Seconda parte
La mancata attuazione dell’art. 39 cit. pone un altro rilevante problema ai sostenitori dell’efficacia soggettiva generalizzata dell’autonomia collettiva “delegata”, quello di verificare i soggetti abilitati a realizzare, nei limiti e nelle modalità considerate, tali pattuizioni. Appare evidente anche a tali teoriche che, in assenza delle formalità prescritte dalla seconda parte dell’art. 39 Cost., è necessario comprendere quali siano, e come vengano selezionate, le organizzazioni sindacali in grado di incidere sulla generale platea di imprenditori e prestatori della categoria interessata, anche a prescindere dal loro consenso. Non è fuori luogo rammentare come a tal proposito la norma costituzionale più volte richiamata richieda, ai fini dell’efficacia erga omnes del contratto, precise formalità – l’iscrizione del sindacato in un registro pubblico – garanzie di democraticità – statuto a base democratica –, nonché di rappresentatività – principio maggioritario –.
Il principio democratico e maggioritario di cui all’art. 39 Cost. comporta, invero, una rigorosa selezione delle organizzazioni sindacali stipulanti contratti oggetto di rinvio legale, in modo che queste abbiano raggiungano una soglia minima di rappresentatività. In altre parole, se si ammette che il patto collettivo, oggetto di rinvio legislativo, sia in grado di estendere la propria efficacia soggettiva ultra partes, il problema selettivo dei soggetti sindacali legittimati alla relativa stipula diviene oltremodo incombente. È pacifico, invero, che consentire a sindacati privi di adeguata rappresentatività di incidere così profondamente nell’ordinamento generale dei rapporti di lavoro troverebbe l’insormontabile ostacolo dell’art. 39, comma 4, Cost., che stabilisce un principio proporzionale e – implicitamente – maggioritario nella rappresentatività dei sindacati stipulanti e, pertanto, esige che questi esprimano la maggioranza degli appartenenti alla categoria di riferimento e che siano tutelate le minoranze ammesse alla trattativa. Non a caso, parte della dottrina qui non condivisa ritiene che, se non nella forma – registrazione dei sindacati – la disposizione costituzionale, deve essere rispettata, nella sostanza del principio maggioritario, dalle singole leggi che dispongono il rinvio medesimo.
Tuttavia, la normativa vigente non fornisce risposte sufficienti, né univoche, alla questione della reale rappresentatività di soggetti sindacali abilitati a porre in essere disposizioni di deroga alla legge, che siano efficaci oltre la cerchia degli iscritti alle associazioni stipulanti o dei non dissenzienti. I criteri adottati sono, com’è noto, quelli della “maggiore rappresentatività” – oramai recessivo – e della “maggiore rappresentatività comparata”.
Va, innanzitutto, registrata la fragilità intrinseca di tali metodi selettivi delle organizzazioni sindacali, connessa al disinteresse legislativo alla specificazione delle nozioni richiamate, nonché alla definizione di criteri o indici per la loro individuazione concreta. È evidente, infatti, che l’astratta operazione normativa di scelta dei soggetti sindacali – ovvero del contratto collettivo – non è sufficiente, occorrendo anche l’operazione di individuazione in concreto dei medesimi, ad opera del giudice. Solo tale seconda attività consente, invero, di identificare il contratto da applicare alla fattispecie concreta.
Ma anche a prescindere dalla precisa individuazione di dette nozioni di sindacato, è certo che esse non s’identificano con quella di cui all’art. 39, Cost.. Sul piano formale, perché i “sindacati più rappresentativi” – comparativamente o meno – non sono i sindacati registrati, aventi uno statuto a base democratica, né pertanto possono avere personalità giuridica. Sul piano procedurale, perché non debbono essere rappresentati unitariamente in proporzione ai loro iscritti. Sul piano sostanziale, perché nessun sindacato richiamato in norme di legge, in assenza dell’attuazione della disposizione costituzionale, ha l’obbligo di offrire quella garanzie di democraticità e di tutela delle minoranze, previste dalla regola maggioritaria e proporzionale di cui all’art. 39 Cost..
I dubbi sulla idonea selezione degli attori sindacali si aggravano se si pone mente alla contrattazione di prossimità (art. 8 d.l. 138/2011), che tante discussioni ha suscitato nelle sedi ermeneutiche. Com’è noto, mediante tale contrattazione di secondo livello – territoriale ed aziendale – è possibile derogare alla legge, oltre che ai contratti collettivi nazionali, «con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati». Tale efficacia generale è dalla legge assicurata, alla condizione che si rispetti un indistinto «criterio maggioritario» relativo alle rappresentanze sindacali legittimate alla stipula. Queste ultime sono individuate in «associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti…».
Non solo la disposizione citata ha aggiunto un’ulteriore ipotesi, per di più molto ampia, di deroga alla legge da parte della contrattazione collettiva, ma ha anche introdotto ulteriori incertezze sull’individuazione di soggetti sindacali abilitati alla relativa stipulazione. Invero, – analogamente a ciò che si è verificato in merito alla nozione di organizzazioni comparativamente più rappresentative – finora in dottrina non si è raggiunta una significativa convergenza né sulla nozione di «criterio maggioritario», né sulla nuova concezione di sindacato «comparativamente rappresentativo sul piano territoriale», né sulle relative rappresentanze aziendali.
La nozione di sindacato comparativamente più rappresentativo è quella maggiormente utilizzata dal legislatore nel modello di rinvio della legge all’autonomia collettiva, sicché è necessario soffermarsi su di essa. Sull’identificazione dei soggetti sindacali dotati dello stigma comparativo si registrano gravi e numerose incertezze, dovute all’omessa specificazione legislativa dei relativi criteri. Inevitabilmente, tali dubbi condizionano negativamente sia l’idoneità astratta del modello di relazioni sindacali a porsi quale reale alternativa a quello prefigurato dal Costituente, sia le attività operative, che necessitano di criteri idonei di individuazione dei soggetti sindacali stipulanti i contratti da applicare al caso concreto. In costanza di unità sindacale, il contratto è agevolmente individuabile in quello stipulato da tutte le maggiori organizzazioni; tuttavia, allorquando ci si trovi di fronte alla contrattazione c.d. separata, è necessario ricorrere ad altre, per quanto possibile puntuali, regole di identificazione. In merito, la giurisprudenza ha individuato vari indici di rappresentatività, quali la consistenza numerica degli iscritti, la presenza in un ampio ambito di settori produttivi, lo svolgimento di attività di negoziazione, contrattazione e autotutela con caratteri di effettività, continuità e sistematicità.
Il Ministero del lavoro, dal canto suo, ha ritenuto che occorresse fare riferimento al numero complessivo delle imprese associate, a quello dei lavoratori occupati, alla diffusione territoriale – numero di sedi presenti sul territorio ed ambiti settoriali –, al numero dei contratti collettivi nazionali stipulati e vigenti (Lettera circolare 1 giugno 2012, n. 10310, ritenuta legittima da TAR Lazio, n. 8865/2014). Tuttavia, tali indici appaiono allo stato, almeno in parte, superati per due fondamentali ragioni. La prima è che essi – più precisamente quelli di matrice giurisprudenziale - furono elaborati principalmente in relazione alla nozione di sindacato maggiormente rappresentativo, in un periodo nel quale vigeva l’unità sindacale, sicché essi non sembrano adeguati a identificare in maniera puntuale, all’esito di un processo comparativo – specie se operato tra le maggiori organizzazioni –, i sindacati legittimati. La seconda è che i criteri in parola non tengono conto dell’attuale processo di “aziendalizzazione” delle relazioni sindacali, sicché, principalmente con riguardo alla contrattazione di prossimità di cui all’art. 8 del d.l. 138/2011 – che pure fa riferimento al criterio comparativo di selezione dei sindacati – essi appaiono chiaramente inappropriati. Discende da quanto sopra che modalità selettive certe, o almeno plausibili, della contrattazione “autorizzata” dalla legge alla produzione normativa non sono, ad oggi, agevolmente rinvenibili.
L’unica soluzione ipotizzabile appare quella che deriva dalla combinazione dell’indeterminato «criterio maggioritario» di cui all’art. 8 cit. e dalle regole della recente stagione contrattuale sulla rappresentanza di cui Protocollo del 31 maggio 2013 e nel c.d. T.U. sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014, come modificato dall’Accordo del 4 luglio 2017. Da tale combinato disposto sembra discendere un generale principio maggioritario nelle relazioni sindacali, quale fondamento democratico delle decisioni negoziali in un contesto in cui la recente esperienza ha dimostrato che l’aspirazione all’unità sindacale può realisticamente venire meno. In questo senso, valorizzando tale principio, si può accogliere quella dottrina che ha recentemente proposto di adottare i criteri delle citate regole negoziali sulla rappresentanza[8]. Si tratterebbe di adottare la soglia del 5%, come media del dato elettorale con il dato associativo, quale criterio ermeneutico diretto ad individuare i sindacati comparativamente più rappresentativi legittimati ad attuare negli accordi collettivi la delega legale. Inoltre, trasponendo anche su questo punto le regole convenzionali introdotte dal protocollo del 2013, la regola contrattuale oggetto di rinvio legale dovrebbe essere ritenuta valida solo se espressa in contratti collettivi di lavoro sottoscritti da organizzazioni sindacali che nel loro complesso raggiungano la soglia del 50% +1 della rappresentatività. L’operazione ermeneutica estensiva si rileva necessaria, in quanto il valore solo obbligatorio e inter partes del protocollo del maggio 2013 non consente di ritenere che i criteri ivi adottati valgano per le ipotesi di rinvio legale.
Per i rilevanti effetti pratici che determina non può essere trascurata la problematica dell’efficacia soggettiva del contratto “separato”, di quel negozio cioè – secondo una condivisa definizione dottrinale[9] – sottoscritto non da tutte le organizzazioni sindacali che, secondo la prassi formatasi nel tempo, identificano le parti del sistema di relazioni negoziali operante nell’ambito di applicazione ove l’accordo è destinato ad operare. Nel momento attuale e nel tema specifico in esame, si può dire che tali organizzazioni s’identificano con quelle “storicamente” più rappresentative. Ragion per cui, nel presente contesto per accordo “separato” si deve intendere il contratto stipulato non da tutti i sindacati tradizionalmente più rappresentativi. Per quanto in precedenza sostenuto, occorre innanzitutto affermare che tale efficacia, in osservanza del principio di libertà sindacale, non può che essere limitata agli iscritti ed ai non dissenzienti, come del resto ritiene gran parte della dottrina e della giurisprudenza. Relativamente alla tesi avanzata in dottrina del rinvio del contratto individuale a quello collettivo che, in quanto rinvio dinamico ad una fonte e non ad uno specifico negozio, impedirebbe al singolo lavoratore il “distacco” dal contratto separato, bisogna precisare che tale rinvio non può ritenersi idoneo a vincolare in modo assoluto il prestatore. Se, infatti, costui fosse iscritto al sindacato dissenziente sarebbe lesa la sua libertà sindacale ove lo si ritenesse vincolato alle previsioni di un contratto che la sua associazione non ha condiviso, salvo che risulti altrimenti il suo consenso. L’opposta opinione, dunque, apre alla possibilità che una clausola contrattuale individuale possa conculcare un diritto costituzionalmente garantito. Per lo stesso motivo, non può ritenersi vincolato il non iscritto ad alcun sindacato – che esercita la sua libertà sindacale negativa –, sempre salvo il suo consenso.
Per quanto concerne, inoltre, il rinvio normativo al contratto stipulato dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative, appare ancor più evidente la necessità della soluzione dell’efficacia meramente inter partes del negozio, in ragione dell’inattuazione dell’art. 39 Cost., che non consente di identificare i sindacati comparativamente più rappresentativi – i soggetti sindacali richiamati dalla norme di rinvio – con quelli registrati. In questo ambito, è da accogliere quella dottrina la quale ritiene che la divisione tra le organizzazioni sindacali di più significativa rappresentatività renda inevitabile, ai fini dell’operatività delle discipline legali di rinvio, la verifica in concreto del carattere comparativamente più rappresentativo della coalizione firmataria del contratto in rapporto all’insieme dei soggetti sindacali esistenti nel settore. Solo in tal modo è possibile, invero, colmare gli spazi regolativi delegati dal legislatore che utilizza la formula selettiva, pena l’invalidità delle norme contrattuali poste in tale ambito, in assenza del requisito soggettivo della coalizione stipulante.
Si badi che in tal caso, come è stato correttamente evidenziato, non si pone la questione dell’efficacia soggettiva del contratto collettivo ma, più a monte, della sua efficacia dispositiva, cioè della sua idoneità all’integrazione della legge. Ove, cioè, in un contratto dovesse rilevarsi l’assenza del requisito di prevalente rappresentatività della coalizione stipulante, in rapporto ai soggetti collettivi dissenzienti, le regole da esso poste in attuazione della legge dovrebbero ritenersi inefficaci anche per gli stessi iscritti alle associazioni stipulanti. Pertanto, in caso di contratto stipulato da soggetti sindacali sprovvisti del titolo della maggiore rappresentatività comparata il problema non sarebbe quello della legittimazione alla rappresentanza, ma della legittimazione regolativa della fonte contrattuale in rapporto a quella legale: quest’ultima rimarrebbe inderogabile da parte di atti stipulati da coalizioni prive di un requisito legalmente richiesto.
Ulteriori argomenti di dibattito riguardano la contrattazione aziendale: il principale è la sua efficacia soggettiva e la sua riconducibilità all’art. 39 Cost..
La tesi che convince maggiormente è quella che assoggetta anche la contrattazione decentrata all’art. 39 Cost. e ne limita, pertanto, l’efficacia soggettiva alle parti stipulanti ed ai relativi iscritti.
In primo luogo, sul piano letterale va evidenziato come la disposizione costituzionale non escluda la contrattazione di secondo livello dal proprio ambito di applicabilità. Inoltre, come ben è stato osservato in dottrina, il contratto collettivo, come tutti gli altri contratti, ha un’efficacia limitata alle parti ex art. 1372 c.c.; ne consegue che le eccezioni a tale regola devono essere espressamente contemplate. Orbene, tale eccezione è contenuta appunto nell’art. 39 Cost.: in mancanza della sua attuazione, pertanto, il contratto aziendale non può che avere efficacia soggettiva limitata ai sensi della disposizione codicistica richiamata.
Quanto alle argomentazioni della tesi contraria, secondo cui il concetto di «categoria» di cui all’art. 39 cit., sarebbe estraneo al livello decentrato, si può osservare, in senso contrario, che quella in questione è una nozione “mobile”, non definibile in astratto. Tale nozione, per di più, è riconducibile all’ordinamento intersindacale, il solo che, in un regime di libertà e pluralismo sindacale, può determinarne i confini. Quindi, essa è suscettibile di varie configurazioni, lasciate all’autonoma scelta dei soggetti sindacali. In tale contesto, non si vede come il concetto in esame possa ridursi al livello nazionale, senza un’evidente forzatura interpretativa, esterna al libero confronto tra le parti. Ne deriva che la categoria designa l’ambito dei destinatari della contrattazione, di qualsiasi livello, liberamente scelto dagli attori sociali.
La conseguenza del ragionamento svolto è che l’art. 39 Cost., nella sua interezza, si applica anche al contratto collettivo di livello aziendale.
Altro problema si riscontra ove la legge utilizzi la formula della maggiore rappresentatività comparata, nata in relazione alle organizzazioni nazionali, senza specificare il livello, sì da indurre l’interprete a ritenere compreso l’ambito contrattuale aziendale. La questione che emerge riguarda la necessità della verifica della rappresentatività anche a livello aziendale – secondo la regola della “concordanza”, vigente ad es. nell’ordinamento francese – ovvero la sufficienza della verifica al livello superiore confederale o nazionale. Al riguardo si deve concordare con chi ritiene che, posto che la formula selettiva è diretta ad individuare il contratto dotato di maggiore effettività, la rappresentatività non può che essere apprezzata con riguardo al corrispondente livello di contrattazione. Quindi, se la legge nomina il contratto aziendale, la rappresentatività non può che essere misurata in relazione a tale ambito decentrato. In caso contrario, invero, si rinuncerebbe a verificare un essenziale dato di idoneità del soggetto sindacale richiesto dalla legge, per presumere, senza riscontro alcuno, la rappresentatività di questo sulla base del possesso del requisito al livello superiore.
Quello della contrattazione di prossimità costituisce un argomento oltremodo sensibile, produttivo di svariati dibattiti e critiche.
I problemi che affliggono tale controverso istituto riguardano la sua compatibilità con le disposizioni costituzionali, tra tutte l’art. 3 e l’art. 39, la sua lamentata genericità ed imprecisione tecnica sotto vari profili, ed infine il suo rapporto con disposizioni preesistenti e successive che, nel rinviare alla contrattazione collettiva di vari livelli, disciplinino le stesse materie dell’art. 8.
In merito al rapporto tra l’art. 8 e gli artt. 3 e 39 Cost., appare arduo non concordare con la grande maggioranza della dottrina che ne ravvisa evidenti profili di contrasto. Con l’art. 3, perché appare indubbio che consentire la potenziale deroga a praticamente quasi tutta la disciplina, legislativa e contrattuale di primo livello, del rapporto di lavoro è irragionevole e sproporzionato nella sede decentrata di contrattazione. In tal modo si rendono possibili, in astratto, radicali differenze di trattamento tra lavoratori, le quali non possono ritenersi costituzionalmente giustificate dalla mera appartenenza degli stessi ad aziende diverse, una che stipula la contrattazione di prossimità e l’altra che non lo fa. Si osservi, in tal senso, che la legge consente che le aziende ipotizzate possono essere anche del tutto simili, quanto a dimensioni, numero di dipendenti, patrimonio. Né i vincoli di scopo normativi appaiono idonei a giustificare trattamenti differenziati, attesa la loro palese genericità ed indeterminatezza, come correttamente osservato in dottrina. In questi termini, non sembra che il Legislatore abbia adeguatamente considerato che la razionalità economico-produttiva – indubbiamente alla base della previsione dell’art. 8 cit. – non coincide necessariamente con quella giuridica.
In relazione all’art. 39, seconda parte, Cost., il contrasto appare ancor più stridente. Invero, quanto alla contrattazione territoriale, la cui sottoposizione alla disposizione costituzionale nessuno ha mai discusso, non è dubbio che i sindacati abilitati a stipulare contratti di prossimità – qualunque sia la loro concreta connotazione soggettiva – non possano identificarsi con i sindacati registrati aventi statuto a base democratica di cui all’art. 39 Cost., i soli soggetti autorizzati a stipulare contratti collettivi con efficacia erga omnes. Circa la contrattazione aziendale, valgono le medesime considerazioni se si ammette, come in questa sede, che anche tale livello è assoggettato all’art. 39 Cost. cit.. Né l’indistinto «criterio maggioritario» citato nell’art. 8 può identificarsi con il diverso principio proporzionale preteso dal precetto costituzionale. Da non sottovalutare, inoltre, è il contrasto con l’art. 39, comma 1, poiché la legge citata impone, di fatto, una gerarchia – per di più “alla rovescia” – tra i livelli di contrattazione, che dovrebbe essere lasciata alla libera determinazione degli attori sociali. E quando tale determinazione si è tradotta in atti concreti, come nel T.U. sulla rappresentanza, il suo contenuto contrasta in maniera palese con il disposto dell’art. 8, nella misura in cui affida il rapporto tra livello nazionale e livelli decentrati alla tradizionale sovraordinazione del primo, quantomeno in termini di coordinamento.
Relativamente ai rapporti tra l’art. 8 e le disposizioni, preesistenti o successive, che regolino le medesime materie, la tesi preferibile appare quella di ritenere il medesimo art. 8 norma speciale, in quanto avente profili del tutto peculiari quanto ad ambito di applicazione, vincoli di scopo, efficacia soggettiva e potere derogatorio. Ne consegue che la sua disciplina dovrebbe prevalere sulle altre, in osservanza del brocardo lex specialis derogat legi generali. In tal modo, qualunque contratto decentrato che riguardi le materie dell’art. 8 dovrebbe essere sottoposto alla relativa disciplina, a prescindere dal richiamo delle parti. Per lo stesso motivo le deroghe alla legge della contrattazione di prossimità prevalgono su quelle previste dalla contrattazione ordinaria, sebbene quest’ultima non possa ritenersi “espropriata” del potere derogatorio previsto dalla legge in riferimento alle medesime materie. In tale ordine di idee, può sostenersi che le deroghe della contrattazione nazionale abbiano carattere “cedevole” rispetto a quelle della contrattazione di prossimità, essendo dunque destinate ad essere sostituite da diverse previsioni di quest’ultima.
La Prima Parte è stata pubblicata sul numero 37-38 di Lavoro@Confronto
[8] P. PASSALACQUA, Il modello del sindacato comparativamente più rappresentativo nell'evoluzione delle relazioni sindacali, in DRI, 2, 2014, 378 ss.
[9] A. MARESCA Accordi collettivi separati: tra libertà contrattuale e democrazia sindacale, in RIDL, 2010, I, 29 ss..
[*] Funzionario dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro in servizio presso la Sede dell’ITL di Como. Dottore di Ricerca in “Formazione della persona e mercato del lavoro” presso l’Università di Bergamo. Il presente contributo è tratto, con modifiche e adattamenti, dalla monografia La contrattazione collettiva nel diritto sanzionatorio del lavoro, ADAPT University press, 2018, cui si rimanda anche per le citazioni bibliografiche. Esso è frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non impegna l’Amministrazione di appartenenza.
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