Seconda parte
L’invecchiamento demografico rischia di mettere sotto pressione i sistemi previdenziali dei Paesi interessati dal fenomeno a causa dell’aumento dello squilibrio tra coloro che hanno diritto al trattamento pensionistico e coloro che sono in attività e, pertanto, versano i contributi previdenziali[85].
Il fenomeno di ageing – e il conseguente incremento del tasso di dipendenza, come visto nel paragrafo precedente – presenta forti implicazioni economiche, condizionando in maniera significativa le dinamiche del mercato del lavoro e la tenuta dei modelli tradizionali di welfare.
Considerato che il dividendo demografico è uno dei principali motori dell'economia, a una diminuzione della forza-lavoro segue, verosimilmente, una contrazione economica. Nello stesso tempo, la decrescita dei tassi di occupazione o, meglio, la riduzione della popolazione “attiva”, comporta la diminuzione dei contribuenti, minando così la sostenibilità di molti schemi pensionistici[86]. Si può, quindi, sostenere che il processo di invecchiamento demografico costituisce un fattore “potenzialmente e gravemente destabilizzante del sistema pensionistico”[87].
Per garantire la sostenibilità del sistema di welfare e, in particolare, della spesa pensionistica[88], la misura più frequentemente adottata è il differimento dei termini per l’accesso alla pensione, come dimostrano le riforme pensionistiche introdotte da numerosi Paesi europei nell’ultimo ventennio[89].
Probabilmente è proprio “nell’ottica di questo imperativo economico che vanno letti i targets quantitativi fissati all’inizio del secolo con la strategia di Lisbona”[90], che prefissava il raggiungimento entro il 2010 di un tasso di occupazione dei lavoratori ultracinquantacinquenni pari al 50%. Nella medesima prospettiva può essere interpretata la strategia Europa 2020, che propone il più generico obiettivo del 75% di soggetti occupati nella fascia d’età 20-64 anni.
Anche nel documento delle Nazioni Unite Millennium Development Goals (2015)[91], che si propone di dimezzare la povertà nel mondo, è previsto un programma d’azione per realizzare “una società per tutte le età”, in cui “ogni persona possa giocare un ruolo attivo e le generazioni possano investire l’una nell’altra e condividere i frutti di tale investimento, guidate dal duplice principio di reciprocità e di equità”[92].
La sostenibilità di lungo periodo dei sistemi pensionistici è un tema che sta particolarmente a cuore all’Unione Europea: già nel marzo 2001 il Consiglio Europeo ha sottolineato la necessità di “chiare strategie per garantire l'adeguatezza dei sistemi pensionistici [...] mantenendo allo stesso tempo la sostenibilità delle finanze pubbliche e la solidarietà intergenerazionale”[93].
Nell'ambito del successivo Consiglio Europeo, tenutosi a giugno 2001, la relazione presentata dal Comitato di protezione sociale – intitolata “Pensioni adeguate e sostenibili” – ha evidenziato la necessità di un approccio globale al fine di raccogliere le sfide poste dall'invecchiamento della società. Al riguardo sono stati individuati tre principi volti a garantire la sostenibilità a lungo termine dei sistemi pensionistici, consistenti nella salvaguardia della capacità di realizzare gli obiettivi sociali (cioè, fornire redditi sicuri e adeguati ai pensionati e alle persone a loro carico e garantire condizioni di vita dignitose a tutti gli anziani), nel mantenimento della sostenibilità finanziaria (affinché il futuro impatto dell'invecchiamento sulle finanze pubbliche non ne comprometta la stabilità a lungo termine) e nel potenziamento della capacità dei sistemi pensionistici di rispondere alle mutevoli esigenze della società e dei singoli individui, contribuendo a promuovere la flessibilità del mercato del lavoro e le pari opportunità in materia di occupazione e protezione sociale[94].
Nel 2003 la Commissione Europea ha redatto la “Relazione congiunta in materia di pensioni adeguate e sostenibili”[95], da cui emerge la necessità di un incremento del tasso di occupazione al fine di conseguire un maggior afflusso di risorse finanziarie alle casse degli enti previdenziali e scongiurare così il rischio di default a causa dell’aumento dell’indice di dipendenza degli anziani.
Gli interventi di slittamento dei traguardi pensionistici sono pienamente riconducibili a tali obiettivi. Anzi, “per ciò che concerne l’occupazione sostenibile, possono rivelarsi fondamentali sia la non esclusione dei lavoratori più anziani, sia l’inserimento e l’integrazione di soggetti che hanno già superato l’età pensionabile”[96]. Proprio dal confronto con mercati concorrenti, come quello americano e giapponese, emerge con chiarezza che il tasso di occupazione in Europa è sensibilmente inferiore. Uno sviluppo sostenibile richiede, pertanto, non solo che i lavoratori continuino la propria attività professionale fino al raggiungimento dell’età pensionabile, ma che vengano incoraggiati a lavorare anche nel periodo successivo al pensionamento: “queste sono le questioni cruciali che stanno sul tappeto se l’obiettivo è quello di creare dei sistemi pensionistici e occupazionali sostenibili”[97].
In effetti, in Italia, il prolungamento della vita lavorativa appare più una scelta dettata dalla necessità di contenimento della spesa pubblica che un tentativo di attuazione delle politiche di active ageing.
Il primo comma dell’art. 24 d. l. n. 201/2011, convertito in l. n. 214/2011, rubricato “disposizioni in materia di trattamenti pensionistici”, indica chiaramente le finalità a cui si ispira l’intera riforma pensionistica Monti-Fornero: “garantire il rispetto degli impegni internazionali e dell’Unione Europea, dei vincoli di bilancio, la stabilità economico-finanziaria e rafforzare la sostenibilità di lungo periodo del sistema pensionistico in termini di incidenza della spesa previdenziale sul prodotto interno lordo”.
Solo alla lett. c) del primo comma dell’art. 24 si accenna all’“adeguamento dei requisiti di accesso alle variazioni della speranza di vita”. Nessun riferimento esplicito viene fatto all’invecchiamento attivo, anche se nella lett. b), concernente la “flessibilità nell’accesso ai trattamenti pensionistici anche attraverso incentivi alla prosecuzione della vita lavorativa” può essere ravvisata una delle misure “tipiche” dell’active ageing.
Inoltre, nel testo normativo non si rinvengono disposizioni di destinazione specifica delle risorse provenienti dal risparmio di spesa, perciò “si avverte la sensazione che la manovra pensionistica vada poco al di là della mera funzione di contenimento”[98].
È proprio in questo delicato ambito che emerge con maggiore evidenza “il tema più generale del rapporto tra diritti ed economia, tra sostenibilità economica e sostenibilità sociale delle scelte legislative, oltre a quello della crisi del welfare state, divenuto ormai il terreno privilegiato (e consapevole) per l’attecchimento di politiche di contenimento e di riduzione della spesa pubblica”[99]. In tal modo, però, si rischia di trasformare una previsione macroeconomica in un vincolo giuridico, creando “un’interna contraddizione tra la natura della previsione (probabilistica) e la natura del vincolo giuridico (coattiva)”[100].
L’esperienza storica dimostra come spesso il legislatore intervenga sul sistema di welfare in occasione di crisi economiche[101] o, per meglio dire, “il welfare viene inserito in un contesto economico nel quale l’emergenza sembra connotarsi come sistema”[102]. La riforma pensionistica Monti-Fornero ne è la conferma[103], visto che è stata introdotta, con decretazione d’urgenza, per fronteggiare la grave situazione economico-finanziaria che ha afflitto – non solo – l’Italia nell’ultimo scorcio del 2011[104] e rispondere alle “pressioni” dell’Unione Europea[105].
Tale modalità di intervento – caratterizzata, appunto, dall’emergenza – non appare per nulla adatta a scelte così importanti e delicate quali quelle che incidono sul sistema pensionistico, come dimostrano le conseguenze, prima tra tutte la drammatica vicenda dei c.d. esodati[106].
La citata riforma pensionistica – “apparentemente” mirata alla razionalizzazione del modello elaborato nel 1995 – in realtà è esclusivamente finalizzata al contenimento della spesa pubblica, come si evince da sintomi evidenti: la progressiva, sensibile e generalizzata elevazione dell’età pensionabile, severe restrizioni nei criteri di calcolo, neutralizzazione dei meccanismi di adeguamento all’inflazione, ecc…[107]. E, comunque, la “girandola” di provvedimenti legislativi emanati in rapida successione dal 2009 per arginare le conseguenze della crisi globale – dell’Eurozona e del nostro Paese in particolare – non sono per nulla marginali, ma, anzi, tali da “alterare decisamente i connotati al sistema”[108].
Anche la precedente normativa in materia pensionistica[109] poteva essere annoverata tra le c.d. norme di scopo per il perseguimento di un obiettivo socio-economico e la funzionalizzazione a tale fine, ma nel primo comma dell’art. 24 d. l. n. 201/2011 tale esigenza “riecheggia con ben altra consapevolezza e drammaticità”[110]. A conferma di ciò, proprio nello stesso periodo è stata ampiamente discussa e poi approvata una significativa modifica all’art. 81 Cost.[111], caposaldo del diritto amministrativo e finanziario. Considerato che “lo Stato assicura l'equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico”, all’interprete non resta che interrogarsi su quanto l’obbligo del pareggio di bilancio e del – conseguente – contenimento della spesa pubblica incida sul sistema previdenziale. In una “fase avversa” del ciclo economico, cioè in tempo di crisi, fino a che punto “l’argine” costituito dai principi costituzionali di cui agli artt. 35, 36 e 38 possono “reggere l’impatto delle esigenze del mercato”[112] senza frustrare i diritti dei lavoratori, giovani o anziani che siano? Inoltre, è opportuno sottolineare che il riferimento – più o meno esplicito – all’esigenza di contenimento della spesa sociale “vale a sottrarre la materia della riforma pensionistica al bersaglio eventuale del referendum abrogativo ex art. 75, comma 2, Cost., proprio per la sua riconducibilità alla nozione di finanza pubblica”[113].
In tale prospettiva è verosimile concludere che il prolungamento della vita lavorativa – attraverso l’innalzamento dell’età pensionabile – pur rispondendo alla naturale esigenza di adeguamento all’aumentata speranza di vita e incarnando un tentativo di attuazione delle politiche di active ageing promosse dall’Unione Europea, in realtà è soprattutto la risposta più semplice e immediata al problema delle esigue risorse disponibili e della sostenibilità del sistema previdenziale.
Tale necessità, ovviamente, è maggiormente sentita e urgente in periodi di contrazione economica, quale quello che ha investito il nostro Paese negli ultimi anni. Non si tratta, però, di una soluzione, ma semplicemente di un palliativo, un mero temporeggiamento. Inoltre, è stato rilevato che si tratterebbe soltanto di un effetto “differito”, in quanto un maggior numero di occupati oggi significa anche, in prospettiva, un maggior numero di pensionati domani – presumibilmente con un trattamento pensionistico più elevato – e, dunque, “un’ipoteca di maggior spesa futura”[114]. In caso, poi, di una massiccia introduzione di forme di decontribuzione per incentivare l’incremento di occupazione, lo scenario di sostenibilità previdenziale in futuro potrebbe presentarsi ancora più fragile[115].
In sostanza, per prevenire lo scompenso dei sistemi previdenziali è fondamentale che vi sia equilibrio tra anziani e giovani, cioè tra pensionati e popolazione attiva[116].
Una volta esaminate le ragioni che hanno condotto il legislatore – non solo in Italia, ma anche in gran parte dei Paesi europei – ad allungare la vita lavorativa per adeguarla all’aspettativa di vita, alla promozione delle politiche di active ageing e alla sostenibilità del sistema previdenziale, il passo successivo consiste nell’interrogarsi sulle ripercussioni che ciò comporta sul mercato del lavoro.
È, infatti, inevitabile che l’elevazione dell’età pensionabile entri in conflitto, da una parte, con le sfide conseguenti alla globalizzazione e alla competitività tra le imprese e, dall’altra, con una dilagante disoccupazione giovanile e con le esigenze di ricambio generazionale.
Vi sono molti fattori che spiegano l’incidenza – negativa – del fattore anagrafico sul mercato e sul rapporto di lavoro. In primis, sussiste un condizionamento culturale: il fatto che i lavoratori più anziani vengano espulsi dal circuito produttivo “non è un caso, ma la conseguenza di una concezione ancora largamente condivisa in troppi Paesi. Secondo la convinzione generale, giovane è bello”[117].
Secondo tale retaggio culturale, i lavoratori più anziani vengono considerati meno produttivi, non abbastanza flessibili, poco adatti alla formazione, incapaci di utilizzare adeguatamente le nuove tecnologie[118]. Non sempre ciò corrisponde alla realtà e, pertanto, sarebbe necessaria una “rivoluzione culturale”[119]: “l’immagine dell’anziano va rovesciata completamente, valorizzandone capacità e competenze, invece di sottolinearne presunti costi sociali e quasi inevitabile improduttività”[120].
È innegabile, comunque, che la globalizzazione dei mercati costituisca una vera e propria sfida per le imprese, stimolandole a una competitività che supera i confini nazionali e richiede un grande impegno nell’incremento della produttività e nel miglioramento degli standard qualitativi al minor costo possibile. In tale prospettiva è necessario mantenersi al passo con la rapida diffusione delle tecnologie di comunicazione ed essere flessibili a modelli di organizzazione del lavoro in continua e repentina trasformazione[121].
Risulta, pertanto, inevitabile che i lavoratori meno giovani siano quelli più svantaggiati da tale andamento del mercato del lavoro: la forza-lavoro più anziana, in genere, non possiede sufficienti conoscenze tecnologiche e, per lo più, ha qualifiche professionali che difficilmente si adattano ai rapidi cambiamenti imposti dalle trasformazioni tecniche e strutturali. Lo stesso bagaglio professionale e di esperienza che i lavoratori maturi possono vantare rischia di perdere importanza di fronte alle esigenze variegate e sempre nuove che provengono dal mercato internazionalizzato. Inoltre, nella maggior parte dei Paesi occidentali è stato rilevato che l’occupazione dei lavoratori anziani “costa” di più al datore di lavoro, in quanto la retribuzione è generalmente svincolata dal parametro della produttività e aumenta in funzione dell’anzianità di servizio[122]. Infine, i dati statistici e gli studi di settore rilevano una sovraesposizione dei lavoratori anziani ai rischi professionali[123] o, per lo meno, una più lunga e difficile convalescenza nelle ipotesi di infortunio sul lavoro. Al riguardo, è interessante rilevare che la normativa prevenzionistica inserisce l’età del lavoratore tra i fattori che il datore di lavoro deve considerare nella fase di valutazione dei rischi professionali, nell’individuazione delle misure di tutela di cui all’art. 15 d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 e nell’organizzazione della sorveglianza sanitaria nei casi disciplinati[124].
Sono questi, generalmente, i motivi che giocano a favore di un c.d. “svecchiamento” dell’organico aziendale e gli interventi di epurazione – spesso intrapresi in occasione di processi di riorganizzazione, ristrutturazione e riconversione aziendale – riguardano anche lavoratori infracinquantenni[125].
Tale esigenza di ringiovanimento dell’organico aziendale cozza inevitabilmente contro l’allungamento del termine per l’accesso al trattamento pensionistico. Al tempo stesso, è opportuno rilevare che “le imprese sono istituti economici destinati a perdurare” e, pertanto, “nell’incessante rinnovamento che si realizza nell’attività dell’impresa, dei suoi mezzi, dei suoi uomini, nelle strutture in cui sono organizzati”[126], si rende necessaria anche una sorta di continuità. Le imprese hanno la necessità di poter programmare la struttura demografica del personale per poter garantire la propria sopravvivenza[127]. In fondo, i lavoratori più anziani sono “portavoce di esperienza e attaccamento alla professione e all’impresa e, per questo, rappresentano una risorsa fondamentale”[128].
L'invecchiamento non è soltanto un problema da risolvere o almeno da tenere sotto controllo, ma può essere considerato una conquista sociale. I meno giovani hanno ancora molto da dare alla società, se ne viene data loro l'opportunità. Il vero problema non è demografico, ma economico e giuridico, cioè “come assicurare l'occupazione a tutti coloro che possano e vogliano lavorare”[129].
Si torna così al punto di partenza di un vero e proprio rompicapo: “i giovani e gli anziani sono i due punti di sofferenza dell’occupazione. Si tratta di un problema di carattere contingente, aggravato dalla crisi, ma anche strutturale”[130].
L’attuazione delle misure di active ageing e, in primis, il prolungamento della vita lavorativa, rischia di tradursi in un’accentuazione della preminenza degli insider nei confronti degli outsider [131], ponendo un freno all’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro[132]. In tal modo può realizzarsi una vera e propria spaccatura del mercato del lavoro, frustrando – o, comunque, rimandando a data da destinarsi – le aspettative dei giovani in cerca di occupazione.
Tale situazione è ancora più drammatica in periodi di crisi economica e di grave disoccupazione giovanile. Secondo i dati Eurostat[133], la disoccupazione dei giovani fino a 25 anni è ancora preoccupante in Italia, che, con il suo 40,5% a maggio 2015, si posiziona al quarto posto in Europa, dopo Grecia (51,8% a maggio 2015), Spagna (48,6%) e Croazia (43,1% nel secondo trimestre 2015). La media della disoccupazione giovanile nell’Eurozona resta, invece, stabile al 21,9%, mostrando un lieve calo rispetto all’anno precedente (23,8%)[134].
Resta elevata anche la percentuale di giovani (15-24 anni) c.d. NEET[135], cioè disoccupati ed estranei ad ogni ciclo di istruzione e formazione[136], evidenziando così la necessità di un rafforzamento del collegamento tra scuola e lavoro[137].
La difficile inclusione dei giovani nel mercato del lavoro e la spada di Damocle del crescente tasso di dipendenza degli anziani dalle persone in età da lavoro sono rilevanti elementi di squilibrio del sistema e rappresentano, come visto, una grave preoccupazione per la Commissione Europea, che considera la questione generazionale nel mercato del lavoro[138] come una vera e propria “minaccia alla coesione sociale”[139].
Alla luce di ciò, l’attenzione nei confronti della solidarietà intergenerazionale resta una priorità per l’Unione Europea, per i governi nazionali e anche per le parti sociali: è quanto mai attuale e urgente la necessità di adeguare la legislazione sociale a tali esigenze, in modo da porre concretamente le basi per una “società aperta a tutte le età”[140].
La Prima Parte è stata pubblicata sul numero 37-38 di Lavoro@Confronto
[1] L’articolo è tratto dalla tesi di “Dottorato di ricerca in Diritto dell’economia e dell’impresa, di procedura civile e di
diritto internazionale” dal titolo “La prosecuzione del rapporto di lavoro oltre l’età pensionabile: tra tutele individuali ed esigenze di ricambio generazionale”, discussa dall’Autrice il 14-12-2015 presso la Sapienza Università di Roma. I risultati di tale ricerca sono stati pubblicati nell’opera monografica “Età pensionabile e prosecuzione del rapporto di lavoro. Tutele individuali e misure di ricambio generazionale”, edita da Editoriale Scientifica nel 2017.
[85] S. Buchholz – A. Rinklake – J. Schilling – K. Kurz – P. Schmelzer – H. Blossfeld, Introduction, in H. Blossfeld – S. Buchholz – K. Kurz, Op. cit., p. 8.
[86] Sul punto vd. anche G. Casale, Invecchiamento e sistemi sociali: una prospettiva internazionale, in Dir. rel. ind., 2005, IV, p. 938.
[87] M. Cinelli, La sfida demografica al sistema delle pensioni tra immaginario e realtà, in Riv. dir. sic. soc., 2003, II, p. 433.
[88] Sul punto vd. Commissione Europea, Libro bianco. Un’agenda dedicata a pensioni adeguate, sicure e sostenibili, Bruxelles, 2012, p. 55.
[89] Vd. par. 1 del presente capitolo.
[90] D. Izzi, Active ageing e divieti di discriminazione in base all’età: quali tutele per i lavoratori anziani dell’Unione Europea?, 2014, in www.iris.unito.it., p. 2.
[91] Vd. www.un.org.
[92] Vd. G. Casale, Op. cit., p. 938.
[93] Paragrafo n. 32 delle conclusioni della Presidenza.
[94] Cfr. M. Virgili, La convergenza sul piano comunitario dei sistemi di protezione sociale, in Dir. rel. ind., 2006, III, p. 690.
[95] Documento del 3 marzo 2003, n. 6527.
[96] A. Numhauser-Henning, Op. cit., p. 478.
[97] A. Numhauser-Henning, Op. cit., p. 484.
[98] P. Sandulli, Il settore pensionistico tra una manovra e l’altra. Prime riflessioni sulla legge n. 214/2011, in Riv. dir. sic. soc., 2012, I, p. 3.
[99] M. Barbieri – M. D’Onghia, Alcune buone ragioni per discutere di una buona sentenza, in M. Barbieri – M. D’Onghia (a cura di), La sentenza n. 70/2015 della Corte Costituzionale, in WP Csdle “Massimo D’Antona”, Collective Volumes, 2015, IV, p. 7.
[100] P. De Ioanna, Tra diritto ed economia: la Corte Costituzionale fissa alcuni punti fermi, ma riapre un nesso cruciale, in M. Barbieri – M. D’Onghia (a cura di), Op. cit., p. 55.
[101] Cfr. V. Ferrante, Recenti evoluzioni nella disciplina degli ammortizzatori sociali: fra sostegno alla riduzione dell’orario e generalizzazione delle tutele, in Dir. rel. ind., 2009, IV, p. 918.
[102] R. Pessi, Ripensando il welfare, in Riv. dir. sic. soc., 2013, III, p. 477.
[103] Sul punto, vd. M. Cinelli, La Riforma delle pensioni del “Governo tecnico”. Appunti sull’art. 24 della legge n. 214 del 2011, in Riv. it. dir. lav., 2012, II, p. 385. Cfr. anche P. Sandulli, Op. cit., p. 1.
[104] Cfr., ad esempio, art. 24, comma 25, d. l. n. 201/2011: “in considerazione della contingente situazione finanziaria”.
[105] Per un approfondimento sulle pressioni conseguenti alla “lettera” della Banca Centrale Europea, cfr. P. Sandulli, Op. cit., p. 4 ss: “le scelte dei legislatori nazionali nelle materie sottratte al ravvicinamento e all’armonizzazione sono giuridicamente libere, eppure politicamente condizionate”.
[106] Tale questione, che ha ricevuto una grande attenzione mediatica rappresenta uno dei punti più tormentati della riforma, tanto da aver richiesto numerosi rimaneggiamenti e correttivi, sia in ambito legislativo che amministrativo: per un approfondimento, vd. V. Ferrante, Dal governo “dei tecnici” a quello “delle larghe intese”: come cambia il sistema previdenziale, in Riv. giur. lav., 2014, I, p. 205.
[107] Vd. R. Pessi, Op. ult. cit., p. 479.
[108] O. Bonardi, Non è un paese per vecchie. La riforma delle pensioni e i suoi effetti di genere, in Riv. dir. sic. soc., 2012, III, p. 514.
[109] Cfr. art. 3 l. 23 ottobre 1992, n. 421; l. 8 agosto 1995, n. 335; l. 27 dicembre 1997, n. 449; l. 23 agosto 2004, n. 243; l. 24 dicembre 2007, n. 247.
[110] P. Sandulli, Op. cit., p. 8.
[111] Vd. art. 1 l. cost. 20 aprile 2012, n. 1.
[112] Cfr. M.C. Cataudella, La retribuzione nel tempo della crisi: tra principi costituzionali ed esigenze di mercato, Giappichelli, Torino, 2013, p. VIII.
[113] P. Sandulli, Op. cit., p. 8.
[114] M. Cinelli, Op. cit., p. 448.
[115] M. Cinelli, Op. cit., p. 449.
[116] Sul punto, vd. A. M. Ponzellini, Problemi e prospettive dell’occupazione giovanile: un quadro comparato. Il rapporto tra generazioni nel lavoro. Disugualianza senza conflitto?, in Dir. rel. ind., 2009, III, p. 537.
[117] R. Blanpain, Op. cit., p. 942.
[118] Cfr. S. Ouchi, Il trattamento dei lavoratori in relazione all’età nell’ordinamento giapponese, in Dir. rel. ind., 2005, IV, p. 997: l’autore evidenzia come nell’economia giapponese i lavoratori più anziani costituiscano un “peso” per le imprese, perché la produttività tende a calare negli ultimi anni della carriera.
[119] Cfr. Y. Suwa, Età e disoccupazione in Giappone: da dove a dove?, in Dir. rel. ind., 2005, IV, p. 986: l’autore afferma che nel mercato del lavoro giapponese i lavoratori anziani “sono rispettati, ma non necessari”.
[120] P. De Nardis, Il testimone è caduto: giovani e anziani nel mercato del lavoro, relazione tenuta in occasione del Convegno Astril “La questione generazionale nella dinamica dell’occupazione. Giovani e anziani nel mercato del lavoro”, 21 marzo 2013 presso l’Università Roma Tre, in www.uniroma3.it.
[121] Cfr. H. Blossfeld – S. Buchholz – K. Kurz, Op. cit., p. 6.
[122] Vd. H. Blossfeld – S. Buchholz – K. Kurz, Op. cit., p. 7.
[123] Vd. Fondazione ISTUD, L’epidemiologia e i costi degli infortuni e delle malattie delle risorse umane relativi alla incidenza del fattore anagrafico, progetto di ricerca finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2009, p. 19, in www.istud.it. Tale dato, però, risulta controverso, in quanto non sembra esservi alcuna relazione tra anzianità e rischio infortunistico: ivi, p. 98. Anzi, spesso i giovani sembrano essere più esposti degli anziani per scarsa esperienza, turni di lavoro più stressanti, minor consapevolezza del rischio: ivi, p. 99. È stato, però, anche rilevato che i giovani lavoratori accettano più facilmente l’utilizzo sia di nuove tecnologie che semplificano e rendono più sicura l’attività sia dei dispositivi di protezione individuale: ivi, p. 99.
[124] Cfr. art. 176, comma 3, in riferimento alla periodicità dei controlli riguardanti i videoterminalisti, e Allegato XXXIII d.lgs. n. 81/2008, in materia di movimentazione manuale dei carichi.
[125] M. Cinelli, Op. ult. cit., p. 444.
[126] C. Sorci, La prefigurazione del ricambio generazionale dell’impresa, in AA. VV., Continuità e ricambio generazionale nell’impresa, Giuffrè, Milano, 1995, p. 1.
[127] Sul punto, vd. W. Bromwich – O. Rymkevitch, Op. cit., p. 933.
[128] Fondazione ISTUD, Op. cit., p. 96.
[129] Y. Kryvoi, Smarriti nella transizione: i lavoratori meno giovani nelle economie europee di transizione, in Dir. rel. ind., 2005, IV, p. 1019.
[130] A. Maresca, Introduzione al Convegno Astril “La questione generazionale nella dinamica dell’occupazione. Giovani e anziani nel mercato del lavoro”, 21 marzo 2013 presso l’Università Roma Tre, in www.uniroma3.it.
[131] In realtà, non sussistono prove di un effettivo collegamento tra l’incremento del tasso di occupazione delle persone anziane e l’aumento di disoccupazione giovanile: vd. A. H. Munnell – A. Yanyuan Wu, Do older workers squeeze out younger workers?, SIEPR Discussion paper, 2011, n. 3, p. 4, in www.siepr.stanford.edu.
[132] Cfr. D. Izzi, Invecchiamento attivo e pensionamenti forzati, in Riv. it. dir. lav., 2014, IV, p. 584.
[133] Vd. www.ec.europa.eu.
[134] I Paesi europei con il tasso più basso di giovani senza lavoro sono Germania (7% a luglio 2015), Malta (8,7% a luglio 2015) ed Estonia (9,5% a giugno 2015). Seguono Austria (10,8% a luglio 2015), Olanda (11,3% a luglio 2015), Danimarca (11,7% a luglio 2015), Repubblica Ceca (13,4% a luglio 2015) e Slovenia (16,7% a giugno 2015).
[135] Acronimo di Not (engaged in) Education, Employment or Training.
[136] Per un approfondimento, vd. A. Rycroft, Alternative approaches to combat youth unemployment, relazione tenuta in occasione della seconda Conferenza Internazionale Labour Law Research Network, Amsterdam 25 - 27 giugno 2015, in www.labourlawresearch.net; T. Coelho Moreira, Vulnerable workers in times of crisis: the youth employment in Portugal, relazione tenuta in occasione della seconda Conferenza Internazionale Labour Law Research Network, Amsterdam 25 - 27 giugno 2015, in www.labourlawresearch.net.
[137] Cfr. D. Anxo, Entry and exit patterns from the labour force: a European and life-course perspective, in A. Numhauser-Henning – M. Rönnmar (a cura di), Age discrimination and labour law. Comparative and conceptual perspectives in the EU and beyond, Wolters Kluwer International, 2015, p. 35.
[138] M. Rönnmar, Age discrimination and labour law: a comparative analysis, in A. Numhauser-Henning – M. Rönnmar (a cura di), Op. cit., p. 415.
[139] Vd. A. M. Ponzellini, Op. cit., p. 537.
[140] W. Bromwich – O. Rymkevitch, Op. cit., p. 933.
[*] La Dr.ssa Marianna Russo è Funzionario dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro presso la Direzione Centrale Risorse umane, finanziarie e logistica, attualmente in congedo straordinario per aver vinto il concorso da ricercatrice di Diritto del Lavoro presso l’Università Telematica “Leonardo da Vinci” di Chieti.
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