Rischio Mobbing tra gli Ispettori: possibile?
di Federica Bortolazzi [*]
Proseguiamo la nostra conversazione intorno al mondo del Pubblico impiego, già trattato nel mio precedente articolo pubblicato sullo scorso numero di "Lavoro@confronto", (riferito alla situazione degli Ispettori nella Pubblica Amministrazione ed alla condizione di forte stress nel quale sono costretti ad operare a causa dell'inadeguatezza degli strumenti s loro disposizione per l'assolvimento dei loro compiti istituzionali) per trattare oggi di un tema altrettanto importante.
Quello del cd. "benessere organizzativo" è argomento del quale nella Pubblica Amministrazione si parla spesso: l'intenzione sarebbe quella di predisporre interventi per la concreta soluzione di problemi del personale tra cui, per quanto qui ci interessa, anche di quello ispettivo.
Tuttavia il più delle volte tali dichiarazioni d'intenti, sempre invariabilmente annunciate con vasta eco mediatica, restano confinate al piano delle lodevoli intenzioni cui purtroppo non viene dato seguito (aspetto quest'ultimo che invece passa pressoché sotto silenzio, o quasi).
Risulta infatti difficile poter parlare efficacemente di "benessere organizzativo" quando il più importante presupposto per la sua realizzazione, ossia la valutazione dei rischi da lavoro stress correlato, viene evitato.
Certo da un lato non sfugge il fatto che la realizzazione di progetti di questo tipo richiede l'impiego di risorse (economiche, e non solo) non trascurabili, soprattutto in tempi come questi. Tale aspetto dovrebbe tuttavia essere ben noto a chi, ciò nonostante, pare non potersi sottrarre alla tentazione dell'annuncio “a sensazione”: ma allora perché seguitare su questa strada?
La personale opinione di chi scrive queste righe, confortata dalle esperienze professionali maturate attraverso i colloqui diretti sostenuti è che, forse, manchi la volontà politica di realizzare fino in fondo i progetti in questione, tuttavia ugualmente annunciati nel tentativo di placare i malumori sempre più diffusi nel settore.
Per ritornare ora a quanto di mia stretta competenza dopo la “digressione” di cui sopra, dirò che l'assenza di un dato di tale importanza impedisce un'analisi dettagliata dei cd. "eventi sentinella" (veri e propri campanelli d'allarme da cui desumere la qualità dell'ambiente lavorativo, tra i quali ad es. numero di infortuni e assenze per malattia, turnover, lamentele dei lavoratori, sanzioni disciplinari ecc...) ed aumenta in misura esponenziale le probabilità che venga attuata una gestione poco "sana" del potere aziendale, con il rischio di provocare situazioni di disagio lavorativo che possono sfociare con il tempo in altrettanti casi di Mobbing.
Con tale termine si intende una guerra sul lavoro in cui, tramite violenza psicologica, fisica e/o morale, una o più vittime vengono costrette a sottostare alla volontà di uno o più aggressori.
Questa violenza si esprime attraverso attacchi frequenti e duraturi che hanno lo scopo di danneggiare la salute, i canali di comunicazione, il flusso di informazioni, la reputazione e/o la professionalità della vittima. Le conseguenze psicofisiche di un tale comportamento aggressivo risultano inevitabili per il mobbizzato.(Ege 2001).
Dunque possiamo definire “"Mobber”, colui che mette in atto azioni vessatorie ad intento persecutorio con il fine ultimo di estromettere dal lavoro il cosiddetto “Mobbizzato”, colui che le subisce: quest'ultimo, ritrovandosi in costante posizione di inferiorità in ragione delle condotte di cui è destinatario giunge per rassegnazione ad abbandonare il posto di lavoro.
Il Mobbizzato si trova nell'impossibilità di reagire in modo adeguato, non essendo in grado di affrontare quelle che vengono chiamate strategie di “coping” (tentativo posto in essere dalla nostra mente per individuare, tra le possibili soluzioni a disposizione, quella più appropriata per rendere meno spiacevole la situazione).
La prolungata soggezione a tali attacchi provoca a lungo andare disturbi psicosomatici, relazionali e dell'umore che possono, nei casi più gravi, sfociare in invalidità psicofisiche permanenti di vario genere, quantificabili con valutazione di tipo percentuale del danno da mobbing subito.
La mia esperienza professionale come psicologo del lavoro mi ha portato (e tutt'ora porta) a contatto con persone che necessitano di aiuto per comprendere se la situazione di disagio vissuta all'interno dell'ambiente lavorativo sia ascrivibile o meno alla fattispecie "mobbing".
Ebbene, non esiste un caso di mobbing uguale all'altro per l'intuibile ragione che i motivi sottostanti a ciascuno di essi, scaturendo dalla peculiare dinamica relazionale esistente tra "Mobber" e "Mobbizzato", varieranno di volta in volta in funzione dello specifico contesto aziendale in cui i due attori si trovano calati.
Certo, si possono individuare "macrocategorie" di riferimento: le ricerche svolte negli ultimi anni hanno portato alla luce cause scatenanti dell’abuso psicologico perpetuato sul posto di lavoro che vanno ben oltre le antipatie, le gelosie e le frustrazioni.
Guardando il fenomeno più in profondità si è evidenziato un preciso nesso causale con i problemi legati al momento storico che stiamo vivendo. Le ristrutturazioni delle aziende private e pubbliche, le fusioni tra società dello stesso settore generano forti conflittualità e competitività nell'ambiente di lavoro. Coloro che si trovano a svolgere uguali mansioni entrano, a seguito dei processi riorganizzativi di cui sopra, in rotta di collisione fra loro fino all'eliminazione della risorsa più "scomoda”. In quest'ultimo caso lo specifico termine da utilizzare è “Bossing”, particolare fattispecie di Mobbing, dove l'azione vessatoria è perpetrata, con procedure poco consone, direttamente dall'azienda.
Tornando alla mia esperienza professionale, molti dei pazienti sottoposti ad azioni vessatorie da me ascoltati sono per lo più appartenenti al pubblico impiego, settore cui tutti (o quasi) ambiscono date le tranquillità e serenità che, almeno nell'immaginario collettivo, parrebbero caratterizzare tale comparto sia in termini economici che di scarso stress (in questo caso distress, ossia stress cattivo, nocivo alla salute).
Parafrasando il vecchio adagio secondo il quale “l'erba del vicino è sempre più verde”, diremo che sarebbe opportuna una più approfondita conoscenza delle situazioni prima di abbandonarsi a giudizi frettolosi.
Vero è che rispetto all'azienda privata la tutela del lavoratore è maggiore, il rischio di licenziamento più basso se non quasi inesistente, ma quale sia la realtà all'interno di ogni ufficio è questione che può conoscere solo chi lo frequenti quotidianamente.
I racconti che mi sono stati esposti si compongono di persone che per mesi, a volte anni, subiscono umiliazioni di ogni tipo, che cercano di sfuggire al proprio aggressore, che tentano invano di comprendere ”perché proprio a me?”.
Dapprima si ritiene di aver fatto qualcosa di male o di non corretto; quindi, inconsciamente, si mettono in dubbio le proprie capacità lavorative con il rischio di calo della concentrazione ed aumento degli errori e degli infortuni (ricordate gli "eventi sentinella"?); infine si giungerà ad essere discontinui nelle prestazioni per paura di sbagliare ed essere ripresi dal superiore gerarchico.
Nel lungo periodo però i sintomi del disagio lavorativo mettono a serio rischio la salute psico-fisica della vittima devastandone l'equilibrio emotivo, allontanandola dal luogo di lavoro a causa dei disturbi psicosomatici sviluppati duranti i mesi di vessazione, fino al ricovero ospedaliero nei casi più estremi ma non per questo rari.
Perché mai alcune persone decidono di diventare mobber? Nell’ambito della psicologia sociale una possibile spiegazione del suo comportamento è il cd. “disimpegno morale” che comporta una sorta di auto-assoluzione facilitata dalla scissione tra pensiero e azione, così da permettere al soggetto di compiere azioni eticamente riprovevoli senza avere rimorsi di coscienza né sensi di colpa (Bandura, 1999).
I tratti di personalità del mobber dicono trattarsi di persona non forte come si potrebbe pensare, ma al contrario di un soggetto con problemi.
Varie sono le definizioni. Spesso è un narcisista, insicuro, incapace di tollerare che il mondo non ruoti intorno a lui, che sopravvaluta le proprie capacità al punto di rivendicare qualifiche che non ha e che, al contrario, vede nella sua vittima (della quale ha paura e che per questo vuole allontanare).
È una persona paranoide, sempre all’erta, sospettosa, minacciosa che guarda gli altri con diffidenza considerandoli potenziali nemici.
Talvolta il mobber presenta una personalità aggressiva che gli permette di stare in una posizione di dominanza, rispetto alla quale si pone però in modo molto subdolo ed ambiguo.
Spesso riveste un posto di potere sul lavoro, con incarichi importanti che gli danno modo di affermare la sua natura di leader aggressivo mostrando un bisogno ossessivo di dominanza, con totale assenza di empatia verso i sottoposti ed evidenziando una psicotica incapacità di autocontrollo verso chi lo circonda.
Discorso diverso per ciò che riguarda il mobbizzato: tutti possono esserne vittime, nessuno escluso. Si è portati a ritenere che persone con struttura di personalità un po' debole possano essere più predisposte a subire vessazioni perché non in grado di contrastarle.
In realtà le condotte vessatorie iniziano con deboli tentativi di intimidazione per sfociare solo in un secondo tempo in vere e proprie umiliazioni, attacchi verbali, alla reputazione, attuati quasi quotidianamente.
E' estremamente difficile capire, nel momento in cui una persona chiede aiuto ad un professionista esperto di mobbing, come fosse la sua struttura di personalità prima di subire per un lungo periodo, (almeno sei mesi), le condotte vessatorie dato che queste ne hanno inevitabilmente alterato l'originaria conformazione.
Stando all’ultimo sondaggio dell' Ispesl, (Istituto per la prevenzione e la sicurezza del lavoro) che sul mobbing ha aperto un centro d'ascolto, nel nostro Paese ne sono vittima circa un milione e mezzo di persone. Il problema è più diffuso al nord (65 per cento) e, come già detto, colpisce maggiormente le donne anche se di poco (52 per cento).
Il 70 per cento di essi lavora (appunto) nella pubblica amministrazione, con una produttività che mediamente, in seguito ai primi episodi di violenza, cala del 70 per cento. Tra le categorie più esposte gli impiegati (79 per cento) e, tra questi, i diplomati (52 per cento) e i laureati (24 per cento). Nell’Unione europea le vittime sono circa 12 milioni e in testa troviamo Inghilterra, Svezia, Francia, Irlanda e Germania. L’Italia, una volta tanto, non si trova tra i peggiori. E secondo l’ultimo rapporto Eurispes, i superiori restano i principali responsabili (87,6 per cento) anche se non di rado il mobber è un collega (39,2 per cento).
Come uscire da una situazione che sta espandendosi sempre più, e rispetto alla quale anche la giurisprudenza ha talora difficoltà a fornire risposte precise ed univoche?
Contenere il fenomeno non è semplice, ma si può tentare di arginarlo con suggerimenti ed accorgimenti pratici da adottare quando ci si trovi a fronteggiare situazioni critiche.
Quando ci si renda conto che la situazione sul luogo di lavoro si sta aggravando è bene non sottovalutarla facendo trascorrere tempo all'insegna del ”sarà un momento particolare, passerà...”, perché questo non accadrà: anzi è concreto il rischio che la situazione peggiori, per cui il consiglio che mi sento di fornire è quello di informarsi sugli eventi che ci stanno capitando.
Già: ma in che modo?
Un ottimo metodo è quello di armarsi di pazienza e tenere un diario su ciò che quotidianamente accade (potrebbe esserci utile nel tempo a ricordare), non colpevolizzarsi pensando di essere gli unici a vivere tale situazione e, se questa è già diventata troppo stressante, rivolgersi al proprio medico di base: alcuni giorni di riposo in malattia serviranno per riprendersi fisicamente ed allontanarsi momentaneamente dal luogo che ci crea malessere.
Ma non è tutto: bene sarebbe anche tenere la corrispondenza e le richieste fatte (da inoltrare sempre in forma scritta quali esse siano), chiedere di poter ricevere per iscritto qualsiasi ordine impartito solo verbalmente (“a voce mi è stato detto di fare questo, chiedo conferma scritta”). Molto spesso non riceverete risposta, ma questo costituirà proprio la miglior prova delle azioni mobbizzanti in essere.
Cercare alleati, colleghi di lavoro che siano in grado di testimoniare (anche se difficile), a meno che in qualche modo anche loro siano vittime dello stesso carnefice..., a volte si abbandona una vittima per cercarne un'altra.
Raccogliere i certificati medici che attestano il vostro malessere od il ricovero ospedaliero.
Per concludere, se vi rendete conto che da soli o unicamente con il supporto della vostra famiglia non riuscite ad uscire dalla situazione di malessere lavorativo in cui vi trovate, chiedete aiuto a professionisti che siano in grado di aiutarvi, rivolgendovi a chi è in grado di fornirvi sostegno psicologico ed assistenza legale: se avete intenzione di agire in giudizio denunciando il probabile mobbing che state subendo, avrete bisogno della loro professionalità.
L'elenco dei consigli potrebbe proseguire ancora a lungo ma non è mia intenzione approfittare ulteriormente dello spazio concessomi, né abusare della pazienza del lettore.
Forse qualcuno potrà riconoscersi in quanto ho scritto, sia esso soggetto attivo o passivo delle condotte mobbizzanti: ed anche se ben diverse sono le ricadute psicologiche che essi si troveranno a subire in virtù del ruolo ricoperto, li accomunerà il dato dello scadimento del livello qualitativo del comune ambiente di lavoro.
Questo ultimo dato, di per sé, dovrebbe indurre a riflettere.
[*] Psicologa del Lavoro e delle Organizzazioni, Iscritta all'Albo degli Psicologi dell'Emilia Romagna (Laurea presso Università di Padova. Specializzazione per l'uso Professionale del Metodo Ege 2002 per la Valutazione e Quantificazione del danno da Mobbing.
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