Si sono da poco concluse le elezioni delle Rappresentanze Sindacali Unitarie nel pubblico impiego, nella scuola e nell’università.
Non interessa, in questa sede, analizzare i risultati delle varie sigle sindacali ma porre l’attenzione su un dato che ritengo, letteralmente, stra-ordinario, ossia l’affluenza alle urne.
In un’epoca storica caratterizzata da forte individualismo, frammentazione e liquefazione delle istanze, da un apparente crescente disinteresse verso ciò che un tempo si sarebbe chiamato “bene pubblico” e “interesse collettivo”, le elezioni delle RSU continuano a rappresentare un bagno di democrazia, di centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori che si recano al seggio per esprimere il proprio voto su liste e candidati.
La costituzione delle RSU fu una delle felici intuizioni del prof. D’Antona che, a distanza di decenni dalla loro nascita, continua ad avere enorme successo. In un momento storico in cui l’affluenza per le elezioni dei rappresentanti politici a vario livello è sempre più in declino, sino al punto di essere scesa sotto la soglia del 50% alle ultime elezioni europee, la partecipazione alle elezioni delle rappresentanze sindacali nel pubblico raggiunge percentuali inusitate, con una media del 70-80% di votanti, raggiungendo perfino punte del 100% in alcuni contesti.
Non sembra essere totalmente vera, allora, la narrazione secondo cui una sempre maggiore apatia e una diffusa sfiducia albergano tra i cittadini, allontanandoli dalle forme di partecipazione democratiche. Se il modello elettivo delle RSU sembra essere vincente è probabilmente perché riesce ad avvicinare maggiormente i lavoratori alle rappresentanze sindacali, meglio di quanto sia in grado di fare il mondo politico; del resto, gli eletti e le elette sono colleghe e colleghi dello stesso posto di lavoro degli elettori, magari colleghi di stanza o persone con cui ci si incontra a mensa o alla macchinetta del caffè. In sostanza, ciò che lavoratrici e lavoratori percepiscono è che con la elezione della RSU stanno eleggendo “uno di loro”, un collega che porterà avanti le loro istanze. Il modo in cui lo farà e le istanze che si candida a rappresentare attengono alle diverse sensibilità e al pluralismo sindacale, ma il succo è il concetto stesso di rappresentanza, che ancora si mantiene vivo in ambito sindacale, e che non riduce l’elezione della RSU a mero momento di calcolo della rappresentatività insieme al numero degli iscritti alla singola sigla sindacale.
In un momento di così grave crisi della rappresentanza e rappresentatività politica, in cui circa un cittadino italiano su tre rinuncia ad esercitare il proprio diritto di voto, così faticosamente conquistato nel passato, si potrebbe prendere spunto da quanto accade in ambito sindacale e riavvicinare il mondo politico alle istanze della cittadinanza che – anche in un mondo post-ideologico e liquefatto come quello attuale – continuano a cercare risposte, rappresentanza e rappresentanti.
A maggior ragione, quel modello, così ben rodato nel pubblico impiego, potrebbe essere esteso normativamente anche al mondo del lavoro privato, sia come elemento di calcolo della rappresentatività dei soggetti sindacali, sia come strumento di relazione industriale.
[*] Presidente della Fondazione Prof. Massimo D’Antona ETS
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