Le tutele legislative del padre lavoratore

di Serena Papadia [*]

Serena PapadiaIl complesso impianto normativo, introdotto dal legislatore allo scopo di garantire l’effettiva realizzazione del principio di uguaglianza tra tutti gli individui e, quindi anche tra uomo e donna, costituzionalmente sancito dall’art. 3, ha trovato una delle proprie impreviste manifestazioni, oltre che nelle numerose disposizioni legislative poste a tutela delle cosiddette “quote rosa”, anche nel rafforzamento della disciplina normativa volta a garantire la possibilità per il padre lavoratore di accudire la prole in tenera età[1].

Invero, già negli ormai lontani anni Settanta questa esigenza era stata perseguita, riconoscendo[2] il diritto del padre lavoratore di assentarsi giustificatamente dal lavoro per i primi tre mesi di vita del nascituro - quindi, durante il periodo in cui il bambino veniva di norma affidato alle esclusive cure della madre in virtù del congedo obbligatorio - sia pure nelle sole ipotesi in cui quest’ultima fosse venuta meno ai propri doveri di accudimento per morte, grave infermità o abbandono, non ritenendosi, in caso contrario, necessario garantire alla figura paterna una maggiore libertà dal lavoro, onde permettergli altre occasioni di intervento nei primi momenti di vita del nascituro.

A distanza di quasi mezzo secolo, la nozione stessa di nucleo familiare si è progressivamente evoluta, determinando un processo sociale e pedagogico di maturazione che ha visto accrescere gli spazi e l’importanza attribuiti alla figura paterna nel processo educativo dei figli fin dalla prima infanzia; e, così, dopo un percorso non certo privo di ostacoli, anche il legislatore ha recepito questi profondi mutamenti del tessuto sociale introducendo un periodo, invero ancora meramente simbolico, di congedo di paternità obbligatorio.

Difatti, l'art. 4 comma 24 della Legge 28 giugno 2012, n. 92 ha stabilito, sia pure in via sperimentale per il triennio 2013-2015[3], l’obbligo del “padre lavoratore dipendente” di astenersi dal lavoro per una giornata entro il compimento dei cinque mesi di vita del bambino, nonché, ed è questa forse la previsione più innovativa, la facoltà “di astenersi per un ulteriore periodo di due giorni, anche continuativi, previo accordo con la madre e in sua sostituzione in relazione al periodo di astensione obbligatoria spettante a quest'ultima”.

Pertanto, da un lato si introduce, al pari di quanto accade per la madre lavoratrice, sia pure solo per un giorno, un vero e proprio obbligo per il lavoratore dipendente di assentarsi dal lavoro, se dal caso in coincidenza con il lieto evento[4], nonché la facoltà di assentarsi giustificatamente per ulteriori due giorni, sostituendo la madre nei primi e, quindi più delicati, mesi di vita del neonato, anche al di fuori della tragica casistica sopra riportata, recepita nell’art. 28 del Testo Unico in materia di maternità e paternità, ed in aggiunta alla stessa.

È opportuno evidenziare che, mentre il congedo obbligatorio di paternità – non fruibile ad ore, ma solo a giornate – costituisce un diritto aggiuntivo ed autonomo rispetto a quello della madre del bambino ed è, conseguentemente, utilizzabile anche nell’ipotesi in cui la stessa verta contemporaneamente in congedo obbligatorio, oppure non lavori, al contrario, il congedo facoltativo di paternità, in quanto diritto derivato, presuppone che la madre del bambino sia una lavoratrice subordinata oppure sia iscritta alla gestione separata dell’Inps e scelga di anticipare il termine del proprio congedo obbligatorio post-partum per un numero di giorni proporzionale – due o tre – a quelli fruiti dal padre lavoratore.

Il legislatore inoltre, nel prevedere espressamente che entrambe le tipologie di congedo di paternità obbligatorio e facoltativo, riconosciute dalla novellata normativa, siano interamente retribuite con un’indennità giornaliera pari al 100%[5] della retribuzione, ha certamente accresciuto le possibilità che questo istituto venga effettivamente utilizzato, specie da parte di quei nuclei familiari monoreddito ove sia solo il padre a far fronte alle necessità economiche familiari, rispetto a quanto non sia finora accaduto con il congedo parentale di cui all’art. 32 del D.Lgs. n. 151/2001 di durata maggiore, in quanto fruibile dai genitori entro gli otto anni di vita del bambino per un periodo di 6 mesi – estensibile a 7 mesi per il padre nel caso in cui il medesimo fruisca del congedo in questione per almeno 3 mesi – ma retribuito solo in misura pari al 30% nei primi tre anni di vita del bambino e, successivamente, in tale percentuale solo “a condizione che il reddito individuale dell'interessato sia inferiore a 2,5 volte l'importo del trattamento minimo di pensione a carico dell'assicurazione generale obbligatoria”.

Il lavoratore che intenda avvalersi degli istituti del congedo di paternità obbligatorio e facoltativo, così come già avviene per il congedo parentale, dovrà necessariamente preavvisare almeno 15 giorni prima il datore di lavoro attraverso una comunicazione scritta allo scopo di tutelarne le esigenze organizzative; al contrario qualora il lavoratore chieda di godere degli anzidetti giorni di congedo durante un periodo in cui già fruisca dell’indennità di disoccupazione, o dell’indennità di mobilità, oppure del trattamento di integrazione salariale a carico della cassa integrazione guadagni, potrà percepire l’indennità prevista per il congedo di paternità, tuttavia, in modo non cumulativo con tali misure a sostegno del reddito.


Da ultimo, è opportuno evidenziare che, nell’attesa della predisposizione di una normativa di armonizzazione ad hoc, compatibile con le fonti speciali che ne regolamentano la posizione, la disciplina fin qui descritta non si applica ai dipendenti della Pubblica Amministrazione[6], individuati ai sensi dell’art. 1, comma 2, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165.

Un altro istituto normativo di cui già da tempo possono avvalersi, alternativamente, la madre lavoratrice o il padre lavoratore è quello dei riposi giornalieri, un tempo, quando costituivano prerogativa esclusiva della madre, denominati, “riposi giornalieri per l’allattamento”; gli stessi sono disciplinati dall’art. 40 del D.Lgs. n. 151/2001 che prevede espressamente il diritto del lavoratore o della lavoratrice dipendente di astenersi dal lavoro per il primo anno di vita del bambino, pur godendo di una copertura retributiva pari al 100% dello stipendio, per un’ora al giorno qualora l’orario giornaliero sia inferiore alle sei ore, oppure per due riposi della durata di un’ora ciascuno, fruibili anche consecutivamente, nel caso in cui l’orario lavorativo giornaliero sia pari o superiore alle sei ore.


È da tempo pacificamente stabilito che i riposi giornalieri possano essere fruiti dal padre lavoratore dipendente - sia da datore di lavoro pubblico che privato - in un ampio novero di ipotesi e, più precisamente: qualora il figlio sia affidato esclusivamente al padre; oppure in caso di morte o grave infermità della madre, o ancora la madre sia una lavoratrice autonoma, o una libera professionista, oppure se pur essendo una lavoratrice subordinata non se ne avvalga - o non ne abbia facoltà in quanto appartenente a categorie professionali per cui tale istituto non sia riconosciuto, quali le lavoratrici domestiche, o a domicilio.

Papadia 7 1Al contrario, solo dopo un lungo percorso giurisprudenziale, è stato riconosciuto il diritto del padre lavoratore di fruire di tali riposi anche nel caso in cui la madre del bambino sia una casalinga: dapprima, infatti era stata categoricamente esclusa tale possibilità[7], ritenendosi, in ossequio ad una logica tradizionalista, che non potesse sussistere alcuna necessità del bambino a cui la stessa non potesse sopperire personalmente.

Il merito di aver abbandonato questa impostazione alquanto retrograda va innanzitutto attribuito alla decisione n. 4293 del 9 settembre 2008 del Consiglio di Stato – che ha trovato un’ulteriore e più recente conferma nella sentenza del medesimo organo giurisdizionale n. 4618 del 10 settembre 2014 – ove, tenuto conto che un sempre maggior numero di pronunce giurisprudenziali qualificano la casalinga come lavoratrice a tutti gli effetti[8] e che l’istituto dei riposi giornalieri è stato introdotto proprio per offrire un maggiore sostegno al nucleo familiare in quel momento delicato che è la nascita di un bambino, si ammetteva che, anche se la madre del bambino fosse stata una casalinga, il padre lavoratore avrebbe potuto ugualmente fruire dei riposi giornalieri nel caso in cui la stessa fosse stata impegnata in attività che potessero distoglierla dall’assolvimento di tale compito.



Nell’immediatezza, questo indirizzo giurisprudenziale fu recepito dall’Inps, nella circolare n. 112 del 15/10/2009, in senso restrittivo, ammettendosi tale eventualità solo nel caso in cui la madre casalinga fosse stata “… impegnata in altre attività (ad esempio accertamenti sanitari, partecipazioni a concorsi, cure mediche e simili” da documentare dettagliatamente al datore di lavoro; ben presto, tuttavia, già nella lettera circolare C/2009 - prot. 15/V/0019605/14.01.05.02 del 16/11/2009, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha chiarito che l’introduzione di tali condizioni limitative, per di più di origine meramente interpretativo anziché normativo, non era ammissibile, in quanto non essendone destinatarie anche le lavoratrici dipendenti o autonome, avrebbe dato luogo ad una violazione del principio di uguaglianza tra madri lavoratrici.

Un ultimo istituto introdotto dal legislatore nell’ottica di promuovere il principio del favor del ruolo genitoriale e, quindi, anche quello del padre lavoratore, è, infine, quello sancito dall’art. 47 del D.Lgs. n. 151/2001 che riconosce il diritto di entrambi i genitori, alternativamente, di astenersi dal lavoro durante la malattia del figlio di età non superiore a tre anni, e per un massimo di 5 giorni, computati per anno di vita, se il bambino abbia un’età compresa tra i 3 e gli 8 anni.

Occorre precisare che il lavoratore, padre o madre – che gode delle possibilità di fruire di questi “permessi” anche se l’altro genitore non ne abbia diritto – dovrà giustificare l’assenza dal lavoro al datore di lavoro, documentando l’evento patologico in virtù di un certificato medico rilasciato da uno specialista del SSN o da un medico convenzionato, corredato, per il principio dell’alternatività, da una dichiarazione dell’altro genitore attestante che non ha inteso fruire di questo stesso istituto per il medesimo evento.

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Sarà, invece, consentito ad entrambi i genitori assentarsi congiuntamente dal lavoro giustificando l’astensione sulla base di istituti giuridici diversi, ad esempio l’uno per malattia del bambino, l’altro per congedo parentale; oppure nel caso di gemelli per eventi patologici riconducibili a figli diversi.

Proprio in quanto la finalità perseguita è quella di mero accadimento della prole, l’assenza dei genitori dal lavoro, sia pure alternativamente, sarà consentita senza limiti di tempo fino ai tre anni di vita del bambino, non dovendosi ricondurre la nozione di malattia del bambino a quella di uso comune, ma ricomprendendo anche la fase della convalescenza; non è, inoltre, ammessa la sottoposizione del minore a visita fiscale o ad altre forme di controllo della malattia, tuttavia, salvo il caso di disposizioni contrattuali più favorevoli, è prevista una copertura meramente contributiva di tipo figurativo e non anche retributiva.


In conclusione, dando uno sguardo di insieme agli istituti giuridici introdotti nel corso degli anni nel nostro ordinamento giuridico a tutela della figura del padre lavoratore, è innegabile la profonda trasformazione fin qui determinatasi nella società italiana, tuttavia, ancora molta strada deve essere percorsa per garantire pari dignità al ruolo di padre rispetto a quello della madre; difatti, seppur profondamente diversi, entrambi sono ugualmente determinanti per la crescita di un bambino; del resto come affermava in uno dei suoi aforismi Ernest Hemingway: “Essere un padre di successo è un ruolo unico: quando hai un figlio non seguirlo solo per i primi due anni”. Quadrato Verde

Note

[1] Le finalità espressamente perseguite dal legislatore sono quelle di promuovere una “cultura di maggiore condivisione dei compiti di cura dei figli all’interno della coppia e favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”.

[2] Si vedano i commi 1 e 2 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, ora fedelmente recepiti dall’art. 28 del Testo Unico in materia di maternità e paternità.

[3] A decorrere dagli eventi parto, adozioni e affidamenti avvenuti dal 1° gennaio 2013.

[4] Tuttavia, a differenza del congedo di maternità obbligatorio della lavoratrice madre, in caso di parto plurimo i giorni di congedo obbligatorio riconosciuti al padre lavoratore non sono moltiplicati.

[5] L’indennità giornaliera viene anticipata dal datore di lavoro, ma è a carico dell’Inps, si veda in tal senso la circolare dell’Inps n.40 del 23 Marzo 2013.

[6] Cosi è stato stabilito dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della funzione pubblica - con nota n. 8629 del 20 febbraio 2013.

[7] Nelle circolari dell’Inps n.109/2000; n. 8/2003 e 95 bis/2006 era stato più volte ribadito che l’espressione madre lavoratrice “non dipendente” di cui all’art. 40 del D.lgs. n. 151/2001 dovesse essere interpretata nel senso di “lavoratrice autonoma avente diritto ad un trattamento economico di maternità a carico dell’Istituto o di altro Ente previdenziale”.

[8] Si veda, tra le altre, la sentenza n. 20324 del 20.10.2005 della III Sez. della Corte di Cassazione.

[*] L’Avv. Serena Papadia è funzionario ispettivo del Ministero del Lavoro in servizio presso la Direzione Territoriale del Lavoro di Cosenza. Le considerazioni contenute nel presente articolo sono esclusive del pensiero dell’autore e non impegnano, in alcun modo, l’amministrazione di appartenenza.


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