dei decenni, diversi sono stati i tentativi di arginare lo strapotere delle multinazionali e di porre fine allo stato di impunità alla base di violazioni dei diritti umani persistenti e strutturali in tutti i settori economici, con punte estreme nel tessile, agricoltura e settore minerario. Gli insuccessi registrati da parte delle istituzioni internazionali unitamente alla crescita dell’influenza degli attori privati hanno favorito un cambio di prospettiva che dagli anni novanta ha puntato su mezzi di regolazione alternativi, basati sulla persuasione e sulla reputazione.
È l’epoca del trionfo della cosiddetta soft law, cioè della produzione di atti giuridicamente non vincolanti cui le aziende aderiscono volontariamente, secondo la logica della responsabilità sociale di impresa, ovvero della “integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate” (UE 2001). In altre parole, è la resa alla funzione salvifica della mano invisibile del mercato, cui viene affidato il compito di curare i fallimenti che produce. Una visione ottimistica che miete consensi grazie alla vittoria dell’ordine neoliberale a tutte le latitudini. Sono i decenni della riorganizzazione globale delle filiere e del lavoro, delle delocalizzazioni selvagge e della massima competizione ostile ad ogni regola che possa porre limiti alla libertà di impresa. Lo sfruttamento di risorse naturali e dei lavoratori in condizione di massima vulnerabilità in Paesi a basso reddito e con sistemi politici, amministrativi e giudiziari deboli è la chiave di successo per inondare il mondo di merci a basso costo, spesso inutili e dannose.
La divaricazione tra i messaggi rassicuranti veicolati da codici di condotta, carte etiche e certificazioni sociali delle imprese e la realtà diffusa di abusi nei luoghi di lavoro alla periferia delle catene globali si fa sempre più nitida e persistente. Grazie all’attività di denuncia di attivisti e osservatori indipendenti sull’operato delle multinazionali, appare chiaro anche al legislatore che occorre porre rimedio al vuoto normativo internazionale creato dalla liberalizzazione del commercio e dal gigantismo di attori economici transnazionali sempre più potenti, perciò immuni.
Il nuovo tentativo delle Nazioni Unite di elaborare un sistema normativo internazionale vincolante nel 2011 produce i Principi Guida su Imprese e Diritti umani, una soluzione di compromesso che non intacca l’impunità delle imprese ma diventa lo standard globale di riferimento recepito dagli ordinamenti dei singoli Stati che adottano Piani nazionali per la loro attuazione. Pochi anni dopo, il 24 aprile del 2013, in Bangladesh crolla il Rana Plaza, edificio di 8 piani con 5 fabbriche tessili fornitrici di decine di marchi internazionali. La retorica aziendalista degli approcci volontari e della responsabilità sociale d'impresa vacilla sotto i colpi della cronaca che consegna alla storia un bilancio tragico: migliaia i feriti e almeno 1.138 lavoratori, in maggioranza operaie, muoiono sotto le macerie di un sistema insostenibile.
Un evento senza precedenti nella storia dell’industria della moda, un punto di non ritorno che cambierà l’ordine del discorso su imprese e diritti umani, non solo nel settore tessile.
La Direttiva sul Dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità (di seguito CS3D) è stata approvata dal Parlamento europeo il 24 aprile 2024, non a caso undici anni dopo il crollo del Rana Plaza. In piena sintonia con quanto previsto dal secondo pilastro dei Principi Guida ONU, introduce obblighi di due diligence degli impatti sociali e ambientali sulle filiere, e un regime di responsabilità civile e amministrativa per la violazione di tali obblighi. In altre parole, le imprese hanno la responsabilità di rispettare i diritti umani, che sono universali, indivisibili, interdipendenti e interconnessi. Le aziende che operano sui mercati europei e globali sono corresponsabili di come si vive e lavora nelle fabbriche che compongono le loro filiere e di quali impatti lasciano sugli ecosistemi e l’ambiente in cui operano. Hanno dunque il dovere di gestire con diligenza i rapporti con i propri fornitori e distributori, valutando e prevenendo con azioni concrete i rischi di impatti avversi e violazioni; se trovano qualche criticità hanno il dovere di contribuire a risolverla; se non lo fanno, a danno avvenuto ne potranno essere responsabili legalmente e dovranno risarcire i danni.
La Direttiva approvata, per quanto rappresenti un risultato storico, presenta limiti significativi che ne attenuano la portata e l’efficacia. Primo fra tutti il tema delle soglie di applicazione, che includono solo le imprese con almeno 1.000 dipendenti e un fatturato netto di oltre 450 milioni negli ultimi due anni finanziari, si stima appena lo 0,5% delle imprese europee, troppo poche. Anche l’estensione della applicabilità esce penalizzata dal lungo trilogo, poiché sono esentati dalla norma il settore finanziario e anche attività economiche post-consumo come il riciclaggio, lo smantellamento e lo smaltimento in discarica. Alla luce dei dati sulla produzione annuale di milioni di tonnellate di rifiuti tessili, inceneriti o abbandonati a marcire nelle discariche del sud globale perché non riciclabili, è una pessima notizia. Infine la Direttiva, nonostante la previsione di un regime di responsabilità civile, è debole sul fronte dell’accesso alla giustizia, in particolare per la mancanza di una previsione esplicita dell’inversione dell’onere della prova a tutela delle vittime e per l’assenza di misure esplicite che facilitino l’accesso alla giustizia nelle corti europee.
In quanto direttiva, la CS3D stabilisce i contenuti minimi e gli obiettivi delle leggi di recepimento da parte degli Stati membri dell’UE, lasciando a questi ultimi dei margini di discrezionalità e flessibilità nel definire le modalità di raggiungimento di tali obiettivi a livello nazionale.
In sintesi, il compromesso raggiunto per votare il testo approvato durante il trilogo, ha sacrificato aspetti molto rilevanti che rischiano di annacquare la portata del provvedimento, sino all’ultimo ostacolato dalle lobby industriali. Tuttavia la CS3D è un provvedimento di straordinaria importanza che segna un cambio di paradigma indigesto ai fautori del libero mercato, storicamente avversi all’intervento regolatore dello Stato in economia. Per questo, nonostante il procedimento legislativo democratico basato su approfondite analisi di impatto, consultazioni con gli stakeholder e un lungo negoziato politico, la Direttiva appena approvata è sotto assedio. L’attacco arriva dalla nuova Commissione Europea e si chiama Omnibus simplification package.
Al tempo in cui si scrive in Europa sta succedendo una cosa molto grave che non trova spazio nel dibattito italiano. Una marcia indietro sulle politiche di sostenibilità del EU Green Deal, che si inserisce nel contesto generalmente ostile alla legislazione sulla sostenibilità avviato dal famoso rapporto Draghi sulla competitività dell’estate 2024, che battezza le politiche del nuovo ciclo istituzionale europeo. La Commissione sta lavorando a una proposta, cd. Omnibus, che in una frettolosa rincorsa alla semplificazione (obiettivo sbandierato della proposta di normativa) ridurrebbe l'ambito di applicazione della direttiva due diligence, nonché della CSRD (direttiva sulla rendicontazione della sostenibilità delle imprese, che include la rendicontazione dei rischi climatici), e della EU Taxonomy (il quadro di riferimento per determinare quando le attività economiche sono considerate sostenibili).
Una legislazione omnibus modifica contemporaneamente diverse legislazioni esistenti, ma questa proposta Omnibus si propone di modificare una direttiva, quella della due diligence, che è stata approvata dalle istituzioni europee (solamente a luglio 2024) ma non ancora recepita negli Stati membri. Si è deciso di mettere mano a una normativa recentissima, che non ha ancora avuto modo di essere applicata e dunque testata nella propria efficacia, unica circostanza che giustificherebbe una riapertura del dossier. Questa decisione rappresenta una sorta di excusatio non petita, una palese apertura alle lobby confindustriali che in sede de iure condendo sono riuscite a raggiungere molti dei loro obiettivi, ma non ad evitare tout court l’introduzione della disciplina. Ciò mina ex ante la legittimità del concetto di due diligence aziendale ed è particolarmente grave trattandosi di una normativa che per la prima volta fornisce un quadro completo della responsabilità delle imprese per le violazioni dei diritti umani e per i disastri ambientali che contribuiscono a causare diseguaglianze sociali e disastri climatici.
A condire di antidemocraticità questo quadro è stata la consultazione pubblica avviata dalla Commissione europea il 5 e 6 febbraio 2025 e che però pubblica non è molto stata. La consultazione ha coinvolto circa 40 gruppi imprenditoriali e solo 10 ONG; molte ONG che lavorano su questo tema da anni (fra cui la Clean Clothes Campaign) non sono state invitate.
In questo contesto, la posizione del governo italiano continua ad essere fedelmente allineata a quella di Confindustria. Da documenti resi noti a metà febbraio è emerso che i suggerimenti dell’Italia di modifica alla CS3D depongono verso l’obiettivo di ridurre il più possibile il numero di aziende italiane soggette alla direttiva, e denotano un atteggiamento di totale spregio della normativa due diligence, di profondo disinteresse verso il rispetto dei diritti umani e del lavoro e di chiara volontà di rinforzare la bolla dell’impunità aziendale.
In ogni caso, la palese anti-democraticità del processo Omnibus è stata criticata da più parti a Brussels. Al momento in cui si scrive la partita è ancora incerta, ma si teme che il perimetro dell’Omnibus Simplification Package svuoti di senso l’essenza stessa della direttiva due diligence.
Vale la pena uscire per un attimo dal contesto freddo del diritto e della compliance aziendale, per entrare nel mondo della fabbrica che è quello che la direttiva due diligence cerca di migliorare. Il mondo della fabbrica è caldo, caldissimo: l’aumento delle temperature è maggiore rispetto all’esterno, anche in ragione del ciclo quasi continuo al quale le fabbriche producono. Di fronte ai macchinari si sta a oltre 45 gradi percepiti, capita che si debba lavorare in mutande, o che si svenga per il troppo calore. È caldo di rabbia per colpa dei salari da fame, discriminazioni di genere, scarsa sicurezza, zero sindacati. È caldo perché è fatto di persone, le cui condizioni di vita e lavoro sono oggi dettate dalla violenza di un sistema che permette alle grandi multinazionali di arricchirsi impunite, tutelare solo i propri interessi e rinforzare il proprio potere.
Nel mondo che vorremmo, quello in cui il recepimento della direttiva due diligence fosse in cima alle priorità del governo e il pacchetto Omnibus un brutto incubo, la direttiva costituisce un punto di partenza per arginare questa impunità, ma in fase di recepimento la disciplina può rafforzarsi ancora di più a tutela delle fasce più deboli delle filiere produttive. Le nostre Raccomandazioni per un recepimento efficace, contenute nel policy paper
[1]
che abbiamo pubblicato a dicembre 2024 (contestualmente agli sviluppi repentini sull’Omnibus Simplification Package) si rivolgono al legislatore italiano nella convinzione che il processo di recepimento in Italia debba iniziare senza indugio ed essere partecipato e trasparente. È necessario, in primo luogo, approvare una legge nuova, anziché estendere la portata di normative già esistenti. Inoltre, va aumentata la platea di aziende destinatarie della normativa e vanno introdotti obblighi più stringenti per le imprese che operano in settori ad alto rischio (fra cui il tessile).
Va allargato il perimetro dei diritti umani da rispettare e far rispettare, ed esplicitata l’estensione della due diligence a tutti i livelli della filiera e a tutte le fasi del ciclo di vita dei prodotti. Le previsioni sul coinvolgimento degli stakeholders, in particolare dei sindacati, e sugli obblighi di formazione e supporto anche economico ai fornitori vanno rafforzate. Le norme sulla responsabilità civile devono prevedere esplicitamente l’inversione dell’onere della prova e la legittimazione attiva di sindacati e ONG anche in rappresentanza delle vittime di violazioni. Infine, particolare attenzione va dedicata all’istituzione dell’Autorità di controllo amministrativo, elemento chiave ai fini dell’efficace applicazione della normativa. Sgombrato il campo dalla presenza di Consob (a cui a nostro avviso non vanno affidate le competenze di enforcement CS3D), il paper immagina una possibile soluzione che razionalizzi e valorizzi le competenze di diverse Autorità già presenti nel nostro ordinamento (a cominciare da un rinnovato Ispettorato Nazionale del Lavoro), per poi approdare ad una Autorità unica con competenze rinforzate.
Abbiamo presentato questo lavoro in un seminario rivolto al mondo della ricerca, dell’attivismo e del terzo settore, della politica, dei sindacati e dei media. Abbiamo rivolto un invito a tutti gli stakeholders della società civile italiana sul tema Impresa, filiere e diritti umani, perché si facciano megafono della nostra ma anche di altre proposte ambiziose. Anche in questa sede rinnoviamo il nostro invito, con l’obiettivo di unire le forze critiche di fronte ad approcci de minimis
e rafforzare una rete di advocacy che ha delle richieste ben precise, attuabili e urgenti.
[1] https://www.abitipuliti.org/report/2024-policy-paper-recepimento-direttiva-dovere-diligenza/
[*] Deborah Lucchetti è Presidente di Fair, cooperativa sociale nata per promuovere economie solidali.
[**] Priscilla Robledo è impegnata da oltre 10 anni nel settore no profit come campaigner e lobbista per questioni ambientali, transfemministe e per la legalità.
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