Senza strumenti e servizi adeguati il contratto di ricollocazione rischia di restare una chimera
di Gianluca MELONI [*]
La Legge 10 dicembre 2014, n. 183, attraverso la quale il Parlamento ha attribuito al Governo la delega per riformare molteplici aspetti che regolano il funzionamento del mercato del lavoro, indica – al fine di garantire la fruizione dei servizi essenziali in materia di politica attiva del lavoro – l’obiettivo della “introduzione di principi (…) che prevedano la promozione di un collegamento tra misure di sostegno al reddito della persona inoccupata o disoccupata e misure volte al suo inserimento nel tessuto produttivo, anche attraverso la conclusione di accordi per la ricollocazione che vedano come parte le agenzie per il lavoro o altri operatori accreditati, con obbligo di presa in carico, e la previsione di adeguati strumenti e forme di remunerazione, proporzionate alla difficoltà di collocamento, a fronte dell'effettivo inserimento almeno per un congruo periodo, a carico di fondi regionali a ciò destinati, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica statale o regionale”. Attraverso tale percorso, era parso che il legislatore volesse affrontare in modo organico uno degli aspetti dirimenti di una riforma del lavoro efficace e moderna, operando per la transizione da un sistema che tutela il posto di lavoro a un sistema che tuteli il lavoratore, realizzando una catena che veda indissolubilmente legati la flessibilità in entrata e in uscita, ammortizzatori sociali solidi, politiche attive efficaci e servizi per l'impiego orientati al ricollocamento dei lavoratori.
Lo scorso 24 dicembre il Consiglio dei Ministri ha approvato i primi due Decreti Attuativi del Jobs Act, sulla base della Legge Delega 183/2014, relativi rispettivamente all'attuazione del “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti” e al “riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e ricollocazione dei lavoratori disoccupati”, i quali sono stati emanati lo scorso 4 marzo.
Il primo schema del Decreto Attuativo riguardante il “Contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”, successivamente modificato, prevedeva – all’articolo 11 – la disciplina del “Contratto di ricollocazione”, nel quale era previsto, soltanto per “il lavoratore licenziato illegittimamente o per giustificato motivo oggettivo o per licenziamento collettivo (…) il diritto di ricevere dal Centro per l’impiego territorialmente competente un voucher rappresentativo della dote individuale di ricollocazione, a condizione che effettui la procedura di definizione del profilo personale di occupabilità”.
Tali presupposti sono stati realizzati con il Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 22, contenente “Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati”, il quale – all’articolo 17 – regola il Contratto di ricollocazione: a differenza del primo schema legislativo sopra citato, la nuova tipologia non è applicabile solo ai lavoratori licenziati illegittimamente o per giustificato motivo oggettivo o per licenziamento collettivo, ma a qualsiasi soggetto in “stato di disoccupazione” – secondo la previsione dell'articolo 1, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 21 aprile 2000, n.181 – il quale lavoratore ha, conseguentemente, diritto a “ricevere dai servizi per il lavoro pubblici o dai soggetti privati accreditati un servizio di assistenza intensiva nella ricerca del lavoro attraverso la stipulazione del contratto di ricollocazione (…) a condizione che il soggetto effettui la procedura di definizione del profilo personale di occupabilità”.
Nello specifico, il Contratto di ricollocazione prevede:
- il diritto del soggetto a una assistenza appropriata nella ricerca della nuova occupazione, programmata, strutturata e gestita secondo le migliori tecniche del settore, da parte del soggetto accreditato;
- il dovere del soggetto di rendersi parte attiva rispetto alle iniziative proposte dal soggetto accreditato;
- il diritto-dovere del soggetto a partecipare alle iniziative di ricerca, addestramento e riqualificazione professionale mirate a sbocchi occupazionali coerenti con il fabbisogno espresso dal mercato del lavoro, organizzate e predisposte dal soggetto accreditato.
A seguito della definizione del profilo personale di occupabilità, al soggetto è riconosciuta una somma denominata «dote individuale di ricollocazione»
spendibile presso i soggetti accreditati. L'ammontare della dote individuale è proporzionato in relazione al profilo personale di occupabilità, e il soggetto accreditato ha diritto a incassarlo soltanto a risultato occupazionale ottenuto.
Il soggetto decade dalla dote individuale nel caso di mancata partecipazione alle iniziative previste dalle lettere b) e c) del comma 4 o nel caso di rifiuto senza giustificato motivo di una congrua offerta di lavoro ai sensi dell'articolo 4, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181 pervenuta in seguito all'attività di accompagnamento attivo al lavoro. Il soggetto decade altresì in caso di perdita dello stato di disoccupazione.
Il governo ha scelto il percorso di una realizzazione graduale della delega ricevuta dal Parlamento, dando priorità, da un lato, all'attuazione del contratto a tutele crescenti - anche in virtù del forte nesso tra quest'ultimo e gli sgravi contributivi e fiscali previsti dalla Legge di Stabilità per le assunzioni a tempo indeterminato - dall'altro alla parziale revisione della regolazione dei sussidi di disoccupazione. La nuova regolazione dell'indennità di disoccupazione contiene senza dubbio degli aspetti positivi - la NASpI tutelerà in modo più efficace i lavoratori disoccupati, ampliando inoltre la tutela dei collaboratori - ma lascia irrisolti gli aspetti di fondo; in particolare non si è proceduto ad una sistemazione complessiva del sistema degli ammortizzatori sociali: il superamento della cassa in deroga non è una soluzione efficace se non si mette mano alla regolazione iniqua della CIG e della CIGS.
In questo contesto è stato inserito il nuovo contratto di ricollocazione, il cui funzionamento dovrebbe essere un nesso centrale della riforma del mercato del lavoro: il pieno e corretto funzionamento di tale strumento è indispensabile se si vuole transitare da un sistema che preservi il posto di lavoro a un sistema che garantisca politiche di supporto e assistenza intensiva alla famiglia e ai lavoratori nella fase di passaggio da un’occupazione a un’altra, integrando in modo sinergico il sostegno al reddito con azioni di reinserimento lavorativo efficaci. Tuttavia, con la regolazione definita del Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 22, il governo non ha avuto la capacità realizzare pienamente le premesse della Legge Delega, ossia stabilire un legame forte fra ammortizzatori sociali, reinserimento lavorativo e riforma dei servizi per il lavoro.
Il provvedimento del governo contiene alcuni aspetti di innovazione, innanzitutto relativamente all’introduzione della “condizionalità” del trattamento, ossia alla previsione che la dote sia vincolata alla partecipazione del lavoratore alle iniziative proposte dal soggetto accreditato e alle iniziative di ricerca, addestramento e riqualificazione professionale mirate a sbocchi occupazionali coerenti con il fabbisogno espresso dal mercato del lavoro, organizzate e predisposte dal soggetto accreditato.
Tale meccanismo – che in Italia è sempre mancato nella gestione delle assicurazioni contro la disoccupazione – è previsto dal Decreto anche con riferimento alla Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l'Impiego (NASpI), sebbene la regolazione della condizionalità per quest’ultima sia stata rimandata all’emanazione di un successivo decreto: la valutazione del legame tra i due aspetti e la loro regolazione diacronica, fa emergere il rischio di una riforma che si realizza parzialmente, a causa di un approccio frammentario e privo di una visione sistemica. Affinché il processo riformatore sia completo, è necessario da un lato che il principio della condizionalità sia esteso a tutte le tipologie di sostegno al reddito – ivi compresi CIGS e mobilità – dall’altro che vi sia una gestione unitaria di queste ultime e delle politiche attive del lavoro, con una forte integrazione anche con i percorsi di formazione e di riqualificazione professionale.
Un altro aspetto non regolato dal Decreto, tuttavia necessario – affinché il principio della condizionalità sia effettivamente efficace - è la definizione delle modalità di risoluzione delle controversie. A tale proposito, una proposta articolata ed efficace era presente nel disegno di legge 1481/2009 di Pietro Ichino, il quale prevedeva l’attribuzione al giudice del lavoro, anche in via cautelare d’urgenza, della funzione di dirimere le controversie che possono insorgere nella fase di esecuzione del contratto di ricollocazione: nel caso il giudice avesse ritenuto che le condizioni poste dal tutor al lavoratore fossero troppo severe, o la disponibilità richiesta fosse irragionevolmente ampia – in relazione alle condizioni del mercato del lavoro locale, alla durata del periodo di disoccupazione e agli esiti dell’attività di ricerca già svolta – lo stesso avrebbe potuto emanare i provvedimenti correttivi opportuni, oppure confermare la validità del recesso dal Contratto di ricollocazione. Nel suddetto disegno di legge era inoltre prevista la possibilità che con l’accordo fossero individuate l’agenzia (o ente bilaterale) e il tutor, nonché eventualmente anche i criteri in base ai quali delimitare la disponibilità richiesta al lavoratore.
Un ulteriore aspetto innovativo ravvisabile nella regolazione del Contratto di ricollocazione contenuta nel Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 22, riguarda l’attribuzione ai soggetti privati - e non solo ai servizi pubblici per l’impiego - della possibilità di gestione del percorso di ricollocazione del lavoratore, introducendo il principio che la discriminante non deve essere tra natura pubblica e privata dei servizi, ma tra i servizi efficienti e quelli che non lo sono, o lo sono di meno.
Una differenza fondamentale tra le procedure di ricollocazione utilizzate nei paesi scandinavi – nei quali tali sistemi sono in vigore fin dagli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso – e il dispositivo adottato in Italia, riguarda la compartecipazione delle imprese ai costi della ricollocazione del lavoratore, la quale non è prevista nei provvedimenti emanati dal Governo. Nel Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 22, si è scelto di non percorrere la strada di coinvolgere le imprese nel meccanismo di ricollocazione del lavoratore e nella condivisione degli stessi costi della dote, scaricando l’intero costo sulle finanze pubbliche: l’’iniziativa è finanziata attraverso il Fondo per le politiche attive del lavoro - istituito, dall'articolo 1, comma 215, della legge 27 dicembre 2013, n. 147 - il quale è stato incrementato, per l'anno 2015, di 32 milioni di euro provenienti dal gettito relativo al contributo di cui all'articolo 2, comma 31, della legge 28 giugno 2012, n. 92. Il Decreto specifica inoltre che, “all'eventuale rifinanziamento del Fondo (…) negli anni successivi al 2015 si provvede con quota parte delle risorse derivanti dai decreti legislativi attuativi dei criteri di delega di cui alla legge 10 dicembre 2014 n. 183”.
Il finanziamento nel futuro del Contratto di ricollocazione appare quindi non sicuro, e di conseguenza la stessa “forza propulsiva” di tale strumento è incerta. Al fine di gravare meno sui conti pubblici, e dare maggiore centralità a tale strumento, sarebbe stato opportuno attribuire alle imprese – in cambio dell’esenzione dal controllo giudiziale sui licenziamenti per motivi economico-organizzativi – non solo il costo di un congruo indennizzo commisurato all’anzianità lavorativa del lavoratore licenziato – aspetto regolato nel Jobs Act – ma anche l’obbligo di farsi carico di un’assicurazione complementare contro la disoccupazione, finalizzata al finanziamento della dote. In tale modo si sarebbe potuto realizzare davvero un sistema a “obblighi corrispettivi”:
- a carico del datore di lavoro l’obbligo della dote finalizzata - mediante un’agenzia dotata della competenza necessaria – all’assistenza intensiva nella ricerca della nuova occupazione e della riqualificazione professionale mirata agli sbocchi effettivamente disponibili;
- a carico del lavoratore l’obbligo di dedicare alle attività necessarie per la ricollocazione, sotto la direzione di un tutor designato dall’impresa, tutto il tempo impegnato fino a quel momento nella prestazione lavorativa: tempo pieno o tempo parziale.
Realizzando un meccanismo siffatto, si sarebbe avuta la possibilità di supportare il lavoratore attraverso un soggetto – il tutor scelto dall’impresa – professionalmente capace di assisterlo in modo efficace nella ricerca della nuova occupazione, ma al tempo stesso di controllarne la disponibilità effettiva e la cooperazione a questo fine. La stessa azione del tutor sarebbe stata motivata da un forte incentivo economico: ad una maggiore efficacia delle iniziative messe in atto per la ricollocazione del lavoratore, sarebbe corrisposto un minore costo dell’operazione per l’impresa.
Il meccanismo di ricollocazione del lavoratore ha quindi necessità di differenti pilastri per essere efficace e restare tale nel tempo, e non tutti sono presenti nel decreto attuativo recentemente emanato dal Governo. Aldilà dell’aspetto sopra descritto, relativo alla compartecipazione dell’impresa ai costi della dote – il quale non deve essere però scambiato per un mero argomento finanziario, potendo avere invece portata strutturale sull’efficacia stessa del percorso di ricollocazione - è necessario sottolineare come ancora il governo non abbia emanato il decreto attuativo relativo alla riforma dell’organizzazione dei servizi per l’impiego e delle politiche attive, in particolare con riferimento all’Agenzia Federale Unica. Tale sentiero di riforma è senz’altro connesso alla riforma costituzionale del Titolo V attualmente all’esame del Parlamento, tuttavia è necessario sottolineare come senza una profonda riorganizzazione dei servizi per l’impiego pubblici qualsiasi riforma del mercato del lavoro rischi di perdere incisività.
In particolare, il complesso meccanismo della ricollocazione necessita di una qualità ed efficacia che i servizi per l’impiego pubblici non sono in grado di garantire, sia per la carenza di strumenti adeguati, sia per mancanza di professionalità adeguate. Le problematiche vanno oltre i SPI, sono più di carattere sistemico, e investono anche i servizi per il lavoro privati, e riguardano principalmente i seguenti aspetti:
• La mancanza di strumenti efficaci di riconoscimento e certificazione delle competenze condivisi a livello nazionale: in un momento nel quale sarebbe necessario avere una classificazione delle qualifiche e delle relative competenze condivisa a livello nazionale (certo salvaguardando le declinazioni e le specificità territoriali, ma garantendo sempre adeguati livelli di transcodifica), che consenta un pieno collegamento con ESCO (european skills competences and occupations), il nostro paese si attarda in una molteplicità di repertori delle qualifiche regionali inadeguati, incompleti e caratterizzati da un inutile approccio autoreferenziale. Lo stesso schema di decreto interministeriale su qualifiche regionali e competenze, recentemente analizzato in sede di Conferenza Stato – Regioni, sembra, per ora, più un elenco di buone intenzioni che un approdo efficace. Gli stessi strumenti progettati in passato o previsti nella legge delega – il libretto formativo, il fascicolo elettronico unico – che potrebbero essere funzionali a un percorso di questo tipo, restano per ora inattuati. È evidente che senza strumenti, professionalità e servizi che siano in grado di riconoscere le competenze del lavoratore, di proporne la riqualificazione o l’integrazione, non vi può essere alcun meccanismo di ricollocazione lavorativa efficace.
• L’incapacità dei servizi per l’impiego – per loro limiti strutturali - e delle agenzie per il lavoro – perché si tratta di attività in parte estranee alla loro mission – di articolare le iniziative di politica attiva per il lavoro secondo una logica “multidimensionale”, ossia di attivare canali di reinserimento lavorativo per tutte le principali tipologie di soggetti disoccupati (adulti con basse qualifiche, adulti con qualifiche standard, giovani con laurea debole, ecc.) e non solo per le categorie “standard” (giovani, donne, over45, ecc.). Per raggiungere un alto livello di efficacia sarebbe necessario andare ancora oltre, fino a ipotizzare un vero e proprio servizio “personalizzato” per la ricollocazione del lavoratore.
La riforma dei servizi per l’impiego costituisce uno dei nodi centrali di una riforma del lavoro efficace e moderna: se si vuole capovolgere il mercato del lavoro nel nostro paese, passando da un sistema che preserva il posto di lavoro a un sistema che tuteli il lavoratore, occorre realizzare una catena che veda indissolubilmente legati la flessibilità in entrata e in uscita, ammortizzatori sociali solidi, politiche attive efficaci e servizi per l'impiego orientati al ricollocamento dei lavoratori. In tale contesto, un approccio innovativo potrebbe essere rappresentato dalla realizzazione di strumenti che consentano la “misurabilità” delle prestazioni dei servizi per il lavoro pubblici (e di quelli privati che operano in convenzione con il pubblico): da questo punto di vista il legislatore potrebbe individuare dei meccanismi che consentano di definire dei “livelli essenziali di prestazione” anche per i servizi per i lavori, analogamente a quanto previsto, ad esempio, in ambito sanitario, anche al fine di consentirne “l’esigibilità” da parte delle aziende e dei lavoratori.
Tutti gli aspetti citati necessitano di una profonda rivisitazione, e richiederebbero un intervento sistemico e non delle correzioni parziali e slegate dal contesto. Per raggiungere questo obiettivo è però necessario capire che la prima e vera precarietà per un lavoratore è la mancanza di competenze, e come tale condizione sia molto spesso determinata da un sistema di istruzione, formazione di inserimento al lavoro che non è in grado di guidare la persona alla crescita della propria occupabilità: questo è lo scenario, immutato, denso di criticità, nel quale il Contratto di ricollocazione si inserisce.
Una “prova generale” di quanto la debolezza dell’infrastruttura dei servizi per il lavoro possa pesare sull’attuazione del Contratto di ricollocazione, si è avuta con il programma Garanzia Giovani, relativamente al quale il nostro paese denota gravi ritardi e inadempienze. Vi sono, tra i due strumenti, differenti analogie, sebbene Garanzia Giovani sia finalizzata all’inserimento lavorativo dei giovani NEET ("Not engaged in Education, Employment or Training"), mentre il Contratto di ricollocazione è uno strumento per favorire il reinserimento lavorativo dei soggetti che hanno perso l’occupazione: entrambi i percorsi necessitano però quella progettualità, capacità di azione, qualità che i servizi per l’impiego – e in parte i servizi privati – non sono in grado di dispiegare, a causa dei limiti sopra descritti.
Senza interventi in grado di porre rimedio a tali limiti strutturali del nostro mercato del lavoro, qualsiasi intervento finalizzato a favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro – sia questo il Contratto di ricollocazione, la Garanzia Giovani, o qualsiasi altro strumento – rischia di essere destinato al fallimento, o al raggiungimento di risultati molto minori rispetto a quelli previsti dal legislatore o necessari.
[*] Laureato in Scienze Politiche all’Università degli Studi di Cagliari, ha conseguito il Master in Safety Management all'Università di Modena e Reggio Emilia. Da oltre dieci anni si occupa professionalmente di consulenza per il mercato del lavoro - in particolare nell’ambito dello sviluppo dei servizi per l’impiego e dei sistemi informativi – e di innovazione e gestione della conoscenza nelle organizzazioni pubbliche e private. www.innovazionelavoro.it
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