L’equilibrio vita-lavoro rappresenta, ormai, un elemento imprescindibile con il quale fare i conti da parte delle Pubbliche Amministrazioni e non di meno nell’ambito del variegato mondo dell’impresa privata.
Per le giovani generazioni, in particolare, che si affacciano ora nel mondo del lavoro, non è più sufficiente il livello “reputazionale” e di immagine dell’Ente, Amministrazione o impresa/azienda, per renderne massimamente attrattiva la collocazione, viene sempre più ricercato non soltanto un buon livello retributivo iniziale ma, in maniera crescente, la possibilità di fare carriera, salendo nella scala gerarchica, in tempi mediamente accettabili, e soprattutto beneficiare di un elevato grado di “flessibilità”, nell’espletamento delle specifiche funzioni lavorative, tale da garantire il massimo equilibrio e duttilità rispetto al resto degli elementi esistenziali di vita vissuta: familiare, amicale, personale.
Si parla quindi di “work life balance” o, meglio, sarebbe dire oggigiorno “work life integration”, in quanto il lavoro risulta essere sempre più parte integrante delle nostre vite e non soltanto un di cui. La sovrapposizione delle varie componenti delle nostre esistenze rende il tutto senza confini temporali e di luogo così netti.
In ambito di HR la scienza dell’organizzazione del lavoro e le sue esplicazioni rappresenta quell’elemento distintivo ed irrinunciabile per affrontare, consapevolmente, e ripensare le regole d’ingaggio per ogni piano assunzionale si voglia realizzare nel pubblico come nel privato.
Saper offrire il maggior grado di conciliazione tra vita e lavoro non può essere limitato al concetto troppo limitativo di “benefit” ma, di contro, deve poter rappresentare una sorta di prerequisito per competere, alla pari, con gli altri player presenti nel variegato mondo del lavoro, con relative offerte occupazionali.
Parola d’ordine convenzionale potrebbe quindi essere “equilibrio”. Non di meno andrebbe riconosciuta, quale modalità conciliativa, le funzioni lavorative richieste e svolte utilizzando lo strumento dello “smart working”.
Ad ogni modo, il cosiddetto “cambiamento” del lavoro al quale stiamo assistendo in questa epoca non sarebbe correttamente ed efficacemente interpretato se fosse considerato, esclusivamente, come discendente dalla crescente innovazione tecnologica. Penso, di contro, che fattori come evoluzioni storiche e sociali, come cultura e tradizioni, abbiano un ruolo attivo nei cicli di cambiamento, ma in particolare incidano le influenze esterne, come i “veicoli social”, sul modo di concepire e vivere le esistenze.
Innovazione tecnologia associata ai cambiamenti culturali rappresenta un unicum, dove appunto principalmente le più recenti generazioni, dai millennial alla generazione z, stanno sempre più mettendo in discussione i concetti di lavoro sopra tutto, e il lavorare, lavorare, lavorare, spesso al di sopra degli affetti, degli interessi, dei bisogni culturali e di socialità.
Per i più giovani non può esserci soltanto il lavoro come forza trainante del vivere, abbinato alla ricerca spasmodica di guadagni crescenti, è necessario, invece, disporre di maggior tempo per se stessi, da condividere con amici, affetti, utilizzando tempo a disposizione per fare sport, viaggiare, assecondare interessi musicali, artistici, hobbistici, sociali. Insomma, una “vita altra” da quella lavorativa; ora e subito, non solamente da rinviare nel tempo futuro e in età avanzata. In una parola concreta “voglia di vivere” assecondata, lavorando meglio, lavorando meno, dando comunque “protagonismo” al lavoro, ma soltanto per vivere meglio.
Partiamo dall’esaminare, in maniera asciutta, le fondamenta del concetto e del significato del lavoro trasfuso nella nostra Carta costituzionale. E lo facciamo partendo dal tratteggiare il dibattito introdotto dai nostri padri costituenti e in particolare i due filoni principali e contrapposti del pensiero sociale e culturale dell’epoca (con alcune contaminazioni repubblicane e liberali) che si sono rifatti, appunto, principalmente alla concezione marxista del lavoro e a quella cattolica.
L’Assemblea costituente ha prodotto tre distinti emendamenti, presentando propriamente tre formule su cui gli stessi padri costituenti avrebbero dovuto esprimersi: prima, “Repubblica di lavoratori”, seconda, “fondata sul lavoro”, terza, “fondata sui diritti di libertà e del lavoro”. Queste formule furono presentate rispettivamente dai comunisti affiancati dai socialisti, dai democristiani e l’ultima dai repubblicani e liberali.
Iniziamo dall’assunto che la “concezione del lavoro” si differenzia a seconda dell’angolo visuale dalla quale la si guarda. Cattolici e Comunisti, quindi, svilupparono le proprie tesi partendo da presupposti culturali e filosofici differenti.
I cattolici attribuivano al lavoro anche un carattere immateriale, alle soglie della spiritualità e dell’intimo sentire. Viene definito dalla Dottrina Sociale della Chiesa un diritto fondamentale e un bene primario e valoriale per l'uomo. Nella dottrina cattolica, con la redenzione del lavoro e creando il lavoro libero, si pongono la condizione per l’affrancamento dalla schiavitù senza dover ricorrere ad una rivoluzione violenta collettiva. La fatica del lavoro poteva intendersi come liberazione, affrancamento, espiazione, offerta, preghiera, e per ognuno di tali aspetti si configurava un dialogo diretto e filiale con il Signore, Dio padre misericordioso.
Il comunismo, di contro, esprimeva la centralità dei lavoratori e della classe operaia, quindi la stessa centralità del lavoro, all'interno della sfera umana, in un’ottica preminentemente materiale e collettiva (il produrre) ossia l’attività umana e specificamente di “classe” per eccellenza, quasi la sua ragione d’essere. Deve essere svolto in libertà, senza costrizioni e nelle migliori condizioni possibili.
Un buono e dignitoso lavoro non si misura soltanto in “Kappa” euro di retribuzione (come maggiormente in uso nel linguaggio tra le nuove generazioni), ma anche con la qualità della vita che ti permette di costruire e vivere, equilibrate esistenze.
Sempre più frequentemente si decide di lasciare l’Amministrazione o Azienda dove si lavora, non solo per ambizioni o maggiori denari, ma per il desiderio di migliorare la propria serenità e tranquillità mentale, rispetto allo stress continuo. La ricerca di un ottimale equilibrio, che faccia sentire in pace con se stessi, risulta essere un bene prezioso.
La cosiddetta medicina o farmaco della “curiosità” per un mondo sempre più complesso e corrotto nei propri valori fondanti, può definirsi l’altra direttiva o sprone che ci pone alla ricerca di cambiamenti esistenziali e quindi anche lavorativi, sta aumentando per tutti il bisogno di stare bene al lavoro e incrementare il senso di “comunità”.
Declinando da un assunto sulle problematiche del funzionamento delle organizzazioni economiche e delle burocrazie, la cui paternità è dello scrittore inglese, dello scorso secolo, Parkinson: “il lavoro si espande fino a occupare tutto il tempo a disposizione per completarlo: più tempo si ha e più il lavoro da svolgere sembra importante e impegnativo” o più precisamente detta legge postula che una organizzazione cresce indipendentemente dalla quantità di lavoro da svolgere, o che – semplificando ulteriormente – “più tempo a disposizione si avrà, più se ne sprecherà”.
Da ciò è possibile dedurre che in un’organizzazione il lavoro è più inefficiente se il tempo disponibile aumenta, mentre, in una situazione di scarsità di tempo, la necessità di raggiungere l’obiettivo favorisce l’efficienza.
In una recente ricerca dell’Osservatorio HR innovation practice del Politecnico di Milano che ha coinvolto circa 150 realtà produttive e un campione di 1.500 dipendenti tra operai, quadri, manager, nel corso dell’anno precedente hanno cambiato lavoro o hanno seriamente pensato di farlo il 42% del campione indagato, e soltanto il 19% ha dichiarato di sentirsi pienamente soddisfatto e coinvolto nel proprio contesto lavorativo.
Ben l’88% delle realtà aziendali, esaminate nella ricerca, ha riscontrato difficoltà nell’ultimo anno ad assumere e fidelizzare il proprio personale, a causa di rifiuti al termine delle selezioni ovvero, registrando dimissioni a pochi mesi dal momento assunzionale.
Il tutto è quindi riconducibile ad un certo malessere nel nostro mercato del lavoro e alla necessità di intraprendere nuovi modi di valorizzazione del personale offrendo motivazioni reali e un welfare al passo coi tempi come una illuminata visione flessibile dell’organizzazione del lavoro. Tutto condito con una crescente richiesta di formazione ed aggiornamento professionale, avanzata dai lavoratori.
Altro elemento fondamentale, sinonimo di benessere in azienda, è legato alla qualità del “clima” aziendale esprimendo il proprio potenziale sul lavoro (anche nascosto o non richiesto) senza condizionamenti comportamentali.
Rivitalizzare la forza lavoro, questa potrebbe essere una nuova parola d’ordine. Entrare in contatto con tutte le risorse umane di cui si dispone, a un livello più profondo, cercando di conoscere meglio i perni del loro benessere, le legittime aspettative di carriera, la vastità e varietà di skill possedute e i loro obiettivi umani, non è mai stato così importante.
È un fatto che sia possibile ammalarsi di “cattivo lavoro”. L’antidoto può essere la creazione di un ambiente di lavoro più umano per tutti. Il futuro incerto, la pressione dei propri superiori o colleghi, l’eccessiva concorrenzialità, lo stress cronico, la depressione, sono tutti fattori che incidono negativamente sulla qualità della nostra esistenza.
Nei fatti stiamo assistendo ad una straordinaria rivoluzione in corso, nel mondo del lavoro, in parte promanata dall’affermazione post pandemica dello “smart working” ma anche dai nuovi modelli di lavoro “ibrido”, tutto però contornato da nuovi equilibri tra occupazione e vita privata invocati e ricercati dalla Generazione Zeta e dei Millennial, ma non solo, per una maggior “sostenibilità delle esistenze”.
Il lavoro che si libera, o per meglio dire come affermato in un prezioso recente saggio di un importante studioso sociale, prof. Francesco Delzio, dal titolo eloquente “L’era del lavoro libero”, affrancato quindi da vincoli, da barriere, da gravosità economiche e sociali che lo hanno caratterizzato, almeno fino ad oggi, assumendo una nuova coscienza del lavoro. Questo potrebbe anche rappresentare il preludio alla sottoscrizione di un nuovo patto “ultracontrattuale” tra Amministrazioni, Enti, Imprese e lavoratori. Mi spingerei oltre per affermare la necessità, appunto, di un nuovo “patto sociale” tra decisori politici, Amministrazioni, Enti, strutture produttive, con la partecipazione attiva e la mediazione dei corpi intermedi, sindacali e datoriali.
Esiste, pertanto, un nuovo paradigma, il lavoro non vive più solamente in un luogo fisico esclusivo, ma si alimenta ed evolve in connessioni crescenti. Sempre più frequentemente non godremo dell’appartenenza ad un solo datore di lavoro per tutta la vita, ma la stessa si connoterà di maggiore fluidità e flessibilità, come d’altronde sono le nostre vite.
Non assisteremo più alla netta contrapposizione tra lavoro, cura della famiglia e gestione del tempo libero, in quanto questi aspetti stanno diventando parte integrante del vivere integrato.
D’altronde, la prospettiva che abbiamo innanzi ci pone nella condizione di creare un'economia che si basa, progressivamente, sulla partecipazione, (chiamiamola anche “democrazia economica”) e che per questo implicherebbe i lavoratori ad essere, in un qual senso, maggiormente coinvolti nelle sorti degli Enti e delle imprese che li vedono impiegati.
Nel mondo del lavoro odierno si sta affermando, sempre più, un fenomeno alquanto criptico denominato “neuroinclusione” vale a dire, l'inclusione delle persone, in ambito lavorativo, che presentano differenze neurocognitive rispetto alla media della forza lavoro a disposizione, ossia le persone neuroatipiche o neurodivergenti. E invece sarebbe utile se chi si occupa di inclusione lavorativa partisse dall’idea di reciprocità, insomma il lavoro oltre l’idea di inclusione, al fine di trovare il punto di incontro “tra mondo divergente e mondo neurotipico” in ambito lavorativo.
La neurodiversità è un concetto che riconosce e valorizza le diverse varianti del meccanismo neurologico umano. Questo termine racchiude una vasta gamma di condizioni neurologiche, tra cui l’autismo, la dislessia, la sindrome di Tourette, il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività, ecc. Il paradigma della “neurodiversità” si contrappone alla visione medica più tradizionale, che tende a considerare queste condizioni come “disturbi da curare”.
Al contrario, la neurodiversità testimonia che tali condizioni rappresentano semplicemente varianti del normale funzionamento neurologico umano, ognuna con i propri punti di forza e di debolezze.
Tuttavia, una delle principali sfide per le persone neurodiverse è ottenere il riconoscimento di queste condizioni negli ambienti lavorativi, poiché di frequente tali “diversità” non risultano immediatamente palesi e non di rado vengono erroneamente interpretate come semplici eccentricità o mancanze.
È giusto però anche affermare che nel recente passato, si sono riscontrati crescenti interessamenti e sensibilizzazioni, da parte di aziende, imprese ed enti, nell’imprimere maggiore impegno, anche ricorrendo a specifiche campagne di informazione tese ad adottare idonee politiche inclusive.
Evidentemente, in un contesto aziendale, la valorizzazione della neurodiversità può portare a un ambiente di lavoro più inclusivo e innovativo. Riconoscere e supportare tali persone non solo migliora la loro qualità della vita, ma può essere foriero di significativi benefici economici, come sul versante creativo, alle imprese stesse.
Non è così infrequente che i lavoratori e le lavoratrici neurodivergenti decidono di non svelare al datore di lavoro, come ai colleghi, la propria condizione “altra” per paura di essere giudicati od ostacolati nella carriera. Questo inevitabilmente alimenta un circolo vizioso che può condurre a trattamenti non paritari, riduzioni di opportunità e, financo alla espulsione dal mercato del lavoro.
Passiamo ora a menzionare il report “world of work trends 2025”, realizzato dal Top Employer Institute. Secondo tale report dal 2025 assisteremo progressivamente a profondi cambiamenti nei vari contesti lavorativi. Non verranno più a focalizzarsi le peculiarità e “neurodiversità” dei lavoratori per poi adattarli ai posti di lavoro. Di contro verranno attuate politiche di adattamento dei posti di lavoro trasformandosi in luoghi intrinsecamente inclusivi, e questo per garantire a tutti, paritariamente, la possibilità di esprimere il proprio potenziale.
Quindi si sta verificando un cambiamento epocale che ci proietta verso l’inclusività ed integrazione del tessuto stesso delle organizzazioni lavorative.
Ottimale sarebbe la creazione di ambienti lavorativi in cui le diverse appartenenze neurologiche non siano solo accolte a priori, ma fattivamente accettate negli ambienti lavorativi, con un concreto vantaggio per i lavoratori tutti ma ugualmente per le rispettive imprese ed enti. Per questo sempre più si sta andando verso dei programmi assunzionali (nel privato ma in prospettiva anche nel pubblico) basati sul possesso di effettive competenze, osservando più le competenze pratiche e meno le competenze teoriche, facendo sì che tutti possano far valere le rispettive attitudini e capacità, non soltanto i soggetti “neurotipici”, ma anche soggetti per così dire svantaggiati o divergenti.
Si può quindi parlare positivamente dell’agire “neuroinclusivo” come ottimale per ogni tipologia di organizzazione lavorativa moderna.
Risulta, ad ogni modo, evidente come le nostre realtà lavorative, sia pubbliche che private, guardando alla loro media, dal punto di vista tecnologico esigono magari qualche aggiustamento supportato da investimenti, ma viceversa, dal punto di vista prettamente organizzativo-relazionale ritengo che serva una vera e propria rivoluzione complessiva.
Il fenomeno del quiet quitting può sintetizzarsi in: lavoratori insoddisfatti che collaborano solo passivamente, al minimo indispensabile, contrapponendosi alle teorie organizzative che puntano viceversa sulla reale e fattiva collaborazione con l’obiettivo della qualità totale.
Non è un caso, quindi, se molteplici aziende si rendono disponibili a studiare e rendere concreti sistemi di orari e permessi per venire incontro alle esigenze personali. Da questi tentativi emerge, in maniera “randomica”, la possibile sperimentazione della settimana di quattro giorni lavorativi, in alcuni casi spalmando lo stesso orario settimanale, in altri con una qualche riduzione d’orario.
In questo ambito interessante osservare un recentissimo fenomeno che sta gettando le basi in Cina, per contrastare lo stress da lavoro in particolare per le generazioni relativamente più giovani. Una sorta di centri di “ritiro psicologico e mentale” dal nome in inglese: “Youth nursing home” o, meglio, si direbbe in italiano “casa di cura per giovani” (speculari a quelle più canoniche per anziani della terza età) dove appunto i giovani cinesi si rivolgono per staccare dallo stress quotidiano, alla ricerca di affrancamenti dalle ansie e raggiungere un migliore equilibrio, curando anima e corpo.
Luoghi dove ragazzi e ragazze possono rivolgersi alla propria salute mentale, distanziandosi dalla frenetica routine della vita lavorativa attiva. Una sorta di ritiri temporanei dove concentrarsi unicamente su se stessi e i propri bisogni psicologici, cercando una maggiore “felicità”.
Dobbiamo quindi avere maggiore consapevolezza di come le giovani generazioni debbono fare i conti con la disoccupazione, la cattiva occupazione, spesso con una vita sociale insoddisfacente, alienante, senza alcuna prospettiva di carriera, insofferenti verso il posto di lavoro, con pochi soldi, schiacciati dalla competizione tra colleghi.
Negli ultimi anni in Cina, ma non solo, la crisi economica, ma aggiungiamo anche valoriale, si è scaricata soprattutto sui più giovani, costretti a ritmi frenetici, sul lavoro come sulla vita sociale, che ha portato molti al crollo mentale: sottoforma di sindrome da burnout, che può a ben vedere definirsi una delle piaghe dei tempi moderni.
In generale si osserva, in ogni latitudine, come l’attuale generazione z e i millennial sempre più rifugiano dal sottostare a questi ritmi “malsani” di vita moderna: desiderano, possibilmente, di essere autonomi e veramente indipendenti, chiedono flessibilità, ambiscono ad un tempo da dedicare a se stessi, non vogliono rinunciare a interessi, sport, hobbies per trascorrere fuori dalle giornate passate in ufficio. Insomma, vogliono essere maggiormente padroni della propria esistenza.
Si è alla ricerca del valore di una “vita lenta” di cui si rilevano le iniziali tracce negli scritti filosofici di Seneca nel primo secolo A.C. quale antesignano oppositore alla fretta. In particolare, il suo pensiero riguardante l’utilizzo del tempo, quale primo passo per assumere il dominio di sé, avviene grazie al controllo del proprio tempo.
Secondo Seneca, quindi, bisogna vivere ogni giorno con intensità e passione a causa della “brevità del tempo” di cui disponiamo. La sua è una vera e propria terapia morale, che si fonda su tre aspetti: la cura di sé, la riconquista del tempo e il valore del tempo.
Quando Seneca parla del tempo occupato, fa riferimento anche al tempo che si impiega nel lavoro. Per i romani l’otium non era il semplice “far nulla”, ma significava dedicarsi ai piaceri della vita, che ovviamente comprendevano l’esercizio fisico, la frequentazione delle terme, le letture e gli studi che potevano elevare l’animo, fino a condurlo ad uno stato di saggezza.
Con il termine negotium (nec-otium, non-ozio) invece, s’intendevano i momenti dell’esistenza dedicati a compiti e doveri, al fine di garantirsi la propria sopravvivenza nel mondo degli affari, dei commerci e più in generale delle ricchezze materiali.
Per il filosofo romano, allora, l’importante non è tanto la quantità ma la qualità della vita: se la vita occupata scorre via passivamente, quella liberata è vissuta con maggiore intensità. È semplice ritenere che la settimana lavorativa, o singola giornata, abbia potuto bene esplicarsi perché coloro che ne hanno preso parte hanno anche avuto modo di poter assaporare il restante tempo libero?
Molto probabilmente il Seneca avrebbe approvato parzialmente i ritmi odierni di vita, troppo orientati al fare profitto con eccessivo affanno, e avrebbe disprezzato la società in cui viviamo oggi poco aperta ai reali bisogni personali sia spirituali che materiali.
Ad oggi dedicare del tempo a se stessi è diventato sempre più difficile. La vita è divenuta frenetica, le giornate ci scivolano addosso e assumono la medesima forma e monotonia. Ascoltarci, interiormente, sta diventando sempre più difficile.
Da una parte, infatti, la maggior attenzione che questa pratica di vita richiede verso il benessere personale, si riversa anche in una maggiore attenzione alla natura e ai suoi ritmi.
Ma anche senza ricorrere al pensiero filosofico classico, rivolgendo lo sguardo ai più prossimi dei nostri tempi, sul tema lentezza della vita, citiamo lo “slow movement” fondato nel 1986 da Carlo Petrini. Tale movimento si propone di contrastare l’andamento di una società sempre più veloce nei consumi, e nelle esistenze, proponendo una via alternativa per l’appunto “slow” e da cui si approda anche all’altro vettore pensato dal Petrini, vale a dire lo “slow food” movimento in ambito alimentare.
Da tali riflessioni sono confluiti studi e sperimentazioni volti a concepire la contrazione della settimana lavorativa, da cinque giorni a quattro giorni constatando, nel 70% circa dei lavoratori che lo ha testato, una riduzione dello “stress lavorativo”. Dedicare quindi maggior tempo a noi stessi e a ciò che ci fa stare bene, nella società odierna, è divenuto sempre più importante.
In Islanda, ad esempio, dal 2015 al 2019 un gruppo di ricercatori ha dato vita ad una sperimentazione coinvolgendo lavoratori pubblici da impiegare con settimana lavorativa composta da quattro giorni e 36 ore lavorative, con pari salario.
La stessa ha interessato amministrazioni locali (comune di Reykjavík) e governo nazionale. Ha riguardato un campione di 2.500 lavoratori, pari a circa l’1% della popolazione attiva islandese.
Oltre l’Islanda anche altri paesi, quali la Spagna e la Nuova Zelanda, stanno avviando la medesima iniziativa. I lavoratori in questione hanno riferito di sentirsi meno stressati e di aver potuto regolare, meglio, il proprio lavoro con la vita privata. Altro elemento degno di nota riguarda la produttività che è rimasta la stessa e in alcuni casi è addirittura migliorata.
Insomma, si pensa, ugualmente per il nostro Paese, a valorizzare il benessere dei lavoratori anche accompagnando le riduzioni di orari lavorativi o, meglio, dire compattamento delle giornate di lavoro introducendo altre misure di welfare attivo: quali misure a sostegno della genitorialità, bonus/contributi per asili nido, estensione dei congedi per la paternità, in parte obbligatori. Similarmente, tale visione riguarderà anche il settore pubblico con il fare da battistrada i dipendenti statali delle funzioni centrali che hanno visto firmato l’ultimo CCNL 2022/2024 con l’introduzione di innovativi istituti contrattuali.
Se si guarda al futuro la sfida che ritengo ci attenda è rappresentata dalla possibilità, per tutta la classe dei lavoratori attivi, di garantire permanentemente un equilibrio consolidato tra vita e lavoro, in un contesto sempre più immanente di esistenze scandite dalla dominante tecnologia che influenza inevitabilmente le quantità e qualità di lavoro disponibili.
Tale affermazione si basa sul fatto che la cosiddetta rivoluzione digitale alla quale siamo assistendo, sta progressivamente cambiando il mondo. Con l’approcciarsi delle nuove tecnologie e della conseguente supremazia che saprà farsi largo grazie al maggior impiego della Intelligenza artificiale, verranno a modificarsi ruoli, funzioni, comportamenti, nella PA come nelle Aziende ed Enti.
Non a caso sempre più il tema della formazione iniziale e permanente, di tutte le classi lavoratrici, per acquisire soft skills (quali abilità interpersonali) e hard skills (quali abilità puramente tecniche) raggiungendo un ventaglio completo di competenze.
Nei fatti, i costanti cambiamenti del paradigma lavorativo conducono ad una rivisitazione costante su quali siano le competenze irrinunciabili in ogni realtà lavorativa. Inevitabilmente, quindi, la crescita costante del lavoro da remoto e della digitalizzazione ci pongono al cospetto di un quesito ineludibile: ma quali competenze necessitano per rendere i lavoratori realmente utili e funzionali nel rispetto di un crescente modello di miglior bilanciamento vita-lavoro e di progresso sociale nel futuro?
Stiamo assistendo, come società, alle grandi mutazioni tecnologiche di questi anni. E in ogni caso, tale fenomeno impatta profondamente sul mondo del lavoro ma, automaticamente, anche sulla vita delle persone e sulla collettività nel suo insieme.
Ritengo quindi giusto cingere e accogliere l'evoluzione del lavoro. Tutto ciò che sapevamo e sappiamo, sul lavoro e come si estrinseca, sta cambiando: non solo dove, come e quando si lavora, ma anche di cosa hanno realmente bisogno i dipendenti pubblici e privati per sentirsi felici e motivati, oltre le loro retribuzioni, benefit e trattamenti contrattuali e giuridici.
Per concludere vorrei esprimere questo auspicio comune: “Non rendiamo periferico il nostro tempo amato e libero, all’interno delle nostre esistenze! Perseguiamo la ricerca di un benessere fisico e mentale ormai perduto”.
[*] Dirigente INL, Direzione Centrale Risorse - Uff. III° - Bilancio e Patrimonio. Professore a contratto c/o Università Tor Vergata, titolare della cattedra di “Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro” nonché della cattedra di “Diritto del Lavoro”. Il presente contributo è frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non impegna l’Amministrazione di appartenenza.
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